Kimberly Peirce
Boys don't cry
di Enrico Giovannone
Fuggire. Cambiare identità. Essere un'altra persona in un altro luogo. Sembra facile, a parole. Eppure, a volte, è come se ci fosse una gabbia immaginaria che imprigiona le persone e vanifica ogni tentativo di fuga. Boys don't cry racconta proprio questo: il fallimento di un disperato tentativo di fuggire.
Teena Brandon ha ventuno anni, vive sprofondata nella provincia americana e vorrebbe essere un ragazzo per poter essere libera di amare le ragazze. Dice di non essere lesbica ma di essere vittima di una crisi d'identità sessuale. Decide così di tagliarsi i capelli quasi a zero, fasciarsi il seno contro il petto, vestirsi stile cow-boy e non essere più Teena Brandon ma solamente Brandon. Pochi gesti e una nuova carta d'identità bastano alla protagonista per avere l'illusione di fuggire da se stessa. Una fuga illusoria, appunto, perché, se è possibile fuggire dal proprio nome ("Il nome non è la persona/ Il nome è la larva" G. Caproni), non è possibile fuggire dal proprio corpo. E, in questo film, il corpo è il vero protagonista.
La storia di Teena è, in un certo senso, "scritta" (cinematograficamente) sul suo corpo. Con un ritmo in crescendo la regista Kimberly Pierce imprigiona sempre più questo corpo in spazi soffocanti. È emblematica la scena in cui Teena-Brandon entra per la prima volta in casa di Lana, la ragazza per amore della quale perderà la vita. Siamo nel tipico salotto della tipica casa della provincia americana. Le inquadrature sono strette sui personaggi. Il soffitto è basso. Le pareti sembra vogliano chiudersi su loro stesse. Si soffoca. Teena-Brandon viene fatta sedere sul divano e sprofonda nei cuscini, come se qualcosa o qualcuno la trainasse verso il basso. Un'inquadratura dall'alto ci mostra il suo corpo schiacciato contro i cuscini, ed è chiaro che ormai è impossibile alzarsi e andare via.
Dopo questa scena inizia la parte migliore del film. Trenta minuti tesissimi dove con un profondo senso di frustrazione si assiste all'inutile dibattersi di Teena in questa gabbia immaginaria da cui è impossibile scappare. La sensazione di soffocamento diventa costante. Si vorrebbe vedere un campo lunghissimo per poter respirare, e invece le inquadrature stringono sempre di più. Si assiste impotenti all'ultimo atto della tragedia di Teena, "scritto" violentemente sul suo corpo. John e Tom, amici di Lana, scoprono la vera identità della protagonista, quindi la costringono a denudarsi e a mostrare il proprio sesso davanti a tutti (Lana, la madre di Lana, noi spettatori). Poi la violentano, prima uno poi l'altro.
Ritroviamo Teena in un primissimo piano con il volto tumefatto. Si vorrebbe quasi che il film finisse qui, si vorrebbe dire a Teena di fermarsi, di riposarsi, di non fare ciò che si sa che farà: tornare nella casa di Lana e tentare insieme a lei un'ultima impossibile fuga. Le due ragazze passano la notte insieme, non nella casa-prigione di Lana, ma in una baracca senza luce dove la macchina da presa entra discretamente, quasi accarezza i due corpi avvinghiati uno all'altro, e le pareti buie sembrano svanire, confondersi con il cielo notturno.
Il mattino dopo Teena cerca di convincere Lana a scappare, ad andare via il più presto possibile. Ma Lana è confusa, non sa che fare, esita. Arriva John. È ubriaco ed ha una pistola in mano. Pochi istanti, un grido, un colpo di pistola. Il corpo di Teena giace riverso a terra. La macchina da presa si avvicina lentamente al suo viso che, per la prima volta, mostra un'espressione serena, come se finalmente, dopo una fatica estenuante, fosse giunto il momento di riposarsi.
BOYS DON'T CRY
(Usa, 1999)
Regia
Kimberly Peirce
Sceneggiatura
A. Bienen, K. Peirce
Montaggio
Barbara Von Weiterhausen
Durata
114 min