Marco Bellocchio
Il regista di matrimoni
di Andrea Bettinelli
Anche se afferma di aderire a un "cinema d'immagine" più che a un "cinema di parola", Marco Bellocchio è oggi il regista italiano che forse ha tratto maggior profitto dal rapporto con la pagina scritta. La sua filmografia, infatti, include diverse trasposizioni, tutte scelte tra i grandi capolavori della letteratura dell'Ottocento e del Novecento, nel segno di una volontà ambiziosa di confrontarsi con riferimenti "alti", da Kleist (Il principe di Homburg) a Cechov (Il gabbiano) a Pirandello (Enrico IV e La balia).

Questa matrice letteraria è ben presente anche ne Il regista di matrimoni, in cui tuttavia viene sperimentata una nuova forma di rapporto tra cinema e letteratura, che va oltre lo schema classico dell'adattamento e si avvicina piuttosto al modello della parodia. L'apparato narrativo e figurativo del film, infatti, evoca continuamente, in chiave di citazione e di rimando, immagini e archetipi desunti da I Promessi Sposi. La sceneggiatura prende le mosse dalla crisi di ispirazione di un regista (Franco Elica, interpretato da Sergio Castelletto che già aveva collaborato con Bellocchio ne L'ora di religione) a cui è stato commissionato un adattamento per il cinema del capolavoro manzoniano. Il film rincorre il romanzo con una rete fittissima di sottili richiami: l'azione si svolge, ad esempio, in una Sicilia barocca che rappresenta l'equivalente odierno più probabile della Lombardia spagnolesca de I Promessi Sposi, un'ambientazione quasi fiabesca in cui spiccano i luoghi cardine della geografia simbolica del Manzoni, il castello del principe Gravina, che ricorda il palazzaccio di don Rodrigo o il castello dell'Innominato, e il convento in cui viene rinchiusa Bona (la figlia del principe), che rimanda invece ai celebri chiostri di Frate Cristoforo e della monaca di Monza. In questo modo, gli elementi del film si sovrappongono con insistenza ai fantasmi del romanzo, che è presente come in filigrana: i personaggi di Bellocchio sono tentati di trasformarsi repentinamente in don rodrighi e lucie, in bravi e innominati. Anche il racconto è come sorretto da una serie di "geometrie" narrative, di triangolazioni, divaricazioni e riunificazioni, che rimandano al grande modello diegetico manzoniano, con alcune significative e ironiche variazioni, visto che nel nostro caso il personaggio che svolge la funzione di ritardare il matrimonio (il regista Franco Elica) è allo stesso tempo il personaggio innamorato, contemporaneamente don Rodrigo e Renzo Tramaglino.
Resta da chiedersi se il senso di questa operazione sia quello di un puro e semplice gioco citazionistico, o se da queste trame intertestuali non si possano ricavare piuttosto delle indicazioni utili per tentare una prima interpretazione del film. Da una parte sembra quasi scontato rilevare come Bellocchio intenda soprattutto prendere le distanze dal testo di partenza, all'insegna di un atteggiamento che abbiamo già definito parodistico. Il regista piacentino vuole rifiutare e smentire, a conti fatti, l'ideologia manzoniana del matrimonio, tanto che alla fine del film regala un dispetto allo scrittore milanese: mandando a monte il matrimonio della protagonista femminile (Bona Gravina), libera Lucia dalle nozze e dà compimento alla famigerata formula secondo cui "il matrimonio non s'ha da fare". Dall'altra parte però sembra di intuire che il film, nel momento stesso in cui si distanzia dal romanzo, cerca di recuperarne la parte più attiva, vale a dire questo ideale di purezza ormai perduto (ed è la ragione della crisi creativa di Franco Elica), rappresentato dal mito letterario di Lucia, e miracolosamente reincarnato in Bona, che in questo senso svolge la stessa funzione della Gradiva ne L'ora di religione, entrambi simboli di bellezza, anche se di forma opposta: bruna, mediterranea e misteriosa la Bona di Donatella Finocchiaro; bionda, solare, apollinea la Diana di Chiara Conti. Donne angelicate, secondo la grande tradizione della poesia medievale e moderna, nella desolazione dell'oggi.
La tensione simbolica del film è riscontrabile già a partire dalla scelta dei nomi dei personaggi, condotta nel segno di un'onomastica ludica (Franco Elica e Orazio Smamma, Enzo Balocco e Bona Gravina) che ha precedenti illustri nella nostra tradizione letteraria, a partire proprio dal Manzoni (con i suoi Azzeccargabugli) fino alle invenzioni di Carlo Emilio Gadda (si pensi al Gonzalo Pirobutirro de La cognizione del dolore), ma che era già stata sperimentata dallo stesso Bellocchio ne L'ora di religione, che annoverava tra i protagonisti un Ernesto Picciafuoco e un Filippo Argenti. Lo spettatore può essere tentato di scomporre i simboli del film, come in un'enigmistica figurata, per cercarne riferimenti all'attualità (ad esempio: gli orologi asincroni del palazzaccio del principe Gravina potrebbero essere il segno dell'arretratezza culturale italiana). Ma è più probabile che il simbolismo proposto da Bellocchio abbia un valore pittorico e direi di tonalità atmosferica, come un fondale dipinto posto in una scena teatrale il cui unico scopo è di accompagnare la fantasia del pubblico dentro un mondo fiabesco e onirico. Per cui è meglio non chiedersi il significato delle due coppie di cani (prima neri, poi bianchi) che vigilano sull'onorabilità di Bona: sono riferimenti numerici, coppie e simmetrie, che valgono all'interno di una cabala puramente convenzionale.
Il procedere del racconto è come sorretto da una volontà surreale e quasi buñueliana (a un certo punto, vengono menzionate le musiche di Satie per Entr'acte), che si traduce in un continuo trascorrere tra il mondo della realtà e quello del sogno (mai nettamente separati) e in un insistito ricorso - denunciato dallo stesso regista - all'ellissi, secondo un procedimento inaugurato ne L'ora di religione, per cui le sequenze non vengono mai concluse pienamente, determinando aperture di senso cui non segue un'adeguata risposta. Di qui un senso di non finito e provvisorio che alcuni hanno scambiato per un difetto di stile. Questa indeterminatezza trova la sua massima esemplificazione nel finale aperto, in cui Bellocchio pone il suggello del rapporto tra il film e il romanzo del Manzoni. La regia inquadra i primi piani di Franco Elica e Bona Gravina inseriti nella carrozza di un treno, secondo le regole del classico controcampo: facendo pensare che i due personaggi siano nella stessa carrozza e che fuggano insieme, assecondando insomma il cliché narrativo - di ispirazione manzoniana - che vuole che i due amanti, a lungo separati, finalmente si uniscano. Ma le inquadrature successive, che si distendono in un piano più allargato, mostrano che Franco e Bona sono in carrozze diverse, forse in treni diversi, diretti verso mete diverse. Il regista gioca e ironizza sull'istituto del controcampo per deviare la traiettoria romanzesca del film. A essere rifiutato, è l'idillio finale de I Promessi Sposi. L'obiettivo del "regista di matrimoni" non può essere il matrimonio, ma l'acquisizione laica della coscienza della proprio libertà individuale. Lucia è stata sottratta, infine, al suo destino di sposa.
IL REGISTA DI MATRIMONI
(Italia/Francia, 2006)
Regia
Marco Bellocchio
Sceneggiatura
Marco Bellocchio
Montaggio
Francesca Calvelli
Fotografia
Pasquale Mari
Musica
Riccardo Giagni
Durata
107 min