Noi Credevamo PDF 
Fabio Fulfaro   

Noi Credevamo è un tentativo, direi riuscito, di porre L'Italia sul lettino dello psicanalista per provare ad analizzare rimozioni ed emozioni, angeli e demoni, anima democratica e conservatrice. La domanda primordiale che Mario Martone pone è perchè il nostro paese è attualmente dilaniato da forze contraddittorie, in piena regressione culturale, assuefatto a qualsiasi tipo di nefandezza morale e politica, governato da una banda di lestofanti che continua ad utilizzare i mass media per manipolare l'opinione pubblica, gestendo la res pubblica come fatto privato. Una repubblica delle banane senza opposizione, anzi con un'opposizione ricattabile, segretamente collusa, in preda ad isterismi e schizofrenie, dilaniata al suo interno da correnti dai mille rivoli. Un paese diviso tra nord e sud, tra le intolleranze leghiste e i populismi meridionali, ingerenze papali e quote rosa molto sbiadite, emigrazione dei cervelli e immigrazione clandestina.

Come in Vincere di Marco Bellocchio, si parla del passato con un occhio rivolto al presente e un altro al futuro. Ma mentre l'operazione del regista piacentino vira rapidamente nella forza visionaria dell'immagine e nella trasposizione tra l'onirico e il surreale, il lavoro di Mario Martone è ancorato vigorosamente alla lezione morale del cinema di Rossellini, con una ricerca filologica storica che tende ad illuminare aspetti solitamente rimossi e dimenticati della formazione dell'Unità di Italia. Martone cerca di ricostruire il puzzle partendo dal basso, dalle campagne meridionali, dal sudore dei contadini, dal martirio di un popolo, dalla sinistra bicefala di Mazzini e Garibaldi. È l'unico modo per potere provare a dare un senso, a darsi un senso. Se un popolo non è educato, se non è istruito al concetto di unità, vivrà ogni tentativo di unificazione come un sopruso, come una minaccia al suo piccolo orticello. Il primum movens è l'irruzione violenta della Storia nel campo di sguardo di tre giovani meridionali (originari del Cilento, zona campana al confine con la Basilicata), Domenico Angelo e Salvatore, che assistono all'esecuzione e decapitazione di tre carbonari, i fratelli Capozzoli, da parte dell'esercito Borbonico (tra le scene più truculente del film, con impalamento della testa). Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, e i tre decidono di giurare fedeltà alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Scelgono la strada della rivoluzione, della cospirazione, dell'insurrezione. Ognuno vive il proprio ideale filtrandolo con il proprio background, con la propria sensibilità.

Martone utilizza il libro di Anna Banti, Noi credevamo appunto, per lavorare sulla figura di Domenico (il realmente esistito Domenico Lo Presti, avo della Banti), repubblicano, anticlericale, antimonarchico, puro e coerente con le proprie idee. La sua parabola abbraccia il periodo che va dal 1828 al 1834 (periodo della carboneria meridionale), passa per il periodo di detenzione presso il carcere di Montefusco (1852-1855) e sfiora, da spettatore, l'attentato a Napoleone III da parte di Orsini (1856-1858). Dopo la proclamazione del Regno d'Italia avvenuta il 17 marzo 1861, Domenico osserva doppi giochi politici e tradimenti di camaleonti opportunisti come Francesco Crispi, che da repubblicano si trasformerà in fervente monarchico e inizierà una disastrosa campagna coloniale e una violenta azione di polizia contro gli ex amici repubblicani. Inoltre, per atroce beffa della Storia, nel 1862 Domenico si troverà da Garibaldino sotto il fuoco dell'esercito piemontese che tenta di bloccarne l'avanzata verso Roma. Interpretato con misura e rigore da un bravissimo Luigi Lo Cascio, il personaggio di Domenico incarna in maniera esemplare la grande distanza tra il proprio sogno di rinnovamento e una realtà circostante che fa di tutto per assassinare gli ideali. Questo silenzio profondo, questo mettersi da parte, questi occhi traditi e sconfitti sono quelli di una generazione che è stata prima strumentalizzata, poi scavalcata e infine sodomizzata dalla Storia. La madre di Domenico muta, le proprie terre saccheggiate, l'amico Salvatore pugnalato da Angelo, i cadaveri dei contadini, quelli dei garibaldini assassinati dall'esercito piemontese, il trionfo della monarchia nel discorso agghiacciante di Crispi. Sembra tutto perduto, sembra di essere ritornati al punto di partenza senza avere concluso nulla. Quella mano armata che si protende verso il gerarca fascista di turno è più un desiderio che una possibilità reale. Perchè in un'Italia così malridotta, così divisa e confusa, ci sono dieci, cento mille Crispi o Mussolini pronti a cavalcare l'illusione di potenza e l'ampliamento dei confini nazionali in folle imprese coloniali che sevono solo a distogliere l'attenzione dai problemi interni. Ucciso un tiranno se ne fa un altro. Gli occhi di Lo Cascio, proprio nel finale del film, regalano questa consapevolezza tragica, questo dolore viscerale sulle rovine di uno Stato morente. Non l'alba di una nazione ma il tramonto di una ideologia, di una speranza democratica, di un'unificazione a vasta adesione popolare.

Martone, tuttavia, non si accontenta di manifestare i segni e sintomi di una sconfitta. Nei personaggi di Salvatore e Angelo, frutto della sceneggiatura a quattro mani con De Cataldo, pone altre problematiche rimosse dal nostro immaginario collettivo. Prima di tutto la differenza di classe ricchi-poveri,  con il padre di Salvatore che ricorda al figlio il furto dell'olio perpetrato vigliaccamente dai nobili cilentini sui contadini, mettendolo in guardia dal rivelare questo segreto pena il rischio della sua stessa vita. Questo evento crea quella distanza, quella frattura insanabile tra Angelo e Salvatore che culmina con l'omicidio di quest'ultimo. Da un punto di vista psicoanalitico, si può affermare che Angelo utilizzi a livello di subconscio l'accusa (falsa) di tradimento nei confronti dell'amico per potere togliere di mezzo un possibile testimone delle nefandezze e delle ruberie della classe cui appartiene (e qui gli avvertimenti del papà di Salvatore diventano profezie). Ma come in un romanzo di Dostoevskij (I Demoni è più volte citato letteralmente, come un libro di cucina), il rimorso e il senso di colpa seguono Angelo come cani rabbiosi portandolo ad un vero e proprio suicidio travestito da lotta armata rivoluzionaria. Anche qui la stupenda prova attoriale di Valerio Binasco regala credibilità e spessore al suo tormentato personaggio, tra scoppi violenti d'ira e claustrofobici interni. Tutta la parte della cospirazione e dell'organizzazione del fallito attentato a Napoleone III si sviluppa in assenza di luce e in luoghi angusti. Napoleone III dovrebbe pagare con la vita il suo appoggio a Pio IX e l'affossamento della nascente repubblica romana nel 1848. In realtà sarà proprio Angelo a pagare con la vita, ghigliottinato insieme a Orsini per il fallito attentato: prima di morire un quesito paradossale ma lapalissiano, perchè il Papa non rinuncia al potere temporale?

Un episodio chiave all'interno di questa vicenda è la morte del patriota polacco Worcell, uno degli esponenti della Giovine Europa, talmente vicino a Mazzini da volerlo al capezzale nel momento della dipartita. Attorno al suo letto si radunano cospiratori francesi, inglesi, polacchi, italiani, rappresentando un ideale comune che va al di fuori dei confini nazionali. Il fondamentalismo mazziniano aveva anche una componente religiosa molto forte, fornendo un interessante quanto blasfemo parallelismo tra le esortazioni al martirio da parte di Mazzini ("Penso con dolore a questo nostro amico che sta per sacrificarsi ma so che in questo modo egli comincerà una seconda vita ... Vai amico mio, la strada è impervia ma la ricompensa luminosa. Che Iddio sia con te", nel discorso a Salvatore che dovrà fornire ad Antonio Gallenga il pugnale per l'attentato a Carlo Alberto) e i videoclip dei kamikaze islamici prima delle azioni suicide. È interessante notare come proprio durante la veglia a Worcell, ricompare, interpretato da Luca Barbareschi, proprio quell'Antonio Gallenga che aveva tradito e non aveva portato a termine l'azione omicida contro il Re. Angelo lo riconosce subito e anche gli altri presenti tentano di scacciarlo come persona non gradita, e alle rimostranze il Gallenga risponde con "siete dei tetri imbecilli", importato direttamente da Dostoevskij. La parabola di Gallenga ricorda in maniera magistrale il percorso di certi pennivendoli di regime: diventato giornalista del The Times, supporta con i suoi articoli la folle ascesa al potere di Francesco Crispi, legitimandone i soprusi e gli abusi di potere. 

Oltre ai trasformismi politici di repubblicani che diventano improvvisamente monarchici e parlamenti semivuoti tenuti in ostaggio da venditori di ilusioni, populisti e demagoghi, faccendieri e collusi con la malavita, i parallelismi con il presente non si fermano qui. La figura di Caterina di Belgioioso,  moderna ed emancipata, rivela il destino che attende ua donna che ha un minimo di intraprendenza e intelligenza nel nostro paese: l'esilio. A Parigi, Caterina viene in contatto con Domenico e con Angelo, innamorandosi di quest'ultimo. Ma la passione dei sensi che segue romanticamente quella degli ideali rivoluzionari non fa perdere la lucidità a Caterina, che proclamerà la necessità di far partire la rivoluzione dagli strati più poveri proprio con un'azione culturale. E dopo la proclamazione del Regno d'Italia nel 1861 arriverà a dire che l'Unità d'Italia è un albero dalle radici malate. Caterina è in Francia perchè capisce che l'Unità d'Italia non può non tenere conto dell'appoggio francese: nel suo salotto si succedono intellettuali, rivoluzionari, mazziniani e musicisti, come Vincenzo Bellini (che suona I Puritani). Caterina sa il ruolo critico della Cultura nella formazione dell'identità e della coscienza di un popolo: una massa pensante è una massa che cessa di essere sommatoria di molteplici solitudini. Una massa pensante ha il potere di essere padrona degli avvenimenti storici e non li subisce passivamente. La scena della rappresentazione teatrale di Le Roi s'amuse di Victor Hugo è emblematica del punto di vista di Caterina: il pubblico rumoreggia e protesta perchè irrispettosamente il re è raffigurato all'interno di un bordello. Ciò sarebbe immorale e motivo di vergogna (insomma fate pure tutte le sconcesse che volete basta che non si sappia in giro), ma Caterina, tenendo per mano i due amici Angelo e Domenico, urla, in nome della libertà e del progresso, di lasciar lavorare gli attori, di farli esprimere. L'arte deve avere una sua voce e ha tutto il diritto di prendere in giro i potenti, utilizzando la satira. Non possiamo allora non fare riferimento ai nostri tempi sbandati, alla censura nelle reti televisive e sui giornali, agli editti bulgari contro giornalisti e comici satirici, al bavaglio alla Scuola, all'Università, alla Cultura. E quando sentiamo il “Comandante” del carcere di Montefusco gridare ai detenuti “Io non leggo mai, leggere è tempo perduto, se va a finì come voi, tutti dottori e guardate come vi rovinate … mannaggia a penne, a carte, a inchiostro e tutti i libri in coppa a terra … sono quelli che vi hanno sconvolto la mente …”, non possiamo non pensare a certi nostri ministri che esclamano con una convizione che rasenta la provocazione: “Con la cultura non si mangia!”.

Nella messa in scena artistica viene suggerita la verità, e in un altro passaggio del film, quello della rappresentazione de I Mafiusi de la Vicaria (da parte dei garibaldini in marcia verso Roma), viene suggellata un'alleanza Mafia-Stato proprio nella persona di Francesco Crispi, interpretato da un attore di nome Incognito. Anche qui i corsi e ricorsi storici e le perenni trattative tra malavitosi e pezzi dello Stato, dal brigantaggio fino ai giorni nostri. Insomma, la storia non insegna nulla e noi ricadiamo negli stessi errori. Martone ipertrofizza la sceneggiatura facendo parlare moltissimo i suoi protagonisti: ne perde in spettacolo di puro cinema, ma ne guadagna in lezione realistica e storiografica. Forse si può obiettare che la forma più pertinente è quella dello sceneggiato televisivo, e che soprattutto nella parte iniziale per lo spettatore all’asciutto di storia d’Italia può essere difficile orientarsi tra garibaldini e mazziniani, tra borbonici e piemontesi. Però nella seconda parte l’opera di Martone trova il suo giusto respiro e regala momenti intensi e anche visivamente affascinanti. Vedere quella enorme costruzione di cemento armato stagliarsi incompiuta nel pieno delle campagne meridionali, o osservare il parlamento semivuoto occupato da parole retoriche e false di un trasformista dell’ultima ora, ci fa comprendere come il processo dell’Unità di Italia sia ancora un work in progress.

Noi Credevamo di Mario Martone diventa così un film importante proprio nel momento storico che stiamo vivendo, al di là della ricorrenza dei 150 anni della nascita dell'Unità d'Italia. Un film che dovrebbe essere proiettato nelle scuole, nei licei, nelle università. Un film che dovrebbe essere spiegato alle nuove generazioni, quelle del precariato e dei call center, quelle dei mille euro e dei contratti a breve o nati già scaduti, quelle della Fiat Mirafiori e delle morti bianche, per spiegare loro una parte dei nostri dissesti finanziari e delle nostre crisi economiche. Un film che dovrebbe far riflettere su quello che eravamo e che in fondo siamo. Che dovrebbe far scivolare sulla schiena un brivido di indignazione mista a ribellione, che dovrebbe scuotere le nostre coscienze imborghesite, al caldo delle nostre sicurezze high tech che sovrastano i nostri sentimenti low touch. E invece? E invece il film viene distribuito in sole 30 copie, una sorta di affronto, indicibile frutto di una miopia culturale irreversibile, tenuto anche conto che il film Goodbye Mama, di Michelle Bonev, regista bulgara amica di ministri e governanti italiani, viene distribuito in 80 copie. Ci ha comunque pensato il pubblico a tributare a Noi Credevamo il successo che gli spettava di diritto. Forse un raggio di speranza fa capolino in questa notte italiana: “il punto non è che tutto è finito, il problema è che è tutto da cominciare”.

Riferimenti Bibliografici:
Mario Martone, Noi Credevamo, Edizioni Bompiani Overlook, 2010
Matteo Marelli, Noi Credevamo, www.effettonotteonline.com, recensioni/dicembre 2010

TITOLO ORIGINALE:
Noi Credevamo; REGIA: Mario Martone; SCENEGGIATURA: Giancarlo De Cataldo, Mario Martone; FOTOGRAFIA: Renato Berta; MONTAGGIO: Jacopo Quadri; MUSICA: Hubert Westkemper; PRODUZIONE: Italia/Francia; ANNO: 2010; DURATA: 204 min.

 


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