Into The Void. L'occhio magico di Gus Van Sant perso in un'adolescenza senza emozioni PDF 
Gianmarco Zanrè   
Indice articolo
Into The Void. L'occhio magico di Gus Van Sant perso in un'adolescenza senza emozioni
Pagina 2

In questo senso una fetta di estimatori del grande schermo potranno storcere il naso, reputando, al contrario, che l’assoluta scelta “anti” di Van Sant e il suo evolversi altro non sia se non l’antidoto più potente ed efficace alla retorica galoppante cui spesso e volentieri il cinema made in Usa sottopone i suoi spettatori in tutto il mondo: ma cosa dire di fronte a quello che, allo specchio geografico, altro non appare se non il corrispettivo di Van Sant al lato opposto del mondo, quel Kim Ki-duk negli ultimi anni riscoperto anche in Occidente? Quanta forza, sofferenza, leggerezza, gioia, sentimento si nascondono dietro quelle arie appena accennate, quelle esplosioni di violenza modulate da sinfonie di silenzi? Il vecchio Gus ha dimostrato, e in più d’un occasione, di essere assolutamente in grado di deliziarci con affreschi di tal fatta, e la parte prettamente estetica di quest’ultimo lavoro ne è un’ulteriore riconferma: dunque perché non osare, aprire il cuore e liberare tutta la potenza e la bellezza che la sua macchina da presa è capace di sprigionare al servizio di quell’anelito perduto? Bob, splendido protagonista dell’indimenticato Drugstore Cowboy, a mio avviso ancora l’opera migliore di Van Sant, di certo approverebbe un ritorno a quelle strade che tanto sangue, sudore e morte erano costati a lui e alla sua banda affinché la loro personale rivoluzione, e il percorso verso quelle nuvole che, ancora una volta, corrono troppo veloci per i cieli sporchi del nostro mondo, siano raggiunte e cavalcate, come in una frontiera lontana che solo i veri “cowboys” sono in grado di raggiungere. Le nuvole: proprio loro, così lontane e sfuggenti, comune denominatore del cinema adolescenziale e post-adolescenziale del regista, vibrano al vento e portano gli interrogativi di un futuro che non si conosce, almeno quanto l’età adulta che così poco, ancora una volta, sembra disposta ad instaurare un dialogo con l’anello successivo di quella che è un’unica, infinita catena dalla quale niente e nessuno potrà slegarci, perché parte integrante della nostra natura umana. Ancora una volta un futuro, così come un finale “imposto”, non figura nel poema in (quasi) versi portato sullo schermo da Van Sant, così come il dialogo che, nel bene o nel male, può fornire un qualsiasi pretesto per l’incontro o lo scontro generazionali. Genitori e figli paiono esseri alieni gli uni agli altri, e se, di certo, questo corrisponde in parte alla realtà, è altrettanto vero quanto la realtà stessa, così come la crescita, sia un divenire più grande delle nuvole stesse, che il succedersi naturale delle vite pone il passaggio come condizione esistenziale comune ad ogni età, e il tentativo, per lo meno accennato, di sfiorare ciò che si ha di fronte, o alle spalle, appare quasi più naturale del respiro. Curioso come un uomo ormai maturo, anagraficamente quanto artisticamente, fatichi a porre la sua opera al servizio di un divenire importante come questo, e si limiti - ma non è questo il caso di Paranoid Park, a tutti gli effetti un curioso ibrido - ad osservarne a distanza gli effetti del non desiderarlo.
 
ImageLegittima posizione, e di certo sensata tesi, quella di scegliere una non-azione per dimostrare l’importanza, o l’aberrazione, delle azioni stesse: ma una volta ancora non convince fino in fondo la scelta di rifugiarsi nella nicchia che lo stesso regista pare aver cesellato ad arte prima per sé stesso che per i protagonisti delle sue storie, mai, neppure di fronte al peggiore dei crimini, considerati antieroi o figure negative nella personale “mitologia” del regista. Ma quale può essere il motivo per cui uno dei più grandi talenti del cinema contemporaneo debba - o voglia - rifugiarsi in sé stesso piuttosto che, parafrasando Frost, “scegliere la strada meno battuta”, fra le due presenti nella “selva oscura” di fronte a lui? Una verità assoluta non c’è, ma l’opinione che chi scrive ha maturato, soprattutto nel corso della visione di quest’ultima opera, è che, probabilmente, come il suo altrettanto illustre collega Kaurismaki, Van Sant sappia esattamente cosa fare per piacere al pubblico di Van Sant, così come a buona parte della critica “alta”. E, sia essa pigrizia o desiderio d’affermazione, probabilmente il cineasta di Portland preferisce tornare a casa con un altisonante Premio della Giuria al Festival di Cannes piuttosto che con qualche domanda in più, rivelandosi, in questo senso, paradossalmente molto più “commerciale” di quanto la maggior parte dei suoi fan hardcore lo vorrebbe. Proprio ripensando a questo aspetto del suo cinema, soprattutto essendone un grande estimatore, è curioso notare come il regista appaia stranamente più a suo agio nell’approccio a prodotti commissionati e sulla carta certamente definibili mainstream - Will Hunting e Scoprendo Forrester - che con quella comunemente definibile come “la sua materia”. Il fatto che un regista di culto, capace negli anni di ritagliarsi non solo uno spazio, ma anche un posto di tutto rilievo tra i grandi narratori della settima arte a cavallo fra i due secoli, paia più a suo agio di fronte a quello che, per il suo standard, può essere definito “il grande pubblico”, ne rende paradossale la situazione: amatissimo e pluripremiato ai Festival di mezzo mondo - chi può fregiarsi di aver vinto, nella stessa edizione, i premi di miglior film e regia al Festival di Cannes? -, ormai considerato una certezza dai succitati discepoli “dello zoccolo duro”, simbolo per i giovani non soltanto della famigerata “generazione x”, e, al contempo, quasi rinchiuso in una prigione dorata che lui stesso e la sua sorprendente abilità di narratore hanno chiuso, passo dopo passo, attorno alle ali che, un ventennio fa, lo portavano così vicino a quelle nubi ormai irraggiungibili, da danzarci sopra come un funambolo, un artista di circo, un cercatore che dava l’impressione di non potersi fermare mai.

ImageNel bene o nel male è comunque fuor di dubbio che la carne messa al fuoco da Paranoid Park sia molta, e capace di indurre, se non alla riflessione, almeno alla discussione anche i detrattori più determinati del cineasta dell’Oregon: di fronte a tutti gli spunti analizzati, e a quelli che restano sopiti, come i finali “mancati” o le aspirazioni di Alex, occorre tirare le fila prima di quello che, almeno fino al prossimo film (il già annunciato Milk, in uscita per il 2009) sarà il capitolo conclusivo di questo confronto. Dal punto di vista tecnico ed estetico, come già sottolineato, il film non può che essere pienamente promosso sotto tutti gli aspetti, siano essi le riprese - quasi iperrealistiche, un po’ come fu per Un mercoledì da leoni rispetto al surf -, la sceneggiatura, la colonna sonora e il montaggio. Un discorso a parte andrebbe affrontato per quanto riguarda l’aspetto attoriale, che non sempre, nel caso degli esordienti senza alcuna preparazione, penalizza la grande potenza comunicativa delle immagini: del resto, però, i rischi di un’operazione di casting di questo genere sono noti alla produzione stessa, pertanto è possibile che i collaboratori del regista avessero messo in conto che non tutte le loro “stelle” avrebbero brillato di luce propria. Il discorso si complica quando, dalla tecnica, spostiamo la nostra attenzione alla sostanza della pellicola, con i conseguenti dibattiti legati al delitto e al castigo, così come alla trasudante apatia dell’intera opera: un grande pregio di questo lavoro, va sottolineato e non dimenticato, sta nel fatto che l’apatia stessa, così come il grande equilibrio che il regista riesce in ogni caso a garantire, permettono di riflettere senza alcuna imposizione suggerita dall’uomo dietro la macchina da presa, che si ritaglia su misura il ruolo di narratore esterno senza far pesare sul suo pubblico le idee che lui per primo potrebbe nutrire rispetto all’argomento trattato. A questo proposito, non è importante considerare questa scelta un bene o un male, quanto capire se il viaggio intrapreso in compagnia di Alex sia un’esperienza costruttiva o resti, con tutto il suo carico di poesia e magiche danze sulle tavole, un involucro vuoto. Nella prima ipotesi l’apatia trasmessa dal protagonista diviene soltanto una barriera superata per affrontare, in un modo unico e personale, la via del proprio Paranoid Park, per capire se il mondo sia soltanto un ricettacolo di noiose formiche impegnate a volteggiare da un passatempo ad un altro fino a quando un Destino superiore, o un caso qualunque, non si troveranno a strapparci a forza dalla vita, o una di quelle nuvole che viaggiano in fretta, e che, rare e magiche, si deve in qualche modo inseguire, mossi da una musica, o un’idea, a scapito di qualsiasi altra morale, pronti a pagare il prezzo di un silenzio pesante più di qualsiasi parola. Nella seconda, scemato lo stupore indotto dalla maestria di un artista di calibro superiore, ci si ritrova a pensare, usciti dalla sala, di aver visto un altro “di quegli splendidi Van Sant” che, a lungo andare, negli anni, ma questo non lo si ammetterà mai apertamente, cominceranno - o già cominciano? - ad essere pericolosamente simili tra loro. Quella somiglianza che non è sinonimo di uno stile, di un modo di raccontare, di un percorso. Non più, o in ogni caso non nella sua interezza: è, purtroppo, il primo dei sintomi di una crisi creativa che colpisce, o può colpire, anche il più grande dei narratori, e la cui unica cura è un respiro in territori nuovi e inesplorati, che possa riportare “a casa” un autore rigenerato e pronto a sfidare gli stessi confini che, per primo, aveva imparato a valicare.
 
ImageAnche il rimorso, così come la colpa, sono sentimenti, e possono indicare la via della redenzione: questa la differenza sostanziale tra Paranoid Park e Delitto e castigo, e, forse, la chiave di volta del dialogo non solo fra generazioni, genitori e figli, pubblico e regista, quanto di uomini con uomini. Che sia in silenzio o a cavallo di un fiume in piena di parole, la comunicazione è il cuore del nostro essere, e da questo presupposto sarebbe interessante affrontare tutte le sfumature che, inevitabilmente, Alex, il suo mondo, e questo film offrono. Paradossalmente, però, tenendo fuori Alex. In tutta onestà, non credo che possa essere interessato. Concludo questa cavalcata nei territori di Gus Van Sant ripensando alla prima domanda che, mediamente, viene posta a chiunque sia entrato in una sala da altri fino a quel momento inesplorata, rapito dalla magia del proiettore: questo film com’è? Cosa risponderei a una domanda soltanto apparentemente semplice come questa? Potrei rispondere che sì, questo è un film straordinariamente diretto e realizzato, ipnotico e, in qualche modo, ribollente di quella magia che, Bergman docet, quel piccolo teatro d’immagini trasmette. Invece no, Paranoid Park non è un “bel film”. Potrà suonare banale, detto così, brutalmente, e molto poco critico. Ma a volte la semplicità, come i silenzi di Van Sant, è molto più esplicita ed efficace di ellittici girotondi di parole. Citando di nuovo Drugstore Cowboy, e da fan sempre convinto di questo regista, posso sperare, per la sua arte e il nostro piacere, che l’impareggiabile Gus non abbia davvero deciso di perdersi in sé stesso, buttando sul letto un cappello che, davvero, potrebbe portare soltanto guai alla sua fino ad ora scintillante carriera.

Riprendilo, Gus. Stringilo fra le mani. Spolveralo contro i pantaloni, un paio di colpetti, e guarda in alto, verso le nubi che corrono e i loro territori inesplorati. È lì che stava il tuo segreto. Vallo a riprendere. E cavalcalo. Senza dimenticare il cappello. Del resto, i veri cowboys, i grandi cowboys, quello non lo perdono proprio mai.



 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.