Tournée: l’altra faccia del New Burlesque PDF 
Elisa Mandelli   

Ci cala fin dall’inizio nel cuore dello spettacolo, l’ultimo film di Mathieu Amalric. O piuttosto, nel bel mezzo dell’altro lato dello spettacolo, quello in cui ad illuminare il volto delle artiste non sono i riflettori del palcoscenico, ma le lampadine che, nel camerino, contornano lo specchio in cui si osservano, intente a prepararsi per lo show. È così che Tournée ci racconta il New Burlesque: osservandolo dal retro, sbirciando negli spogliatoi, curiosando nei momenti più ordinari di personaggi eccentrici, svelandoci il senso di malinconia nascosto dietro lo sfavillio di paillettes e piume di struzzo.

Amarlic mantiene intatto lo spirito del romanzo di Colette cui si è ispirato, I retroscena del music-hall (1913), in cui l’autrice ripercorre la propria esperienza nel varietà restituendo sulla pagina luci e ombre della vita euforica ma logorante degli artisti. Con Tournée ci spostiamo ai giorni nostri, in epoca di New Burlesque: spettacolo pieno di vivacità, sensualità ed ironia, che sa unire a provocanti spogliarelli e a costumi succinti una trascinante verve satirica, un’euforia pregna di critica sociale e politica. La forza delle showgirls, e la loro capacità di conquistare il pubblico, stanno in uno spigliato erotismo, in una serena consapevolezza del loro corpo, nella gioiosa accettazione delle sue forme spesso eccessive ed eccedenti, portatrici di una sana rivolta agli stereotipi più consolidati. Così le cinque artiste americane (cui si aggiunge un uomo, il cui ruolo narrativo resta però incerto e marginale) che l’impresario Joachim Zand ha riunito e portato in tournée in Francia esibiscono sul palco con seducente fierezza le loro figure tutt’altro che longilinee, quasi monumentali, agghindate nei modi più impensabili, con belletti a dir poco vistosi e costumi la cui fantasiosa originalità sembra non avere limiti. Maliziose ed infinitamente provocanti, eppure mai volgari, sopra le righe ma con una spontaneità che le rende quanto mai autentiche, le (non più giovanissime) ragazze sanno imprimere ai loro numeri un’intensità che va ben oltre il semplice striptease.

Eppure non è l’euforia dello spettacolo il vero nucleo di Tournée: al contrario, essa sembra dissolversi nella quotidianità di un tour fatto, più che di esaltanti successi, di fatiche e tempi morti, di brevi attimi di concitazione che affogano in una nostalgia senza scampo, cui le protagoniste non sfuggono nemmeno nelle hall degli alberghi in cui si stringono l’una all’altra per dimenticare la solitudine delle loro camere. Più che un’avventura on the road, quello di Joachim e della sua troupe è un falso movimento, uno spostamento che sembra portare fatalmente sempre nello stesso posto, lungo le coste di una Francia che non è mai stata così invisibile (le città restano dei toponimi, dei luoghi evocati ma in cui non ci si addentra mai veramente), e soprattutto così centrifuga: se Parigi è, immancabilmente, la mèta agognata e idealizzata, in cui l’impresario vuole a tutti i costi ottenere una sala, nel momento decisivo essa, o meglio, tutti i fantasmi che la popolano, lo respingono con inspiegabile violenza. Come avvolto nella nebbia, il passato dei personaggi rimane vago e sconosciuto, quasi sfuggente. Tutto si svolge nel presente: sappiamo poco di cosa ha spinto Joachim a lasciare la Francia per l’America, e possiamo solo supporre ciò che lo riporta indietro (i figli? il desiderio di riaffermarsi, di chiudere dei conti in sospeso?). Solo qualche indizio, di tanto in tanto, ci lascia intuire ciò che è stato, ma non è che un istante nella progressiva e incontrastabile caduta del personaggio, tanto più tragica e fatalmente inevitabile quanto più i contorni ne restano incerti e sfumati. Sappiamo ben poco anche delle ragazze, eppure questa ignoranza sembra forse ancor meno importante. La loro dimensione è quella del qui ed ora, il qui ed ora dell’affermarsi della loro pura, ineludibile presenza, del loro esserci insieme prepotente e fragile, della consapevolezza orgogliosa del proprio corpo massiccio, tatuato, agghindato fino all’eccesso, che cerca di svelare, dietro (o forse attraverso) la maschera di trucco, i tratti più segreti dell’interiorità.

Ed è proprio il corpo il vero centro propulsore del film, il veicolo pulsante ed autentico dei suoi significati: è attraverso il corpo, la sua densità materica, il suo muoversi nello spazio, occupandolo, che si giocano le tensioni tra i personaggi, così come è sui corpi che possiamo leggere gli effetti dello svolgersi (o piuttosto del precipitare) degli eventi. Un corpo, dunque, che è innanzitutto la fisicità dell’attore, e del personaggio che incarna. Così Mathieu Amalric, la cui carriera di interprete è molto più ricca – almeno in termini quantitativi – di quella da regista (Tournée è “solo” il suo quarto lungometraggio), si pone davanti alla macchina da presa con quei tratti caratteristici che porta con sé di film in film: la sua aria irrequieta, l’andatura leggermente sbilanciata, la sigaretta sempre in bocca, di sbieco, lo sguardo quasi attonito, stupito. Niente come la sua figura esile e nervosa, quasi troppo piccola per l’elegante vestito che si trova a calzare, contrasta con i corpi massicci, solidi e sicuri di sé delle ballerine, enormi in confronto ai minuscoli accessori che soli rimangono a coprirne (o piuttosto a sottolinearne ulteriormente) le generose nudità. Se la silhouette di Joachim sembra insinuarsi nell’ambiente senza realmente lasciarvi traccia, il corpo delle donne si appropria invece quasi prepotentemente dello spazio, impregnando ogni inquadratura di una presenza sensuale e pulsante.

Ed è questo contrasto che ci rivela, fin dall’inizio, quello che la scrittura ci farà scoprire solo man mano: Joachim non è affatto in grado di prendersi cura delle ragazze, di gestirle dentro e fuori i teatri, come pure sembra dalla tenera fermezza con cui all’inizio ne orchestra gli spostamenti, premurandosi che abbiano tutti i comfort, persino che vadano a letto ad un orario adeguato. Al contrario, quella di Joachim è una progressiva perdita di controllo, tanto pratico quanto emotivo: se nelle prime scene egli sembra, nella sua impeccabile giacca e cravatta, un personaggio compunto, sicuro di sé, e in ogni caso realmente capace di rappresentare un principio d’ordine nel vortice di incontenibile euforia della sua troupe, ben presto lo vediamo smarrirsi, perdersi nel vano tentativo di mantenere le redini di una vita con troppi conti in sospeso, per poi infine (ri)trovare finalmente un equilibrio. Egli si spinge, nel corso del solitario e delirante viaggio a Parigi, ai limiti dello sfinimento, oltre i confini di una stanchezza senza tregua, che ne devasta il viso, ne schiaccia le spalle e ne rende ancor più esile e quasi inconsistente la figura. Possiamo leggere il fallimento dei suoi tentativi di ottenere ciò che cerca nelle occhiaie sempre più profonde, nelle ferite lasciate dagli incontri/scontri con gli affetti del passato, nella pettinatura ormai completamente scomposta, nell’abito che ha perso ogni traccia dell’iniziale rigore. Il tutto proprio mentre, parallelamente, il corpo di Mimì (nei confronti della quale non fatichiamo a leggere da parte di Joachim un’inconfessata – e ricambiata – attrazione) sembra farsi più imponente, infinitamente più femminile e avvolgente, carico di una sensualità disperata, inespressa e inesprimibile.

Una Mimì che trova sostegno nel gruppo coeso delle sue compagne, da cui non si allontana mai davvero, per quanto a tratti se ne tenga in disparte. La vera forza delle ragazze sta infatti nell’essere sempre in relazione tra loro, nell’occupare il quadro in gruppo, insieme anche quando si esibiscono singolarmente sulla scena (lo show è sempre ripreso da dietro le quinte, da dove gli artisti seguono con partecipazione i numeri degli altri). Per quanto non smetta di affannarsi, la figura nervosa di Joachim porta dunque con sé una carica ben più disgregante dell’apparente entropia che muove le esuberanti americane. Esse costituiscono un corpo organico ed affiatato, che richiama fatalmente a sé chi (come l’impresario) se ne allontana, ma che respinge altrettanto inevitabilmente ciò che dall’esterno tenta di farvi il suo ingresso. Così, solo nella scena finale, dopo aver completamente (e letteralmente) smarrito la strada, Joachim ritrova la rotta, geografica ed emotiva, e può venire finalmente reintegrato nel gruppo. Al contrario, i suoi figli, residui di un nucleo domestico ormai disgregato, si allontanano dal padre prima del previsto, non riuscendo a trovare il loro posto in questa nuova famiglia sicuramente eccentrica, ma quanto mai affiatata e solidale.

Ed è proprio l’appello alla dimensione familiare uno degli elementi più ricorrenti del film, nel corso del quale i protagonisti si stringono gli uni agli altri fino a conquistare un’autentica coesione. Se Tournée si era quindi aperto nella piena euforia dello spettacolo, esso si chiude lontano dalle scene, in una sorta di surrogato di un ambiente domestico: un’enorme albergo con tutta l’aria di una casa, tranquilla e pacifica eppure deserta, quasi spettrale. Eppure, se in essa tutti i membri di questa famiglia sui generis sono finalmente di nuovo riuniti, tuttavia la solitudine non viene annullata, bensì solamente condivisa, e come amplificata dal silenzio delle stanze deserte e (fin troppo) soleggiate. Mentre il loro legame si stringe con più forza, i personaggi sembrano staccarsi definitivamente dal resto del mondo, chiusi nella prigionia dorata di una vita fuori dagli schemi.  Si rivela dunque infinitamente malinconica, l’altra faccia dello spettacolo, ancor più dimessa di quanto si potesse sospettare. Sulle ultime immagini di Tournée, sul suo finale amaro e improvviso, risuona, assordante, tutta la disillusione di Colette: “è come se fossi la sola a vedere all’inverso ciò che gli altri guardano dal diritto” (1).

Note:
(1) C'est comme si j'étais seule à connaître l'envers de ce que les autres regardent à l'endroit .... Colette, L'Envers du music-hall, Flammarion, Paris, 1913.

 


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