Viaggio a Kandahar PDF 
di Fulvio Montano   

L'ultimo film dell'iraniano Makhmalbaf appare come un collage di incontri e situazioni tra oasi più o meno immaginarie, sparpagliate a caso nel deserto afghano. Una successione di diapositive (intese come veicolo di una visione necessariamente riduttiva e segmentata) di un viaggio, proposte secondo un intreccio che fornisce il pretesto per inserire un punto di vista da cui guardare le cose. Una portfolio fotografico ben fornito, insomma, arricchito di quel minimo di narratività affinché possa essere considerato film. Ecco allora che il regista caratterizza la storia con il desiderio di suicidio della sorella della protagonista, con l'eclisse e con il rifiuto di mostrarci il finale della vicenda, evitando così di riempire gli spazi vuoti tra gli slides che si alternano sullo schermo.

L'atmosfera quasi onirica, con pochi dialoghi e un'infinità di suoni e voci private della loro individualità, l'estetizzazione di una realtà cruda e sgradevole, punteggiata da campi lunghi su cui si stagliano fantasmi di figure coloratissime e cariche di poesia, testimoniano che Kandahar non esiste, ma è solo un nome tra i tanti possibili. La stessa voce narrante è una concessione a noi occidentali che facciamo finta di non vedere.

Il fatto di criticare (come hanno fatto alcuni) il film perché poco realista e troppo bello visivamente è un errore, perché non era nelle intenzioni del regista fare un documentario, come suggerirebbero alcune tipicità del suo stile, ma semplicemente di raccontare la sua personale visione dell'Afganistan. E se uscendo dalla sala si cerca subito il confronto con film come Il tempo dei cavalli ubriachi di Bahaman Ghobadi, che, con una crudezza propria (questa sì) del documentario, ci racconta di un'umanità molto simile a quella di cui parla Makhmalbaf, già il giorno dopo ci si trastulla sulla forza, sì differente e sì narrativa, ma anche di denuncia, di Viaggio a Kandahar.

Immagini come la leggerezza quasi sensuale delle protesi che planano sul deserto, in opposizione al pesantore grottesco e fastidioso delle stampelle che costringono l'uomo a terra, si fanno così paradigma dello sfruttamento neocoloniale e della cronica povertà di intere nazioni. Senza ostentare direttamente la sofferenza, Makhmalbaf non rinuncia però a testimoniare, e ci mostra le mutilazioni per parlare di guerra, le lezioni sulle mine antiuomo per raccontare delle violenze subite dai bambini, un giorno di scuola coranica per descrivere il regime Talebano.

Nabas è la turista occidentale che abbandona la sua torre d'avorio decisa a conoscere la verità, ma allo stesso tempo è una donna afghana, che solo dopo essersi emancipata (attraverso l'abbandono necessario della sua terra) dai ruoli che come donna era costretta a subire, riesce finalmente ad avere una visione obiettiva del suo Paese.
Naturalmente ci arriva in elicottero, dominandolo dall'alto, come noi occidentali che buttiamo le briciole tenendoci a debita distanza. Ma ben presto è costretta a scendere a terra, perché un viaggio senza fatica non insegnerebbe nulla, e proseguire in auto, a dorso di mulo e infine a piedi.
Inevitabile il confronto con il burqa, che assume, a seconda delle situazioni, connotati ludici (uomini che tentano di farsi passare per donne), e esalta, celando, la bellezza privata della donna a riprova della supremazia dell'uomo.

Nessun eccesso di caratterizzazione viene concessa ai personaggi secondari, che rimangono figure eteree, incontrate di sfuggita, quasi il regista avesse il timore di concedere troppo al particolare a scapito della sua concezione universale del sottosviluppo.
Su tutte il nero americano che fa il medico senza esserlo, truccandosi con una barba finta per sembrare arabo e che è in cerca di Dio.

Il merito del successo del film dipende non solo dall'attuale situazione internazionale, ma anche dal fatto che Makhmalbaf, rielaborando uno stile tipicamente mediorientale, in cui grandi concessioni ad un paesaggio dai panorami sterminati danno il tempo allo spettatore di coglierne ogni minima sfumatura, ci viene incontro e si impegna a parlare la nostra lingua.

 


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