Funny Games PDF 
di Marco Capriata   

Una serie di semi-plongée disvelano un overlook sovrastante i nostri ignoti protagonisti, di cui percepiamo le voci e il diletto procurato loro dalla musica ascoltata quale gioco familiare, i cui brani suadenti, come il paesaggio lacustre che li circonda, li conduce verso un weekend placido e sereno, fino all'incombere improvviso della musica fuori campo di John Zorn e dei Naked City, urla strazianti, suoni spigolosi e taglienti che introducono un senso di inquietudine accentuato dal contrastante e sarcastico titolo: Funny Games.

Haneke inserisce immediatamente un elemento di conflitto e disturbo evidente, in cui la scelta del gruppo di Zorn - i cui booklet discografici al loro interno non a caso riportano scene di violenza e tortura - sembra voler presagire quanto spetterà ai nostri ignari protagonisti. Il regista dissemina così indizi e segnali di un orrore prossimo a venire, ma che viene lasciato inizialmente sullo sfondo, come nella sequenza del dialogo con i vicini di casa, in cui si intravedono due figure estranee che vengono presunte quali amici di famiglia dei loro attigui proprietari. Ma nel colloquio intercorrente si avverte già un fattore di anormalità, come un imbarazzo, trattenuto dal campo lungo con cui Haneke filma questo primo incontro indiretto con Peter e Paul, per poi progressivamente restringerne i campi di ripresa. Il regista elabora così un lento ma costante percorso di tensione, fino alla visita scatenante la violenza dei due aguzzini, i quali si presentano inizialmente come rassicuranti ed educati vicini, la cui apparente aria serena, esteriorizzata dalle candide vesti, è subito disattesa dall'abbaiare insistito del cane, situazione particolare acuita dall'impiego da parte degli stessi di guanti bianchi, atto a creare un'ulteriore clima di sospetto nei loro confronti.

Il regista non mostra direttamente gli abusi perpetrati dai due giovani, relegando al fuori campo gli atti scatenanti e presentandocene l'esito con discrezione o fugacità, come nella sequenza del ferimento di George, colpito in modo rapido e impercettibile, tanto da trasmettere, in ogni caso efficacemente, la veemenza con cui gli eventi vengono portati a compimento e conferendo loro un ruolo di prevaricatori sadici e asettici. Non ci è dato sapere da quale motivo primigenio derivi questo sterminio progressivo e metodico di una famiglia borghese, perché all'autore non interessa fornire una motivazione (nemmeno George ne comprende veramente il senso, contrariamente a quanto da lui dichiarato in un momento di tensione), depistandoci e rendendoci vittime passive della loro spietata lucidità intellettiva. Ad Haneke interessa piuttosto riflettere sulla nostra fruizione della violenza per immagini, tanto da indurre uno dei suoi attori a parlare direttamente in macchina, rivolgendosi ammiccante allo spettatore, meccanismo tipicamente godardiano, adottato qui dal regista con intento derisorio, per rammentarci la nostra prevedibile fede nella salvezza finale. L'autore, nell'adottare così un elemento di rottura, riproposto anche nel successivo Code Inconnu-Recit incomplet de divers voyages, nel quale, citando il Godard di Prénome Carmen, intervallava le storie di incomunicabilità e violenza quotidiana dei suoi protagonisti con inserti di uno spettacolo di bambini sordomuti, di cui lo spettatore ignora il codice linguistico, a dimostrazione di come non vi sia possibilità di partecipazione e contatto per nessuno, in Funny Games, a suo modo, invece di stemperare la violenza e l'orrore rappresentati, sembra andare oltre, per scardinare quelle false certezze che il cinema spesso propone - come la vita -, e per logorare ogni previsione di fuga, rinviando costantemente un finale di morte, per metterlo da ultimo in loop, evidenziando così la fredda sovraumanità dei suoi latori e la nostra indolente accettazione di tutto questo orrore esistenziale.

E proprio per questo processo psicologico perverso di speranza, continuiamo a seguire le loro vicissitudini, dal ritrovamento del cane morto, sino all'unica scena di violenza in campo, annullata dal riavvolgimento della pellicola/nastro, quale soluzione metacinematografica volta a cancellare la soluzione più favorevole, per così proseguire nell'atto definitivo dello sterminio totale. Haneke gioca con lo spettatore per mostrarne gli aspetti deteriori della propria natura, a partire dalla fruizione voyeuristica del male, qui rappresentato, omesso o ripreso in campo lungo, come il cadavere del piccolo Georgie, figura impercettibile su uno sfondo avvolto dal rumore ossessivo e penetrante del televisore quale elemento sonoro di tortura, accentuata dal piano sequenza che racchiude un quadro di morte e violenza insensata, al cui interno lo sguardo astante cerca di mettere a fuoco cinicamente tutti gli elementi che lo compongono. L'implacabilità con cui il regista filma questo gioco al massacro è ancor più sottile nel momento in cui pare concedere una speranza ai suoi protagonisti, i quali si ritrovano a riflettere e soffrire per quanto è loro avvenuto, riuscendo a toccare con notevole sensibilità momenti di intimità umana verosimili, in cui la comprensione ed il perdono reciproco sono traguardi difficilmente raggiungibili in simili circostanze.

Non c'è speranza né salvezza per nessuno, ci ricorda infine Haneke: il tutto avviene con una essenzialità raggelante, come una caccia tra gatto e topo, in cui sino alla fine si confida in un elemento distraente in grado di risvegliarci dall'incubo, ma che, come dimostra il sorriso beffardo di Paul in macchina, non avrà mai termine, forse perché nella sua consapevole falsità cinematografica appare così maledettamente plausibile.

 


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