Kenneth Branagh
Il flauto magico
di Gianmarco Zanrè
William Shakespeare e Wolfgang Amadeus Mozart: due dei più grandi geni artistici di tutti i tempi. Epoche e paesi differenti, destini differenti. Entrambi ispiratori di generazioni di scrittori, musicisti, pittori, scultori, registi, teatrali e non. Kenneth Branagh non ha mai fatto mistero del fascino che questi due indiscussi talenti hanno esercitato su di lui e la sua opera dietro la macchina da presa, quasi questa fosse una sorta di ibrido fra l'omaggio e l'ispirazione per la creazione di qualcosa di nuovo, fresco, ricco d'inventiva e portatore di un messaggio attualizzato e indirizzato, parole dello stesso regista, ai giovani d'oggi, che, di certo, a volte faticano ad approcciare un'opera di Shakespeare o di Mozart. Sono queste le "motivazioni" che hanno spinto il cineasta di Belfast a portare Il flauto magico da un Egitto manovrato dalle logge massoniche alle trincee della Prima Guerra Mondiale, dove la Regina della notte assume le sembianze di una virago che quasi anticipa i tempi rispetto al look degli ufficiali nazisti, e Sarastro quelle di soccorritore dei profughi e dei feriti dei campi di battaglia, affrontando, e portando il suo pubblico ad affrontare, il tema del rapporto fra guerra e pace.
Le premesse e le intenzioni, considerato il punto di partenza - l'opera mozartiana -, ci sono tutte. Dunque, cosa rende questo flauto magico un semplice esercizio di stile, spesso molto lento, a tratti quasi insopportabile, una delle migliori rappresentazioni del detto "tutto fumo e niente arrosto"? Purtroppo - passando oltre la forma e la tecnica cinematografica, e di narrazione - proprio le scelte dello stesso regista, reo, almeno questa è l'impressione che scaturisce dalla visione, di aver peccato di presunzione, ponendosi ben oltre il punto di partenza e pensando, probabilmente, di dare al pubblico un prodotto che superasse, di gran lunga, l'efficacia dell'opera originale. Eppure, cambiare ambientazione, lingua - il cantato in inglese al posto dell'originale tedesco -, direzione e intenti non basta a fare della pietra oro: le stesse scelte tecniche, un collage di citazioni, da Una lunga domenica di passioni a Bergman, paiono vuote e pretestuose, così come l'idea che trasformare una pellicola in un richiamo a tratti palese e imbarazzante alla trilogia de Il Signore degli Anelli e alla saga di Harry Potter possa rendere Il flauto magico un'opera che anche il pubblico più giovane possa valorizzare e interpretare. L'errore più grande, dunque, che pare sia stato commesso da Branagh è di essersi posto, a priori, non soltanto al di sopra del lavoro di riferimento - operazione già di per sé molto rischiosa, quando ci si confronta con geni assoluti come Mozart -, ma anche, e soprattutto, del pubblico, portando sul grande schermo piani sequenza "aiutati" dagli effetti speciali, militari che imbracciano strumenti come una banda e un tono da salotto che ben poco si adatta a un'opera che nacque solo ed esclusivamente per il popolo.
Papageno, personaggio cardine dell'originale e unica ancora di salvezza per il lavoro di Branagh, vero e proprio punto di contatto tra pubblico e autori, diviene una sorta di macchietta relegata a comprimario del valoroso Tamino, che appare come un vuoto rappresentante dell'eroe lontano dalla gente che piace tanto "all'elite" cui, questa è l'impressione reale percepita durante la visione, il regista si rivolge. Fortunatamente il simpatico uccellatore riesce, anche grazie all'interpretazione volutamente sopra le righe di Benjamin Jay Davis - unico, con Sarastro/Renè Papè, a salvarsi in un cast povero ed inespressivo - a mantenere alta l'attenzione del pubblico che, nei lunghi passaggi dedicati agli altri personaggi, pare quasi sospirare per il ritorno di Papageno. Non basta, viene da suggerire a Branagh, mostrare aerei in volo come farfalle e inneggiare alla pace universale perché il messaggio di una pellicola sia accolto come innovatore o, più semplicemente, applaudito per le intenzioni. Troppo facile fare leva sull'immaginario della Grande Guerra trasformandola in una favola per ragazzi, e relegando la stessa ad un importanza marginale rispetto alle prove che l'impavido Tamino dovrà superare per conquistare il cuore dell'amata Pamina, figlia della stessa Regina della notte: l'impressione, ancora una volta, è quella di una prolungata autocelebrazione fortunatamente non culminata con la partecipazione anche attoriale del regista, non ultimo ad exploit di questo tipo.
Si è detto addirittura che a Mozart sarebbe piaciuto l'adattamento portato sul grande schermo da Branagh, coadiuvato, alla sceneggiatura, da un altro notissimo volto del cinema britannico, quello Stephen Fry che già fu Oscar Wilde; eppure il dubbio più legittimo, analizzando, anche a mente fredda, la pellicola, è che l'irriverente genio di Salisburgo, molto geloso della sua opera, non avrebbe troppo gradito l'impoverimento subito dal passaggio del suo lavoro tra le mani dello stesso regista irlandese. E, prendendoci una licenza "poetica" e citando un ben più efficace Amadeus cinematografico, quello di Milos Forman, l'immagine di Tom Hulce che, di fronte a Branagh, è mosso da una delle risate che tanto irritavano Salieri, appare quanto mai appropriata di fronte a un prodotto come questo. Chissà come la prenderebbe il prode Kenneth. L'impressione, nonostante i messaggi di pace e l'aura da studioso, le sperimentazioni e il sapere elitario "trasformato" in opera popolare, è che Mr. Branagh non la prenderebbe meglio di quanto non abbia fatto, chiedetelo a Forman, F. Murray Abraham.
IL FLAUTO MAGICO
(Gran Bretagna/Francia, 2006)
Regia
Kenneth Branagh
Sceneggiatura
Kenneth Branagh, Stephen Fry
Montaggio
Michael Parker
Fotografia
Roger Lanser
Durata
135 min