David Lynch
Una storia vera
di Andrea Parena
Una cittadina nello Iowa. Un giardino e una piccola abitazione di legno immersi nel Midwest, dove vivono il settantatreenne Alvin Straight, testardo ed indipendente, e l'adorata figlia Rose, l'unica di sette ad essergli rimasta vicina. Con lei il vecchio ama assistere sulla veranda allo scatenarsi del temporale nella notte, ed è proprio durante una tempesta che arriva la telefonata dal Wisconsin.
Lyle Straight, fratello di Alvin, ha avuto un infarto, ed è nell'arco di una notte che il vecchio decide di lasciare l'amata figlia per raggiungerlo. Non è un viaggiatore Alvin, o almeno, da tempo non lo è più. Gli anni hanno indebolito i suoi occhi e le sue gambe, ma nulla ormai potrà impedire il viaggio che Alvin dovrà affrontare con l'unico mezzo di trasporto a sua disposizione: un vecchio tosaerba. Quelle da percorrere con pazienza e determinazione, un rimorchio-roulotte e una buona scorta di salsicce e paté di fegato, sono trecentocinquanta miglia di distese di granturco e poi di colline, oltre il Mississippi. I due fratelli potranno forse tornare a contemplare insieme il cielo stellato, come facevano da bambini, ancora ignari della vita e lontani, con la loro innocenza, dall'odio e dai litigi che nella maturità li hanno tenuti separati, distanti.
Questo è certo un film anomalo nella produzione del regista di Elephant Man e Velluto blu, sebbene esistano elementi di continuità rispetto al passato di Lynch (il fuoco dei falò e delle case incendiate, la presunta tara mentale di Rose, il gusto strambo per il surreale).
La stessa sperduta provincia americana è un tema che ritorna, ossessiva nei "labirintici" rettilinei infiniti, subdola come il serpente a sonagli, scrigno di terribili segreti con l'incrocio delle poche strade che sono la trama di paesini immersi nel granturco. Raccontato da Truman Capote in pagine dal fascino gelido ed irresistibile, è un tema ormai classico, che sembra essere per il regista un inevitabile punto di partenza, una sorta di insostituibile residuo di poetica in cui sentirsi al sicuro, e per noi un vasto spazio di suggestioni.
Pasolini diceva che il cinema assomiglia alla vita, o meglio che questa assomiglia al cinema, nel suo scorrere in un lungo piano-sequenza che solo nel momento estremo acquista senso, quando la coscienza, come una moviola, vede riemergere selezionati i momenti unici, determinanti, accostati in un disegno pregno di significato. È questa l'operazione che compie Alvin giunto all'estremità della sua esistenza: le praterie percorse alla velocità del tagliaerba sono le fasi della vita percorse al ritmo dell'esperienza. I lunghi momenti di silenzio, di raccoglimento, di "passaggio" fluido sulle corde della vita, lasciano frammentariamente spazio agli sporadici incontri (la giovane incinta, il sacerdote) che sono pretesto della memoria per ristabilire i momenti chiave della vita di Alvin, i momenti in cui il cammino non si sviluppa più sulla strada tesa verso l'orizzonte, ma nelle profondità del vissuto.
Il tempo del fluire si arresta, il tagliaerba viene lasciato al bordo della strada, scende la notte e scoppietta un piccolo falò, una salsiccia si annerisce sulla punta di un bastone, una storia mai narrata riporta il tempo dell'uomo alla qualità dei propri dolori, dei propri desideri, delle proprie paure, del proprio coraggio. Così infine il ritmo di una vita, dispiegata su trecentocinquanta miglia di strada dallo Iowa al Wisconsin, è il contenuto del film, ed è il suo incedere ostinato a segnare gli incontri e le rivelazioni di Alvin.
UNA STORIA VERA
(Usa, 1999)
Regia
David Lynch
Sceneggiatura
J. Roach, M. Sweeney
Montaggio
Mary Sweeney
Fotografia
Freddie Francis B.S.C.
Musica
Angelo Badalamenti
Durata
111 min