Liberi tutti! A proposito di trash, mainstream e degli exploitation movies PDF 
di Alberto Farina   

C'è qualcosa di peggio degli esperti di cinema che si danno delle arie? Forse sì, e sono gli esperti di "cinema trash" che si danno delle arie. La loro diffusione è iniziata in tempi abbastanza recenti, più o meno in coincidenza con la diffusione industriale di film che ancora dieci anni fa erano difficilissimi da trovare, e il cui culto cresceva soprattutto perché alimentato dalla loro supposta invisibilità.


Internet prima, e meritorie iniziative da edicola poi, hanno da qualche anno cominciato a riportare alla luce centinaia di film precedentemente accessibili solo per vie carbonare, ponendo spesso fine a ricerche ossessive e decennali di questo o quel titolo particolarmente ambito. Inevitabilmente, l'impatto con la realtà ha fatto strage di miti, ridimensionando drasticamente decine di pellicole amatissime da chi non le aveva mai viste, ma soprattutto facendo dilagare una sorta di Trash Pride che al giorno d'oggi sembra davvero non avere più motivo di esistere.

Già, perché all'inizio il trash era una precisa scelta espressiva di un giovane cineasta di Baltimora, quel John Waters che faceva cinema col preciso scopo di provocare e offendere la morale comune sperando di provocare attraverso il disgusto una reazione che potesse rompere il muro del moralismo più perbenista. Col passare del tempo, mentre Waters imparava a calibrare le sue provocazioni in un cinema accessibile a tutti ma sempre pervaso da umori acidi e corrosivi, il termine trash si allargava progressivamente ad includere un cinema brutto non certo per scelta, bensì per necessità o per insipienza degli autori. Diventa quindi "trash" la classica serie B, quel cinema di exploitation che si limitava a mettere all'incasso argomenti considerati tabù dal cinema più rispettabile, e per i quali esisteva tuttavia una richiesta da parte del pubblico: horror e fantascienza, prima di tutto, considerati per decenni generi "minori". E poi sesso, violenza e tutto quello di cui non si può parlare perché non sta bene, in primis la droga e a seguire qualsiasi forma di devianza dai canoni del buon gusto e del comune senso del pudore.

Per un certo periodo, anche l'esplorazione di questo genere di cinema diventa una sorta di presa di posizione latamente politica: il brutto come reazione a quello che si intende comunemente come bello, come scelta di anticonformismo, di non allineamento coi dettami della società. Ma l'affermarsi della moda diventa presto un mercato da sfruttare in modo estensivo, e così le scelte che un tempo potevano avere una qualche valenza blandamente eversiva oggi sono alla portata di chiunque pensi di darsi un tono con materiale che ha perso quel plus dettato dalla sua irraggiungibilità: chi si fa un punto d'onore di possedere la filmografia completa di Jesus Franco e Joe D'Amato non è più un inesausto spigolatore di videoteche di periferia che lotta a modo suo contro la standardizzazione dello spettacolo, ma solo qualcuno che ha parecchio spazio negli scaffali. E poi magari viene fuori che non ha mai visto un film di Fellini o di Antonioni.

 

Niente di male, per carità: ma il cinema è bello perché è vario e, anche se a nessun vero cinefilo dovrebbe difettare la curiosità per il mondo oscuro dell'exploitation, ciò non dovrebbe implicare la totale astensione dal cosiddetto mainstream e magari dal famigerato cinema d'autore. E la glorificazione in blocco dei prodotti più marginali dell'industria cinematografica, secondo l'abusata filosofia del "così brutto da essere bello", rischia di portare ben oltre il ragionevole la comprensibile reazione ad anni di ostracismo, anche perché il brutto dilaga ormai al punto che diventa sempre più difficile compiacersene.

Il problema non è solo che l'abbondanza di prodotto satura rapidamente il gusto per l'orrido: i temi favoriti da quelli che una volta si chiamavano exploitation movies sono stati per giunta metabolizzati dalla cosiddetta serie A e se si eccettua la pornografia - ultima frontiera interdetta al cinema mainstream (ma è una frontiera violata ormai abbastanza spesso da cineasti accreditati nei festival più prestigiosi) - non vi è più nulla che la grande industria cinematografica non sia in grado di offrire in confezione extralusso. La fantascienza è ormai il genere che più spesso dispone di ampi stanziamenti di budget, ma anche l'horror è arrivato da tempo a conquistarsi lo sdoganamento dei premi Oscar; e molti registi pieni di talento sono ormai in grado di soddisfare la nostra fame per la violenza gratuita e per il sesso (in tutte le sue declinazioni più o meno deviate) con uno stile che gli shlockmeisters degli eroici anni Sessanta nemmeno si sognavano.

 

Siamo appassionati di splatter? Gli sbuzzamenti amatoriali di Herschell Gordon Lewis, o la macchina tritacarne dello storico The Corpse Grinders di Ted V. Mikels sbiadiscono di fronte al Brain Dead di Peter Jackson, ben più inventivo nel dilaniare un corpo dietro l'altro con un ritmo che nulla ha da invidiare ai cartoons della Warner Bros; ma sfigurano anche di fronte all'Hannibal di Ridley Scott, con quella appetitosa cena a base di cervella umane estratte dal cranio di una vittima ancora viva e cosciente. Chi ama la fantascienza delirante non ha più bisogno di ripescarsi Plan Nine From Outer Space del povero Ed Wood quando ha a disposizione gli effetti speciali dei due Species - due film relativamente a basso costo - oppure colossi della stupidità spettacolare come Independence Day. I buffi supereroi di Ray Dennis Steckler, Rat Pfink e Boo Boo, vengono spazzati via senza difficoltà dai Men in Black - per non parlare dei supereroi "seri" come Spider-man, gli X-Men o il recente Hulk. Un piccolo mercato continua ad averlo il sesso scemo e allegro alla Russ Meyer - la cui lezione viene oggi portata avanti con gusto da quel Jim Wynorski che continua a realizzare un film dietro l'altro (uno dei più ingegnosi degli ultimi anni è senza dubbio The Bare Wench Project, parodia sexy del fenomeno The Blair Witch Project), ma un film come Showgirls offriva già qualche anno fa di che soddisfare un esercito di voyeurs cinematografici.

Di pari passo con lo sgretolarsi del ritegno che impediva al pubblico mainstream di abbandonarsi al divertimento per il divertimento, l'evoluzione del costume e della morale comune ha fatto il resto. Oggi chiunque può scegliere senza complessi di colpa il film più adatto ai propri gusti personali, e chi volesse darsi arie di originalità dovrebbe paradossalmente indirizzarsi ai classici da cineclub, da tempo emarginati dalle prime serate televisive ma altrettanto di rado proposti dai produttori di homevideo.

Liberi tutti, insomma, mentre all'affettuosa nostalgia per l'exploitation ingenua degli anni Cinquanta e Sessanta si affianca già quella per le imitazioni studiate a tavolino negli ultimi due decenni da case di produzione come la Troma, la Corman Factory o la Empire-Full Moon di Charlie Band, e i nuovi idoli del cinema dello shock - dalle necrofilie di Jorg Buttgerheit al ciclo nipponico dei Guinea Pig sono disponibili su lussuose edizioni in DVD con abbondanti contenuti extra. Con tanta abbondanza di materiale, di esperti orgogliosi della loro originalità si può davvero fare a meno: il bello del cinema spazzatura non è proprio che non c'è niente da capire?

Bibliografia minima
Alberto Farina, Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema exploitation
Il Castoro, Milano 1997
Marco Giusti, Dizionario dei film italiani STRACULT, Sperling&Kupfer, Roma 1999
Giuseppe Salza, Spazzatura – la prima guida mondiale al trash, Theoria, Roma-Napoli 1994

 


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