Quentin Tarantino
Kill Bill (Vol.1)
di Mescalito Sangiovanni
Nel suo ultimo lavoro Tarantino ha costruito una pellicola che può essere a pieno titolo definita il manifesto del postmoderno cinematografico. La straordinarietà di quest'opera é come riesca ad attraversare qualunque genere e qualunque stato d'animo e lasciarlo cogliere contemporaneamente sia nella sua forte emozione sia nel suo colto riferimento cinefilo se non addirittura intellettuale. La scena del risveglio dopo innumerevoli stupri durante il coma, per esempio, parte come la parodia dello stato di Alicia in Habla con Ella di Almodovar, si lascia andare a qualche stilema postmoderno (l'iperreale dettaglio del pungiglione della zanzara che "stupra" la pelle della donna) e approda nel giro di un istante ad una scena di un dramma viscerale e sconvolgente in quanto scuote a fondo l'intestino e il midollo ancora prima che il "cuore": la luce fredda e verdastra quasi come in un Kubrick, l'atmosfera disumana e asettica delle cliniche americane che tanto sanno di esperimenti genetici, una donna dal volto scavato nella carne che prelude già nell'immagine l'icona della sofferenza.
Poi il risveglio, e la donna che dopo quattro anni di coma pensa subito al suo grembo ed alla vita che stava covando prima ancora di capire dove come e quando si trovi; quando realizza smette di pensare, come qualunque essere vivente in quella situazione farebbe e lascia andare lo sfogo più puro ed estremo: un grido disperato in una rappresentazione geniale sia per sintesi che per intensità del senso di maternità. Pochi credo hanno mai saputo rappresentare l'istinto animale materno in venti secondi con tanta efficacia. E mentre si sviluppa e fiorisce in infinite peripezie, la vicenda in realtà continua a vivere sull'eco del momento germinante di tutto il dramma: l'urlo della madre dei primi venti secondi (in ordine cronologico) dell'intreccio, urla su cui poi sono intessute due (che poi saranno almeno quattro) ore di intenso ed epico lirismo, che porta l'eroina in giro per i sette mari ed i cinque continenti.
Ogni azione che essa muove, ogni colpo che vibra e ferisce, ogni parola di minaccia o promessa sgorgano tutte dal suono motore che ha dato il via a tutto, ed ogni gesto ha già in sè il suo perché, che qualunque spettatore riesce a percepire e condividere, perché si esprime nella semplicità del Mito ed ha il suo background nella storia stessa dell'umanità: La Vendetta. Solo con delle basi così solidamente costruite in un truce ed archetipico inizio il Regista poi può permettersi di giocare con tutti gli altri linguaggi ed eseguire mille "variazioni sul tema", che attingono l'onore samurai e lo spirito giapponese perlustrato anche in tutte le sue forme artistiche (da Hokusai ai manga al cinema di HongKong), il road-movie americano ed europeo (anche Wenders in Fino alla fine del mondo approda a Tokio) , il western (anche spaghetti) e lo stesso stile pulp-postmoderno (nelle gags e nel sadico umorismo che non risulta mai eccessivo nè ruba la scena all'atmosfera principale).
Quando le radici sono così solide, è come se il conflitto impostato in nuce funga da basso continuo, e qualunque divagazione (anche trash o grand-guignolesca come tante ce ne sono) è accettata e goduta al pieno, perché nonostante sulla nave Kill Bill vi sia uno spettacolo di cabaret, tutti i passeggeri sanno di navigare sul sangue spinti da un vento che viene dall'Epos dell'antica Grecia.
Tanto quanto variano con leggiadria i climi e le tensioni, altrettanto versatile è il linguaggio che le da forma: il cartone animato che introduce il flashback di O-Ren è più struggente della stessa realtà perché è idealizzata e caricata al contempo, con i tratti duri e aggressivi di un fumetto per adulti e la musica del mito americano, l'unico mito creato dallo stesso Cinema e non da altre arti: il western, anzi il western made in Italy, cioè l'immagine mitica di un mito altrui.
Nell'accostamento quasi ossimorico tra Oriente e Occidente l'alchemia riesce a compiersi con gran classe e violenta poesia. Infatti nonostante l'apparente "antipodia", le immagini di un mondo e la musica di un altro riescono a rinforzarsi l'un l'altra sulla scia di un sentimento comune: la giustizia, l'onore e la vendetta. Questo è capire il mondo e ciò che si agita fra le righe della storia e della geografia. E ci sono altri due momenti esemplari di questa intercompenetrazione tra l'azione di una scena, le forme di rappresentazione tipiche della cultura dove essa ha luogo e la musica apparentemente straniante: la prima è quando la nostra eroina, nel privè blu del ristorante giapponese, combatte contro gli ultimi scagnozzi di O-Ren.
La scena è ripresa lateralmente, perpendicolarmente alla linea d'azione, espediente che da un primo effetto di appiattimento, ulteriormente esasperato dal controluce che rende gli uomini delle pure ombre "cinesi", attingendo così la forma di rappresentazione dal luogo fisico in cui l'azione si svolge (l'Oriente) e schiacciando le sagome contro il fondo blu (spirituale), stilizzato a quadrati regolari (giapponesi).
Questa messa in forma da al tutto una doppia essenzialità: quella delle pure forme che si agitano (essenza del movimento) e, più a fondo, quella di una lotta che esula i soggetti: non protagonisti o antagonisti, né buoni né cattivi, solo la rappresentazione della battaglia e della violenza (essenza della guerra in sé).
L'ultimo, forse il più sottile e lirico, esempio di pastiche linguistico, è nella scena finale di Volume 1: dopo i fasti barocchi della strage al giapponese l'eroina apre il siparietto e si ritrova come in una bolla di vetro di natale, in un giardino alla giapponese sfumato nella neve. Qui l'attende O-Ren per la resa dei conti: un dettaglio molto japanese quale un torrente-bonsai con una microdiga di legno a leva, azionata dal gocciolio dell'acqua, è esasperato e ingrandito (iperrealismo postmoderno) per esser trasformato in uno dei topos iconici e fonici di un altro luogo, del far west: l'abbeveratoio dei cavalli o le cisterne e il ciclico rumore dell'acqua che scandisce gli attimi prima di un duello.
Poi parte il ritmo ciclico e incalzante delle nacchere e del cajon flamenco a permeare l'atmosfera atemporale dell'arena giapponese innevata, ad accendere di attesa incandescente gli sguardi, a trasformare un'americana e una nippo-cino-statunitense in due guerriere lucidissime e animali al contempo. Vediamo agitarsi sullo schermo due personaggi di cui sappiamo la storia e il loro ruolo, ma anche due forze ancestrali che si sfidano in una corrida del passato o del futuro, senza capire fino alla morte chi era il torero dei due. La vendetta da Epos omerico contro l'Onore Samurai, narrato col linguaggio dell'America e del suo mito-home-made, accompagnato da un ritmo profondamente arabo-andaluso (ma riarrangiato in un brano dance moderno) che scandisce una corrida sotto la neve nell'estremo oriente: questo è il genio postmoderno del pastiche.
E, al di là di teorie, di analisi, di significati sottesi che si possono scovare, l'aspetto più rilevante è che, alla semplice visione d'evasione, tutti questi ingredienti si fondono alla perfezione e l'impressione non è di una accozzaglia bensì di una grande armonia degli elementi: non c'è scissione tra loro, ma entrambi si annullano della forza divertita e drammatica della narrazione. Non ha inventato nulla Tarantino, nemmeno la musica, per cui ha attinto da fonti interne alla rappresentazione cinematografica, ma è riuscito a riciclare tutto ciò che già è stato detto, elaborato e ritrasformato per crearne un'opera autonoma da tutte loro, una sintesi dialettica delle forme, dei linguaggi e dei topos del cinema, della letteratura, della storia e della natura dell'animale uomo, e vi è riuscito in un'epica nuova che riesce a confondere i suoi cromosomi profondi e remoti nel piacere della visione.
KILL BILL (VOL.1)
(Usa, 2003)
Regia
Quentin Tarantino
Sceneggiatura
Quentin Tarantino
Montaggio
Sally Menke
Fotografia
Robert Richardson
Musica
RZA
Durata
110 min