Edward Zwick
L'ultimo samurai
di Eva Maria Ricciuti
Provincia di Yoshino, Giappone 1876 (epoca Meiji). Villaggio di uomini e donne operosi. Villaggio di uomini guerrieri, di samurai. Laddove regna l'etica e la moralità, laddove si vive secondo le nobili regole del Bushido, laddove si ricerca la perfezione in ogni gesto, laddove "un uomo fa ciò che può, finché il suo destino non si rivela". Un'oasi di rettitudine.
Là, un uomo disonorato e disonorevole, disilluso e disgustato può stupirsi della rispettosa compassione dimostratagli da un nemico sconosciuto e incomprensibile. Là, ciò che rimane di un soldato che un tempo fu eroe della Guerra Civile (uno degli uomini del generale Custer, addirittura!), ora ridotto a vile mercenario, alcolizzato per dimenticare, può ritrovare se stesso e, infine, può unire "la vecchia via con la nuova". Può imparare a conoscere, ad amare, a rispettare ed a condividere gli ideali e le gesta di un nemico che si rivela non troppo diverso da lui, in fondo. Una storia già vista, già proposta innumerevoli volte in diverse soluzioni.
In versione tragicomica: Piccolo grande uomo (1971).
In versione puro western: Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972).
In versione colossal pluri-premiato: Balla coi lupi (1990).
E via dicendo, in un'innumerevole serie di rimandi a pellicole più o meno famose, più o meno fedelmente citate ma senza (e questo è un pregio inaspettato) pretese di originalità e con molto garbo e fresca ironia; con la viva consapevolezza di riproporre temi e storie già visti, con la dignità di un samurai che sa di andare incontro a morte certa, ma segue ugualmente il suo percorso. Perché in una morte onorevole un uomo ritrova l'onore perduto.
Nulla di nuovo (dal fronte occidentale) sul fronte orientale, dunque.
Eppure, malgrado la grossolana banalità della storia (che troppo spesso incappa in prevedibili luoghi comuni), la pienezza delle immagini, l'opulenza dei paesaggi, la fiera e virile eleganza dei gesti dei samurai non possono che risvegliare in noi viva ammirazione e infinito stupore per la rappresentazione di una realtà la cui complessità e verità già troppe volte è stata eccessivamente semplificata e ridotta a puro fenomeno estetico.
La via del Bushido non è riassumibile nel concetto di "arte marziale" eppure, in occidente, troppe volte è stata così interpretata: con gli occhi di uno straniero che non riesce a penetrare (ed infondo nemmeno lo vuole) l'essenza di una realtà più che complessa, di una realtà che racchiude in sé un mondo, un universo di significati che potrebbero "riassumersi" con la logica degli Haiku (tradizionale genere poetico giapponese consistente nella descrizione di un fenomeno naturale utilizzando il minimo assoluto di parole. L'idea di base è che dalla descrizione della concomitanza di due avvenimenti scaturisca, nella fantasia del lettore, una terza immagine e dalla comparazione di questa con le precedenti ne derivi una quarta e così via, fino a raggiungere un'inattesa complessità di significati che si perde in un affascinante e misterioso gioco di rimandi).
Troppi Karate Kid, troppe Tartarughe ninja, troppi Kill Bill hanno contribuito a creare dell'arte dei samurai una visione distorta che quest'ultima pellicola riesce, almeno in parte, a correggere. E lodevole è l'intenzione di presentare i samurai non più come efferati e sofisticati guerrieri, virtuosi della spada, tutti calci, urla gutturali e salti acrobatici che forzano le leggi della gravità, ma, verosimilmente, come "studiosi dell'arte della guerra", amanti dell'arte, cultori della poesia, uomini capaci di rinunciare alla propria vita pur di restare fedeli ad un ideale di lealtà e ad una scelta di vita che comporta innumerevoli responsabilità nei confronti della propria terra e del proprio popolo.
Ottime le prove di recitazione fornite dagli attori di origine orientale, in special modo colpisce la recitazione un po' sopra le righe di Ken Watanabe, un temibile e marziale Katsumoto che con i suoi lunghi sguardi diretti in camera richiama alla memoria dei nippo-cinefili l'intensità degli occhi di Toshiro Mifune; delicatissima, quasi un fiore di pesco, la figura della giovane vedova Kata, interpretata da una splendida Koyuki. Tom Cruise, già attore di indiscussa fama, sembra perfettamente calato nella sua parte, solo potremmo rimproverargli gli occhi un po' troppo spesso lucidi di pianto e la stupefacente velocità con la quale arriva ad acquisire tecnica e padronanza dell'arte della spada; in soli sei mesi di pratica riesce a tener testa a più di un samurai contemporaneamente, un vero fenomeno!
Indiscussa la bellezza di alcune sequenze che tradiscono la derivazione dalle nipponiche (e ipotizzabili) fonti iconografiche: le xilografie della serie dei Sei eroi scelti (1853) o le stampe della serie delle Cento Biografie di eroi d'alta fama (1842) di Ichiyusai Kuniyoshi. Una tra tutte la scena della vestizione. Oppure le sequenze memorabili degli allenamenti all'aria aperta.
La regia, chiaramente avvezza al genere colossal-epico (si ricordi che il regista Edward Zwick è già brillante autore di Glory-Uomini di gloria e Vento di passioni), si muove con notevole disinvoltura tra evidenti citazioni del Ran di Akira Kurosawa e la magia delle pellicole di Sergio Leone, spolverando il tutto con notevole dose di ironia e gag di facile riuscita, inserite qua e là per spezzare la tensione emotiva. Tuttavia, malgrado tutte le sue buone intenzioni, malgrado le "dichiarazioni programmatiche" di attori e regista, malgrado la volontà di dare uno spessore intellettuale e filosofico alla pellicola, malgrado tutto, L'ultimo samurai è un film non perfettamente riuscito. Eccessivamente pregno di facile retorica, troppo scontato nella trama, diventa quasi insopportabile nelle ultime interminabili sequenze esplicative.
È una pellicola che tratta lo spettatore come un bimbo un po' sciocco cui presentare e rendere più che chiara la morale della favola.
L'ULTIMO SAMURAI
(Usa, 2003)
Regia
Edward Zwick
Sceneggiatura
Marshall Herskovitz, John Logan, Edward Zwick
Montaggio
Steven Rosenblum
Fotografia
John Toll
Musica
Hans Zimmer
Durata
144 min