Andrea Adriatico
Il vento, di sera
di Francesco Torre
C'è sempre un momento, nella vita di ogni uomo, in cui il destino sembra guardarti negli occhi e spazzare via ogni certezza. Una folata di vento, gelida e veloce, sbatte con violenza sull'asfalto tutti i ricordi, i gesti conosciuti a memoria, le voci del passato. Il vento, di sera. E
siste una dimensione privata, nascosta, quasi muta in ogni tragedia pubblica. Si tratta di un dolore che non fa notizia, che non chiede indignazione e rispetto alla Nazione, che rinuncia alla rabbia e alla vendetta per chiudersi nell'angoscia di quattro nostalgiche mura, oppure per vagare per la città in cerca di tracce astratte, significati senza significanti, simboli indecifrabili della barbarie metropolitana.
Dichiaratamente ispirato ai fatti di Bologna del 19 Marzo 2002 (l'assassinio del Prof. Marco Biagi, docente di diritto del lavoro all'Università di Modena e consulente del Ministro Maroni per la riforma del mercato del lavoro, avvenuto in Via Valdonica per mano di brigatisti), il primo lungometraggio di Andrea Adriatico Il vento, di sera scivola come un blues notturno e solitario proprio sulle note di questa dimensione intima del dolore, regalandole voce e dignità tra le maglie di un'informazione distratta e ipocrita.
Seguendo l'errare infinito, in bilico tra sogno e realtà, di Paolo, un uomo che a seguito dell'omicidio di un onorevole ha perso il proprio compagno, reo di aver visto in volto gli assassini, avvertiamo infatti una crescente atmosfera di tensione che interessa tutta una città ripresa nel momento del massimo sconvolgimento. Eppure il viaggio all'interno della notte del protagonista si tramuta ben presto in un viaggio dentro se stesso, alla riscoperta dei propri limiti e delle proprie paure, anche in relazione alle ingiustizie di una società che trasuda indifferenza, una società qui spiata dal buco della serratura, sotto la pallida luce dei lampioni.
E Bologna sembra proprio il luogo perfetto per animare questo dramma coniugato al plurale: città piena di contrasti, costretta a convivere con quel senso di tolleranza, multiculturalità e solidarietà che da sempre la contraddistinguono; città muta sotto la spessa superficie di rumori di fondo, che muore e si rigenera continuamente, sulle spalle di tutti i gruppi di minoranze che, proprio di notte, qui trovano riparo, benché riuniti in spazi angusti, veri e propri ghetti architettonici e mentali; città a circuito circolare, protetta da solide mura di cinta, in cui il senso di smarrimento s'incrocia con la paura di perdere i propri obiettivi, di fermarsi al punto di partenza.
Quelle voci della notte che contraddistinguono l'abituale scorrere e perdersi di vite nel capoluogo emiliano rappresentano per il protagonista del film gli echi di un dramma che non ha spiegazione, e allo stesso tempo si pongono come richiami di rassegnazione e di emarginazione: minoranze etniche, sessuali e religiose, un mondo di freaks i cui diritti si manifestano soltanto nelle ore notturne, prima che la luce del giorno li occulti nuovamente per non infastidire le coscienze della città che dorme e che lavora.
Straordinario in questo senso il cameo di Giovanni Lindo Ferretti, leader storico dei CCCP – poi CSI – sordido clochard i cui gesti ripetitivi, meccanici, associati ad una nenia tradizionale, ricordano che la paura più grande dell'uomo è la solitudine, e che la morte è una tragedia tanto grande quanto lo spazio di silenzio e solitudine che riesce a provocare attorno a sé.
Andrea Adriatico, apprezzato autore di cortometraggi e regista teatrale d'indubbia esperienza, sceglie di adottare uno sguardo obliquo, inquieto, oltre le apparenze, in cui i volti si confondono con lo sfondo e il paesaggio si sostituisce più volte ai protagonisti. Discreto e personale, il suo stile riesce a rubare luce al territorio del socialmente invisibile, e coniuga con rispetto e senza retorica etica ed estetica.
In un dramma notturno, a riflettori spenti, il modo di utilizzare le luci della città assume un'enorme importanza: insegne, lampioni, riflessi, ombre sui portici, colpiscono i personaggi con insolenza, mostrandone i moti più inconsapevoli, facendo deflagrare il dolore nei loro volti schiacciati, resi ancora più piatti e meno definiti dalla scelta della tecnologia digitale per le riprese, che nell'insieme ha un ruolo non secondario nel dare al film un ritmo cadenzato, oggettivante, del tutto convergente con la progressione narrativa. C'è un senso generale di decadenza nella costruzione di questo atipico percorso di formazione, tipico dei racconti di fine millennio o dei poemi metropolitani in prosa.
Omosessualità, terrorismo, emarginazione sociale, temi importanti del dibattito sociale italiano, vengono qui presentati all'interno di una cornice normalizzante, al fine di universalizzare un sentimento di sofferenza che altrimenti rischierebbe di essere incomprensibile a molti. Ed è invece nella speranza di una complice comprensione, di un'amara solidarietà che il film trova la propria ragion d'essere, nella sua capacità di descrivere con attenzione un dramma che interessa tutti come uomini e come italiani. Alla fine della notte, delusi per non aver trovato le risposte alle nostre eterne domande, guardiamo con sospetto, quasi con timore al nuovo giorno che sta nascendo, coscienti di essere finalmente e tragicamente parte del tutto.
IL VENTO, DI SERA
(Italia, 2004)
Regia
Andrea Adriatico
Sceneggiatura
Stefano Casi, Andrea Adriatico
Montaggio
Roberto Passuti
Fotografia
Gigi Martinucci
Musica
Roberto Passuti
Durata
92 min