Una cittadina nello Iowa. Un giardino
e una piccola abitazione di legno immersi nel Midwest, dove vivono il
settantatreenne Alvin Straight, testardo ed indipendente, e l'adorata
figlia Rose, l'unica di sette ad essergli rimasta vicina. Con lei il
vecchio ama assistere sulla veranda allo scatenarsi del temporale nella
notte, ed è proprio durante una tempesta che arriva la telefonata
dal Wisconsin.
Lyle Straight, fratello di Alvin, ha avuto un infarto, ed è
nell'arco di una notte che il vecchio decide di lasciare l'amata figlia
per raggiungerlo. Non è un viaggiatore Alvin, o almeno, da tempo
non lo è più. Gli anni hanno indebolito i suoi occhi e
le sue gambe, ma nulla ormai potrà impedire il viaggio che Alvin
dovrà affrontare con l'unico mezzo di trasporto a sua disposizione:
un vecchio tosaerba. Quelle da percorrere con pazienza e determinazione,
un rimorchio-roulotte e una buona scorta di salsicce e paté di
fegato, sono trecentocinquanta miglia di distese di granturco e poi
di colline, oltre il Mississippi. I due fratelli potranno forse tornare
a contemplare insieme il cielo stellato, come facevano da bambini, ancora
ignari della vita e lontani, con la loro innocenza, dall'odio e dai
litigi che nella maturità li hanno tenuti separati, distanti.
Questo è certo un film anomalo nella produzione del regista
di Elephant Man e Velluto blu, sebbene esistano elementi
di continuità rispetto al passato di Lynch (il fuoco dei falò
e delle case incendiate, la presunta tara mentale di Rose, il gusto
strambo per il surreale).
La stessa sperduta provincia americana è un tema che ritorna,
ossessiva nei "labirintici" rettilinei infiniti, subdola come
il serpente a sonagli, scrigno di terribili segreti con l'incrocio delle
poche strade che sono la trama di paesini immersi nel granturco. Raccontato
da Truman Capote in pagine dal fascino gelido ed irresistibile, è
un tema ormai classico, che sembra essere per il regista un inevitabile
punto di partenza, una sorta di insostituibile residuo di poetica in
cui sentirsi al sicuro, e per noi un vasto spazio di suggestioni.
Pasolini diceva che il cinema assomiglia alla vita, o meglio che questa
assomiglia al cinema, nel suo scorrere in un lungo piano-sequenza che
solo nel momento estremo acquista senso, quando la coscienza, come una
moviola, vede riemergere selezionati i momenti unici, determinanti,
accostati in un disegno pregno di significato. È questa l'operazione
che compie Alvin giunto all'estremità della sua esistenza: le
praterie percorse alla velocità del tagliaerba sono le fasi della
vita percorse al ritmo dell'esperienza. I lunghi momenti di silenzio,
di raccoglimento, di "passaggio" fluido sulle corde della
vita, lasciano frammentariamente spazio agli sporadici incontri (la
giovane incinta, il sacerdote) che sono pretesto della memoria per ristabilire
i momenti chiave della vita di Alvin, i momenti in cui il cammino non
si sviluppa più sulla strada tesa verso l'orizzonte, ma nelle
profondità del vissuto.
Il tempo del fluire si arresta, il tagliaerba viene lasciato al bordo
della strada, scende la notte e scoppietta un piccolo falò, una
salsiccia si annerisce sulla punta di un bastone, una storia mai narrata
riporta il tempo dell'uomo alla qualità dei propri dolori, dei
propri desideri, delle proprie paure, del proprio coraggio.
Così infine il ritmo di una vita, dispiegata su trecentocinquanta
miglia di strada dallo Iowa al Wisconsin, è il contenuto del
film, ed è il suo incedere ostinato a segnare gli incontri e
le rivelazioni di Alvin.