Shoah PDF 
Elisa Mandelli   

Non ci sono dubbi: nel parlare di un film sulla Shoah non è possibile parlare solo di cinema. Perché, ancora prima, realizzare un film sulla Shoah non significa solo realizzare un film: significa piuttosto confrontarsi con un evento che ha sconvolto il Novecento, significa prendere posizione (più o meno consapevolmente) in un dibattito i cui snodi non smettono oggi di essere vivi, attuali e infinitamente problematici. Fare un film sulla Shoah vuol dire porsi, e necessariamente rispondere, ad una serie di domande (estetiche, ma innanzitutto etiche) che devono – o almeno dovrebbero – invitare a non lasciare niente al caso, a riflettere consapevolmente e criticamente sul nostro rapporto con le immagini, e di queste ultime con la Storia e la memoria: come mostrare in modo “giusto” lo sterminio perpetrato dai nazisti? La parola e le immagini possono rendere davvero conto della sua “verità”? Come restituirne l’orrore senza sminuirlo, estetizzarlo, o ridurlo ad un vuoto cliché? Ancora, nel rappresentare eventi così estremi, così tremendi, esistono delle regole da seguire, dei criteri con cui orientarsi, dei limiti da non oltrepassare?

Tutte queste domande (e molte altre ancora) attraversano nel profondo l’imponente opera di Claude Lanzmann, Shoah (1985), in cui, nel corso di quasi dieci – densissime – ore, il racconto dello sterminio degli ebrei è affidato direttamente alle voci di coloro che ne sono stati testimoni diretti. Da questo lungo e doloroso flusso memoriale è esclusa non solo ogni ricostruzione finzionale, ma anche qualsiasi filmato di repertorio, qualsiasi ripresa effettuata direttamente nei campi (come quelle, sconvolgenti, che gli alleati realizzavano man mano che li liberavano): di fronte all’irrappresentabilità della Shoah, nessuna immagine può restituirla senza intimamente tradirla, può mostrarla senza fatalmente ridurne la tragica portata. In opposizione a quella che stava diventando in quegli anni una stereotipizzazione dell’immaginario legato dell’Olocausto (i cliché dei corpi ammassati e riversati nelle fosse, dei vivi ridotti a spettri di pelle e ossa, dei vestiti e degli oggetti ammucchiati), e con una radicalizzazione di posizioni già tese a porre dei vincoli ai discorsi (non solo) cinematografici sullo sterminio operato dai nazisti (si pensi a Rivette, alla sua celeberrima stroncatura dell’”abietta” carrellata che in Kapò si posa sul volto di una deportata appena suicidatasi), Lanzmann opera insieme per sottrazione e per accumulo. Sottrazione di quanto, come il materiale d’archivio, pretende di mostrare e di testimoniare, ma in realtà non rivela nulla, non prova nulla, ed è semplicemente, come dirà più tardi lo stesso Lanzmann, “immagine senza immaginazione”. Restrizione, poi, del proprio oggetto: non si può parlare genericamente di campi, ma è necessario operare una netta distinzione tra quelli di concentramento (dunque di lavoro) e quelli di sterminio, in cui i prigionieri non restavano che poche ore prima di essere uccisi, e nei cui orrori erano calati coloro che udiamo parlare nel film. Accumulo, dall’altra parte, di una mole impressionante di materiali (circa 350 ore di girato, che hanno richiesto cinque anni, su undici di lavorazione, solo per essere montati): volti, voci, gesti, luoghi, rumori, ma anche silenzi, reticenze, assenze, non detti.

Una serie di lunghe interviste raccoglie le parole dei testimoni dell’orrore dei campi di sterminio di Sobibor, Treblinka, Chelmno, Vilna, Auschwitz-Birkenau: secondo la tripartizione proposta dallo storico Raul Hilberg essi si dividono in vittime (ex membri del Sonderkommando, la squadra speciale incaricata di collaborare coi nazisti alle operazioni di sterminio), “spettatori” (i contadini polacchi che vivevano nei pressi dei campi di sterminio, i quali, per quanto spesso lo neghino, non potevano non aver, almeno in parte, intuito cosa vi succedeva) e carnefici (gli ex ufficiali nazisti, ripresi di nascosto, con la loro ipocrita rivendicazione di un cieca obbedienza agli ordini). A guidare questo difficile e doloroso scavo nella memoria è lo stesso Lanzmann, il quale entra direttamente in campo, dialoga con gli intervistati, li interroga con un’insistenza volta ora a stimolarne il pur difficile lavoro memoriale, ora a infrangerne le reticenze, ora a denunciarne le contraddizioni. I racconti dei diversi testimoni vengono interrotti e ripresi più volte, si alternano e si incastrano, si richiamano e si confermano a vicenda, in un preciso quanto complesso lavoro di montaggio. L’opera assume così, pur nell’inusitata estensione, una struttura articolata ma coesa, fatta di echi e rimandi, di ripetizioni e variazioni sul tema, o meglio, sui temi che con più insistenza chiedono di essere rievocati: i forni crematori, i cadaveri seppelliti nelle fosse comuni, le deportazioni, i disumani viaggi sui treni e sui camion la cui unica destinazione è la morte, la strage nel Ghetto di Varsavia, la gelida e meccanica indifferenza dei nazisti, la difficoltà di comprendere fino in fondo la portata di ciò che stava accadendo.

Eppure, di fronte all’inimmaginabile, la parola sola non basta. A parlare sono allora anche i volti, su cui la macchina da presa si sofferma con insistenza, quasi a volervi cogliere tutti i più profondi moti dell’animo, o, nel caso dei contadini polacchi, e ancora di più dei nazisti, le tracce di quel non detto che già le loro parole non esitano, a tratti, a rivelare. Ma parlano anche i gesti: i gesti di un tempo (come quello del barbiere che tagliava i capelli agli ebrei prima della loro uccisione, o del macchinista che guidava i “treni della morte”), che Lanzmann chiede di ripetere, di riportare letteralmente in vita, non solo perché essi aiutino il penoso (ma doveroso) sforzo della memoria, ma anche perché contribuiscano a sancire la compenetrazione tra quel tragico passato e il presente della sua testimonianza. Parlano, infine, i luoghi, e parlano paradossalmente proprio nel loro irreale silenzio: niente sembra rimasto di quanto essi hanno visto accadere, eppure, ci rivela Lanzmann, i fantasmi di un passato che non si (deve) dimentica(re) continuano, e continueranno, ad abitarli.

Se ogni film sulla Shoah è anche, irrinunciabilmente, una presa di posizione su un evento che ci interroga innanzitutto a livello etico, l’opera di Lanzmann incarna questa dimensione nei suoi esiti più estremi: la forza con cui si impongono allo sguardo, e alla coscienza, le scelte estetiche, poetiche, e dunque morali, che la sostanziano, ne fanno un punto di riferimento non solo nella riflessione sulla rappresentazione cinematografica, o più in generale artistica, dello sterminio nazista, ma anche nel più ampio dibattito socio-culturale. Lanzmann avanza una proposta radicale: una radicalità che può essere condivisa, messa in discussione o rifiutata, ma che in ogni caso solleva dei problemi e pone degli interrogativi che non possono (non devono) essere ignorati.

TITOLO ORIGINALE: Shoah; REGIA: Claude Lanzmann; SCENEGGIATURA: Claude Lanzmann; FOTOGRAFIA: Dominique Chapuis, Jimmy Glasberg, William Lubtchansky; MONTAGGIO: Ziva Postec, Anna Ruiz; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 1985; DURATA: 566 min.

 


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