Quentin Tarantino
Grindhouse – A prova di morte
di Aldo Spiniello
Se è vera l'affermazione di Truffaut per cui un film riuscito deve esprimere "simultaneamente un'idea del mondo e un'idea del cinema", viene da chiedersi sino a che punto i film di Tarantino possano considerarsi riusciti. Perché se in essi appare evidente l'espressione partecipe di un'idea del cinema, non sempre è facile individuare una visione del mondo altrettanto compiuta. E l'ultimo Grindhouse – A prova di morte rappresenta un'ulteriore prova in tal senso.
Death Proof (questo il titolo originale del film) nasce originariamente come segmento del progetto Grindhouse, un omaggio al B-movie anni '70, di cui doveva far parte anche Planet Terror di Robert Rodriguez. Più che un'unica opera, due film da proiettare in successione, con tanto di spot e trailer "taroccati" a intervallarne la visione. Il tutto per ricostruire e omaggiare la programmazione delle sale di serie B anni '70, le Grindhouse appunto. Ma lo scarso successo ottenuto negli USA ha convinto i produttori a separare i due segmenti, spingendo Tarantino ad allungare Death Proof, per presentarlo in gara a Cannes e subito dopo nelle sale europee. Incidente commerciale che forse rientra alla perfezione nel DNA del film, prodotto di "seconda mano", da manipolare, riprendere, sezionare pur d'incontrare il gusto del pubblico. E A prova di morte reca incisi sul proprio corpo tutti i segni di questi interventi chirurgici. Non solo nei ricercati vuoti di montaggio e graffi della pellicola, riproduzione letterale, calligrafica, dei difetti di quei film che venivano proiettati più volte, passando di sala in sala nel corso delle serate. Ma ancor più nello sconclusionato ritmo della narrazione, che si dilata, sino a smarginarsi, negli infiniti dialoghi tra le ragazze (il femminismo di Tarantino!), per poi infiammarsi all'improvviso nelle scene d'azione, nelle derive truculente ai limiti dello splatter.
Nulla di diverso dal solito, si potrebbe dire. Del resto già Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown abbondavano di dialoghi tirati per le lunghe e di accelerazioni improvvise. Ma in ogni caso qualsiasi deviazione si ricomponeva nel quadro di un meccanismo narrativo calcolato, preciso, a tenuta stagna. Anche la vendetta a capitoli de "La Sposa" in Kill Bill, nonostante il pastiche stilistico, trovava soluzione compiuta nell'arco dei due "Volumi". In Death Proof, invece, sebbene il racconto segua percorsi geometrici, speculari, più che altrove si avvertono scarti e mancanze. Che fine fa lo sceriffo che sembra aver capito tutta la dinamica dell'incidente mortale? E il personaggio di Mary Elizabeth Winstead, lasciata da sola con l'energumeno proprietario della Dodge? Mancanze volute, è ovvio, ma anche vere e proprie ferite nel testo filmico, cicatrici che rimandano a quella sul volto di Stuntman Mike/Kurt Russell. Anche qui il gioco tarantiniano delle citazioni e degli accostamenti è infinito: dai road movie come Punto zero di Sarafian e Zozza Mary, pazzo Gary di John Hough alle avventure del ronin Zatoichi, dal richiamo allo Jena Pliskeen di Carpenter alla vera e propria autocitazione, con la musica di Kill Bill trasformata in suoneria del telefono. Ma è come se ormai il giocattolo fosse difettoso, e i meccanismi del racconto non più a prova di morte.
Nella sua poetica "sincronica", nel suo desiderio di riunire in un solo istante tutto il cinema amato, probabilmente Tarantino avverte il definitivo scollamento tra l'immaginario di un tempo e il mondo di oggi. Gli americani non si riflettono più nel loro cinema, non ne riconoscono lo sguardo. E il fatto che il pubblico non abbia gradito ne è una conferma. Ci si consola pensando che Grindhouse sia l'ennesimo esempio di una straordinaria gioia nel raccontare, della capacità di mantenere viva l'attenzione sul nulla, di uno sguardo sensuale sui magnifici corpi femminili. Ma rimane anche il velo di tristezza degli occhi di Butterfly/Vanessa Ferlito. Si ritorna a Truffaut, quando, correggendo l'affermazione precedente, scriveva: "oggi a un film che vedo domando di esprimere sia la gioia di fare il cinema, sia l'angoscia di fare il cinema e mi disinteresso di tutto ciò che sta in mezzo".
GRINDHOUSE – A PROVA DI MORTE
(Usa, 2007)
Regia
Quentin Tarantino
Sceneggiatura
Quentin Tarantino
Montaggio
Sally Menke
Fotografia
Quentin Tarantino
Durata
115 min