Deepa Mehta
Water
di Barbara Lorenzoni
Water, prodotto in Canada da un'autrice indiana, Deepa Mehta, è uno dei film candidati all'Oscar come miglior film straniero. Come portatore di suggestioni esotiche e voce di un mondo lontano da quello tante volte visto nelle cinematografie che hanno ampia distribuzione, ha tutte le carte in regola, ma oltre a ciò è esempio di quanto in alcuni casi, più che in altri, la realizzazione di un film consista, prima di tutto, nel praticare la principale caratteristica ontologica del cinema, quella comunicativa, cioè quella più scontata e nell'accezione più universale possibile, in modo che quella stessa opera abbia come destinatario il mondo intero.
Water non è certo ascrivibile al genere del documentario, ma si impone all'attenzione dello spettatore soprattutto per il suo tema drammatico, inedito sugli schermi e ancora oggi presente nella società indiana, cioè quello della sorte delle vedove. Si candida così, ancora prima che all'Oscar, senza battage pubblicitario, senza clamori, a rappresentare al cinema, per quest'anno, la lotta per i diritti umani, grido di dolore da una realtà sconosciuta e dimenticata. Il film della regista indiana, infatti, attacca, dall'esterno, un tabù millenario, prendendo, per questo, fin da subito le distanze dalla prolifica e popolarissima produzione autoctona di Bollywood. Un tabù che viene messo al centro di un messaggio forte, che non usa mezzi termini ma predilige un'enunciazione veicolata dal contrasto forte, nella fotografia, tra gli abiti bianchi delle donne protagoniste, il grigio dell'edificio in cui vivono e i colori accesi e sgargianti dei loro abiti nel giorno della festa. In tempi in cui le sorti del mondo sono presentate come incerto risultato della contrapposizione pretestuosa tra mondo cristiano e mondo islamico, questo film mette in guardia rispetto al futuro dell'umanità, dimostrando che anche in altri tempi, strumentalizzando a sua volta altre professioni religiose, il Potere, quello con la p maiuscola, appunto, ha cercato di esercitare la propria forza e di perseguire i propri scopi, senza tener conto degli esseri umani.
La regista vive in Canada ma è alla terra delle sue origini che è ritornata, ad una condizione di umanità ferita e prigioniera, con una trilogia di cui Water rappresenta il terzo atto. Dopo Earth e Fire, la regista indiana sceglie ancora un soggetto scomodo, rappresenta la versione più dura e aspra dell'India di Mira Nair, che si è occupata nella sua recente produzione di problemi legati soprattutto all'integrazione degli indiani nei paesi europei, al rifiuto dei matrimoni misti, come vuole la tradizione, e all'apertura, voluta dalle giovani generazioni, verso i matrimoni non più combinati dalla famiglie in base alla casta di appartenenza. Nair tocca temi scottanti e attuali nelle comunità indiane, utilizzando un registro talvolta drammatico e talvolta da commedia. Mehta, invece, torna indietro nel tempo, scende alle radici della tradizione, delle usanze indiane più arcaiche, derivate da parole contenute nei libri sacri indù. Il suo punto di vista usa il filtro dell'antropologia per insinuarsi nell'India più tradizionale e antica, retrograda e bigotta, che considera normale e accettabile la vita segregata e emarginata delle donne vedove. Ardisce puntare il dito contro ciò che, ammantato di sacralità, si è fossilizzato nella società indiana fino a rendere schiave alcune categorie sociali e a controllare il volere di milioni di persone. Questo spiega le difficoltà e la lentezza che sono state imposte al film nella fase della realizzazione: non è bastato, infatti, spostare l'epoca dei fatti al 1938, non è bastato allontanarsi dall'India di oggi per beneficiare della tolleranza dei fondamentalisti indù. Il set è stato bruciato, la lavorazione ostacolata da problemi di sicurezza, il film ha dovuto spostarsi in Sri Lanka. Così, strada facendo, il film si è caricato di un valore, di una qualità aggiunta che deriva da elementi tutti extrafilmici. La regista ha dichiarato di non aver perseguito, con il proprio film, l'intento di fare della propaganda, e in effetti questo intento non è ravvisabile: la sua enunciazione è molto piana e referenziale, ma è evidente che lo scompiglio che la sua opera ha prodotto ancora prima di essere terminata, per il solo fatto di accostarsi a certi argomenti, le attribuisce un indiscutibile significato etico e sociale, conferitole prima di tutto dall'ostilità di molti indiani.

Poche sequenze iniziali presentano la protagonista, Chuya, una bambina di otto anni, rimasta vedova dopo un matrimonio naturalmente combinato. Già nelle prime immagini del film compare l'acqua, come piccolo ruscello nel verde delle campagne, elemento naturale molto presente nel tessuto del racconto sotto la forma del fiume, luogo sacro per gli indù. Sulla riva del fiume, quello della città dove si svolge la maggior parte del film, davanti al tempio, viene bruciato, come vuole l'usanza, il corpo del morto. Questo luogo è lo scenario più ricorrente per le azioni del film, è un topos dall'inizio alla fine, legato ora alla morte, ma in altre scene al gioco, tra Chuya e Kalyani, all'amore tra Kalyani e Narayan, alla preghiera di Kalyani e di Shakuntala, alla riflessione di Shakuntala, alla morte di Kalyani e all'inganno di Chuya. È un luogo che evoca concetti di spiritualità e meditazione, che rappresenta un'equilibrata compenetrazione tra l'ambiente naturale e quello artificiale della città. È un luogo in cui si incrociano la vita e la morte, il dolore e la gioia, la speranza e la disperazione, la natura e la fede. Tutti i momenti cruciali del film traggono significato dall'iterazione, dalla somma di funzioni che quel luogo ha assunto per i personaggi, di volta in volta. Chuya è distante dalla cerimonia della cremazione, il suo mondo è ancora quello dei giochi. Non sa cosa sarà della sua vita, qualcuno ha deciso per lei che andrà in un ashram, la casa delle vedove. Al giorno d'oggi non ci sono più vedove bambine come nell'epoca del film, ma è ancora molto diffusa l'usanza di condannare le donne vedove a un umiliante destino: bruciare con il marito morto, sposare il fratello minore del marito, se la famiglia è consenziente, oppure vivere per il resto della propria vita in un ashram. Una didascalia nei titoli di coda informa il pubblico che nel 2001 c'erano ancora in India 34 milioni di vedove, di cui 12 milioni vivevano negli ashram.

Il ricovero delle vedove è uno spazio di segregazione. Chuya è una bambina tra tante donne e si dimostra subito insofferente alla rigida divisione dei ruoli e al carattere scontroso della burbera e sbrigativa leader. Si ribella, con l'irruenza e la spontaneità dell'infanzia, all'aridità dei rapporti tra le donne, le costringe ad aprirsi con lei, a cambiare. In particolare stabilisce un rapporto privilegiato e affettuoso con Kalyani, giovane e bella, costretta a prostituirsi dalla custode dell'ashram, che non può mantenere la casa e chi ci vive solo ricorrendo alle elemosine, unica attività concessa alle vedove. È proprio lei, senza volerlo, a causare il primo incontro tra Kalyani e Narayan, e a spingere alla presa di coscienza Shakuntala, il personaggio che meglio simboleggia il riscatto che l'India potrebbe trovare di fronte a sé. Inizialmente Shakuntala è succube del ricatto morale derivato dalla fede: è un donna rispettosa delle parole sacre e in virtù di ciò, pur soffrendo, accetta, come condizione scontata, l'emarginazione prevista per le vedove, ma è anche una donna intelligente e quando lo stato di cose che la tiene prigioniera, insieme alle compagne, produce danni irreparabili su Kalyani e Chuya, decide che vale la pena contrastare le convenzioni per permettere almeno a Chuya di avere un futuro fuori dall'ashram.
Il finale scelto da Deepa Mehta è carico di speranza: Shakuntala affida Chuya a Narayan, il giovane innamorato di Kalyani, seguace di Gandhi, che è pronto a partire con il suo maestro per predicare la fiducia in un'India nuova.
WATER
(Canada/India, 2005)
Regia
Deepa Mehta
Sceneggiatura
Deepa Mehta
Montaggio
Colin Monie
Fotografia
Giles Nuttgens
Musica
Mychael Danna
Durata
114 min