Holy Motors PDF 
Fabio Fulfaro   

Di fronte all'ultima opera di Leos Carax si rimane davvero senza parole. Ci sono film che immediatamente, sin dalle prime sequenze, lasciano intendere un livello di ispirazione altissimo e un altrettanto elevato intento filosofico: cercare un ponte tra il cinema e la vita, identificare una comunicazione tra la realtà illusoria del cinema e la sostanziale ipocrisia delle maschere che indossiamo nella vita reale. Un attore che presta anima e corpo aderendo perfettamente alla parte, sembra rispettare quel criterio di verisimiglianza che lo spettatore pretende quando è seduto in una sala cinematografica. Già nei primi minuti di Holy Motors vediamo esplicitati dei concetti prettamente metacinematografici: una sala piena di gente, la mobilità dell'immagine in bianco e nero, l'immobilità colorata dello spettatore. La cinematica dei 24 fotogrammi al secondo contro l'impassibilità emotiva di un utente ormai avvezzo a qualsiasi proposta. Lo stesso Leo Carax si autorappresenta segregato nella sua torre d'avorio dell'isolamento artistico, rinchiuso tra le quattro mura dell'incomunicabilità. Sembra citare il felliniano detto: “Non ho più niente da dire, ma lo devo dire lo stesso...”. Ma, analogamente al maestro riminese, Carax trova ancora la forza di tramutare la sua impotenza artistica in cinema d'autore: trova la chiave per scardinare l'autoprigionia e si rituffa dentro la paralisi affettiva di una sala anestetizzata per cercare di scuotere le coscienze. Un paradosso fine e crudele: “Cerco la bellezza nel gesto, ma la bellezza è anche negli occhi di chi guarda...”.

Sono passati tredici anni dall'ultimo sfortunato lungometraggio Pola X e quasi 5 dall'episodio con Mr Merde nel film collettivo Tokio!, ma la sensazione è che questa volta il dato autobiografico regali all'opera quella sincerità e quella padronanza dei mezzi della grammatica filmica che era mancata nelle produzioni precedenti (gli eccessi formali nelle pur geniali prove di Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf). Alex Oscar non è che l'anagramma di Leos Carax (vero nome Alexander Oscar Dupont) e in ognuno dei nove personaggi interpretati sempre dal suo attore feticcio Denis Lavant (l'uomo d'affari, la mendicante, il mimo in tuta stellata, il mostro Merde che interagisce con la bella modella Eva Mendes, un padre di famiglia che esorta la figlia ad uscire dal proprio guscio, il killer Alex che uccide il proprio doppio Theo, l'anziano Mr Vogan sul letto di morte assistito dalla nipote Lea, il capo di una famiglia di primati) c'è un pezzo della storia personale e artistica del regista francese. Basterebbe una sola scena a rendere il film indimenticabile, ma qui ne abbiamo una serie impressionante: Mr Oscar che entra in una chiesa con la fisarmonica e detta il tempo agli altri suoi musicisti per un rifacimento da brivido del famoso pezzo di Burnside Let My Baby Ride remixato in chiave zigana; la scena di sesso in motion capture che si risolve in contorsionismi impossibili; l'incontro tra Oscar con il vecchio amore (o no?) Kylie Minogue che canta uno dei temi portanti del film, Who Were We?; il sorprendente ritorno a casa di Oscar in piano sequenza fino a svelare, all'interno della casa, la famiglia di scimpanzè sulle note di Revivre di Gerard Manset; il dialogo con Michel Piccoli sul ruolo dell'attore e sulle aspettative del pubblico; la scena del vecchio agonizzante che rivela magnificamente il gioco dell'illusione cinematografica ...

Leos Carax ritorna alle radici di un cinema d'avanguardia ormai lasciato ai territori della video arte e sbatte in faccia allo spettatore l'anarchia di un cinema surreale, dadaista, controreazionario. Attraverso gli esempi di Buñuel (L'age d'or) e di Renè Clair (Entr'acte), passando attraverso Kubrick e Fellini, si arriva a una destrutturazione del postmoderno proprio perchè è cinema che riflette su sé stesso e sulla sua funzione. Carax, nel confronto tra limousine, ridicolizza Cronenberg, troppo aderente alla matrice letteraria di DeLillo per poter autonomizzarsi, e ci regala una identità cinema-vita riuscita solo a pochi maestri nel passato. Davanti a uno scenario contemporaneo di ipocrisie e maschere di convenienza, l'arte cinematografica diventa uno dei rari momenti di verità ribaltando la “morte al lavoro” dei 24 fotogrammi al secondo, con un manifesto programmatico di realtà dell'illusione e di prevalenza dell'intuizione artistica sulla robotizzazione e mercificazione dei prodotti. Un film che è una preghiera colta e sincera di fronte al potere catartico dell'immagine, una rigenerazione dello sguardo che passa attraverso la lucida consapevolezza dei diritti e doveri di un artista, della sacra responsabilità di tutti i sacerdoti del Santuario-Cinema. Morire per ritornare a vivere in una Necropolis abbandonata da Dio e dagli uomini. Il film è finito, andate in pace. Amen.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.