TFF 26/Il bianco, il nero: un solo colore. Dream di Kim Ki-duk PDF 
Davide Morello   

Da tempo Kim Ki-duk non stenta ad affermare l'ottica attraverso la quale interpreta la realtà e l'immaginario, il vero e il falso, il colpevole e la vittima, l'interscambio costante in cui essenza e apparenza giocano i propri ruoli. "Il bianco e il nero sono la stessa cosa". Non solo un'affermazione di rito per liquidare le mirate domande dei critici riguardanti la logica delle leggi che governano le sue storie, la magia simbolica che pervade il realismo crudo, il distacco, l'incombere dell'irrazionale nella lucida e lineare catena degli eventi, ma un vero e proprio approccio teorico che filtra la sua visione del cinema, che è strumento di riflessione e analisi della realtà e del linguaggio stesso. In Dream questa affermazione viene ribadita più volte attraverso le parole dei suoi personaggi e anche mediante la scrittura, che nel regista coreano è sempre rivelazione, lavoro creativo, faticoso processo di apprendimento, espiazione e presa di coscienza. La visione, il doppio, la memoria, il sogno stabiliscono le dinamiche tematiche ed espressive che si fanno strada nel racconto, che trova qui una struttura aperta, i cui mondi paralleli dai confini indefiniti si compenetrano dando origine ad un testo stratificato, al plurale, in cui a scontrarsi sono la realtà e l'illusione, l'attrazione e la repulsione, l'amore e la morte: che sono la stessa cosa.

Un'inquadratura sfocata sui titoli di testa di una strada cittadina notturna illuminata rimanda alla soggettiva del protagonista che guida incorniciato nello specchietto retrovisore: l'atto del guardare, il dettaglio degli occhi che guardano, lo specchio, il riflesso. L'incipit del film, così strutturato, guida lo spettatore attraverso una forma espressiva che verrà tematizzata nel conseguente sviluppo della storia, che ruota intorno alle potenzialità della visione, all’occhio come strumento della soggettività e come specchio di un dramma interiore, alla dimensione del sogno e del sonnambulismo intesi come elementi volti a restituire il doppio, il riflesso di una realtà fluttuante che sfugge ai protagonisti incapaci di governarla. Una serie di bruschi e improvvisi impatti nella strada notturna e una totale perdita di controllo, l'investimento di un pedone che appare come uno zombie lungo il percorso dell'auto in fuga e, di scatto, l'angoscioso risveglio di Jin nel suo letto: era solo un sogno. Ma un sogno quanto mai realistico poiché nel sonno partecipa alla vita reale che la protagonista Ran svolge in uno stato di sonnambulismo. La scissione e la dualità sono affermate e non possono lasciare spazio all'armonia e all'unità, se non nella tragica unione-riconciliazione dell'epilogo.

Storia di destini incrociati e di una vita frammentata in due soggetti: lui cerca la sua fidanzata che lo ha abbandonato, lei fugge dal suo fidanzato che non vuole più vedere, ed entrambi avviano una lotta contro i propri ricordi, rassegnati ad una complementarietà in cui l'inconscio e il  reciproco sonno della ragione rende lui capace di vedere ciò che lei vive e agisce. La soluzione preannunciata dalla dottoressa è senz'altro il loro congiungimento estremo, che non si realizza prima di un autolesivo e tortuoso percorso che attraversa i differenti stadi del logorio psicologico e fisico. I tentativi laceranti dell'uomo che lotta contro la stanchezza raggiungono la loro massima espressione nella forza visiva dei dettagli delle torture che si infligge autonomamente, nel fuori campo negato, nello sguardo disperato. Ancora una volta gli occhi chiusi con forza, premuti con le dita, per poter vedere oltre, e gli occhi tenuti forzatamente spalancati, “incerottati”, per reagire al sonno e impedire la supremazia dell'inconscio. Le lacerazioni sanguinanti e i lividi che riconducono alla fisicità violenta del linguaggio, al carattere  polisemico dell'immagine che sovrasta la funzionalità narrativa delle parole e dei dialoghi. Esemplare è la sequenza che si svolge al tempio buddista in cui i gesti, i movimenti dei personaggi, le pause contemplative, l'accurata costruzione dell'altarino con le pietre, il suo equilibrio precario, preannunciano la scomparsa della donna, corsa all'inseguimento di una farfalla. O nel reparto psichiatrico in cui, senza una parola, le smorfie, i gesti e gli sguardi fra le due pazienti rinchiuse, in un’atmosfera quasi giocosa, preparano il liberatorio gesto finale e la metaforica mutazione di Ran in farfalla. Gli oggetti, e in particolar modo la stessa catenina con una farfalla come pendaglio, percorrono il flusso narrativo assumendo la loro specifica funzione significante e simbolica. Donatale dall'uomo, appesa da una lampada nella casa dell'ex amante nell'attimo dell'inconsapevole tradimento, recuperata nuovamente da Jin che la riconsegna quando lei dorme, ingoiata nella prigione psichiatrica, diviene simbolo della libertà e del congiungimento trovato.

Lo spazio è quello privilegiato dell'autore, quello claustrofobico, limitato, che imprigiona i personaggi, qui in senso ancora più esplicito vista la loro ossessiva e disperata condizione impotente: le rispettive dimore dei protagonisti avvolte da una significativa oscurità, in cui la luce espressiva esplicita lo stato interiore dei personaggi, il loro stato emotivo inquieto. I riflessi blu e verdi che invadono le inquadrature notturne restituendo quello stato onirico che è la dominante della pellicola e presenta vari gradi di intensità. Inoltre, la ricercata fotografia tende a comporre quadri le cui variazioni cromatiche creano piani stratificati e multiprospettici, velature e apparizioni in cui i personaggi divengono parte integrante di una scenografia che in alcuni punti mira all'astrazione, come accade spesso nell’oscura e colorata stanza in cui, sola, la protagonista lavora con i suoi veli. Non un caos in cui memoria, allucinazione, realtà, si sovrappongono indistintamente a spese di una forte soggettività, ma il dichiarato dramma del soggetto debole che mantiene distinte e contamina le individualità, attualizza le relazioni e contemporaneamente lascia spazio ad una scrittura filmica che pone i differenti livelli narrativi sul medesimo piano, tramite quegli inserti apparentemente autonomi che indeboliscono la catena narrativa come digressioni e si affermano come punti forza e ambiguità. Valga per tutte la scena dell'auto nel campo di grano in cui Ran è violentata dal suo ex fidanzato, all'esterno compaiono da direzioni opposte Jin e la sua ex fidanzata e i quattro si fronteggiano alternandosi le battute come in un siparietto teatrale di doppi (Real Fiction?). Scena che condensa le diverse dimensioni temporali dell'intreccio: la memoria, il rimosso, il sogno, la storia e il confronto del presente che prendono forma in uno spazio non contiguo e sospeso.

Una poetica dello sguardo e del visivo, della stratificazione dell'immagine e della narrazione in cui la materia e lo spirito, il concreto e l'astratto, il fisico e il mentale, il diegetico e il simbolico s'intrecciano e si contaminano reciprocamente in un tessuto narrativo che procede, a tratti, lungo la linea della ricercata ironia che si risolve nel suo aspetto tragico. Le alternative, come sempre in Kim Ki-duk, strutturano universi ambivalenti che rivelano costantemente una profondità visiva e temporale pronta ad emergere nell'articolazione compositiva del quadro stesso e nella sequenzialità dei piani.

TITOLO ORIGINALE: Bi Mong; REGIA: Kim Ki-duk; SCENEGGIATURA: Kim Ki-duk; FOTOGRAFIA: Kim Gi-tae; MONTAGGIO: Kim Ki-duk; MUSICA: Ji Park; PRODUZIONE: Corea del Sud; ANNO: 2008; DURATA: 93 min.

 


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