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Si
apre con la figura intera di Alice Harford (Nicole Kidman) l'ultima opera-evento
di Stanley Kubrick. Un'unica inquadratura della protagonista mentre si
sfila il vestito, che suggerisce lo sbattere delle palpebre, un colpo
d'occhio, un'iniziale intuizione di ciò che ci verrà presentato,
un'eloquente volontà di analizzare quella silouhette.
Già dalle prime battute si può quindi comprendere l'intento
del regista; lo sguardo dello spettatore viene immediatamente indirizzato
verso una visione che travalica quella del voyeur (ruolo istituzionalmente
ricoperto durante la proiezione).
Ciò che interessa non è la carnalità dei corpi
mostrati sullo schermo, ma la mente che li possiede e li guida. Il mostrarli
nella loro scultorea bellezza diviene il modo più semplice per
giungere a qualcosa che va intellettualmente oltre a ciò che
si vede, a un diverso modo di guardare. La prima inquadratura - delimitata
dai titoli di testa e dal titolo stesso, e temporalmente separata da
ciò che segue (se non per richiamarsi all'atto sessuale consumato
dai due coniugi dopo la festa) - assume le sembianze di un "manifesto"
di una diversa poetica della visione. "Occhi nuovi" quindi
per iniziare a seguire la crisi di una coppia. "Occhi chiusi ma
al tempo stesso sbarrati", come nel sogno, per cogliere una realtà
ambigua che si intreccia continuamente con quella inconscia, onirica,
ellittica sino quasi a confondersi e sfumarsi con essa. E infatti la
crisi dei due protagonisti scaturisce proprio dai dubbi vicendevolmente
insinuati, dalle proiezioni mentali di Bill Harford (Tom Cruise) che
esaltano, inaspriscono e deviano qualsiasi tipo di pensiero oggettivo.
Non a caso il titolo originale di "Doppio Sogno" (1931),
il libro di Arthur Schnitzler al quale si è ispirato il regista
per il suo ultimo lavoro, è Traumnovelle, cioè
la storia di un sogno oppure di un'illusione, dello sconvolgimento psico-emotivo
del protagonista in seguito alla rivelazione da parte della moglie di
aver desiderato un altro uomo. Di conseguenza le avventure notturne
di Bill così narrativamente e visivamente reali, possono trasformarsi
nelle ambigue e oscure fantasie che il marito tenta di opporre alla
moglie con lo scopo di difendersi da quel dubbio invadente che non riesce
a scacciare.
L'atto sessuale mancato, che si presenta come costante conclusione
di quelle stesse avventure, è una riprova sufficiente di una
dimensione onirica governata dai rimorsi di coscienza, dalle paure,
dalla casualità. "Nessun sogno è interamente sogno"
dice Fridolin nelle battute finali del racconto di Schnitzler, e Kubrick
sembra ribadire nel suo film che nessuna realtà è interamente
reale. Nasce da qui un gioco del doppio polisemantico che investe completamente
i due protagonisti e che, non casualmente, ci vengono mostrati durante
l'unico atto sessuale che li unisce, attraverso la loro immagine riflessa
nello specchio.
Si comprende da subito l'abilità dei due di mettere in gioco
una loro controfigura, una proiezione di sé che si palesa completamente
nell'utilizzo della maschera. Dapprima quest'ultima è quella
indossata dai due per apparire in società: Kubrick da subito
propone in maniera ostentata lo stereotipo di una felice famiglia alto-borghese
che si reca ad un'importante occasione mondana dove nessuno si conosce
ma è obbligato a perpetuare i medesimi riti e comportamenti.
In un secondo momento la maschera invisibile e uguale per tutti viene
rimpiazzata sia da quella che ognuno personalmente indossa relazionandosi
agli altri nei momenti di maggiore intimità; sia da quella che
si oggettivizza nelle sue più svariate forme nella suggestiva
(e tanto discussa) scena dell'orgia. Una copertura che nel caso di Fridoline/Bill
svolge inizialmente il ruolo di "contenitore" di identità
e sensazioni, per poi divenire l'emblema di un atteggiamento, di uno
stato d'animo nel momento in cui si materializza sul cuscino accanto
alla testa di Alice. Un'immagine quest'ultima che, proprio per il suo
forte simbolismo, mette nuovamente in dubbio la realtà degli
eventi ai quali abbiamo assistito fino a quel momento.
Al tempo stesso rappresenta il climax narrativo: i due personaggi prendono
coscienza del loro errore e cercano di porvi rimedio. Ma non c'è
soluzione. La possibile riconciliazione duratura ipotizzata dal marito,
viene realisticamente arrestata da Alice che esprime le sue perplessità
sul loro rapporto e sul futuro, chiudendo il dialogo con l'emblematico
"let's fuck", cioè quell'esortazione a fare sesso per
sconfiggere la vacuità di un rapporto infelice e la desolazione
di una quotidianità opprimente.
E' proprio il sesso il terzo personaggio di questo dramma che, non
casualmente, apre e conclude la crisi della coppia in questione e spesso
muove i fili dell'azione. Ma è una sessualità artificiale,
meschina e decadente che spesso tende alla morte. Se da una parte manca
qualsiasi tipo di sentimento, paradossalmente dall'altra sembra mancare
anche il piacere.
E' quindi una ricerca affannosa e frustrata di quest'ultimo quella
che i personaggi compiono e che Kubrick, un po' moralisticamente, fa
sempre concludere in maniera negativa. Infatti escludendo gli atti mancati
del protagonista di cui sopra abbiamo già parlato, si può
pensare al corteggiamento insistente delle due modelle contrapposto
con uno stacco netto (il primo dopo una lunga introduzione di dissolvenze
incrociate), alla cruda nudità di Mandy, la giovane in overdose;
al bacio disperato consumato vicino al capezzale del defunto; alla seriopositività
della prostituta; alla tensione amorosa provata da Bill per Mandy nella
sala dell'obitorio.
Il regista non lascia via d'uscita ai suoi personaggi che si nutrono
avidamente di un cibo che li avvelena. E in questo contesto si ripresentano
alcune delle fantasie erotiche già presenti nella filmografia
di Kubrick: a nessuno può essere sfuggito il ritorno di una conturbante
Lolita (anche se in questo caso sfruttata); così come il menage
a trois intrattenuto con le modelle ricorda quello del drugo Alex con
le due ragazze del negozio di dischi (anche se la conclusione sarà
nettamente diversa) in Arancia Meccanica.
Inoltre, da quest'ultimo film si può estrarre come suggestione
l'ultima visione del protagonista (magistrale sigillo conclusivo del
film) quasi del tutto riproposta in una scena dell'orgia. Questa immensa
composizione di sentimenti, pensieri, ossessioni e gelosie viene orchestrata
dal regista utilizzando fino in fondo e in tutte le sue potenzialità
i codici del linguaggio filmico. La mdp, e quindi il suo occhio, cerca
di sparire utilizzando lunghi piani sequenza e carrellate come per "pedinare"
i personaggi: è possibile riscontrare una volontà di porre
in secondo piano la propria personalità, così presente
nei film precedenti, per focalizzare l'attenzione dello spettatore totalmente
sui personaggi.
Al contrario se da una parte cerca di nascondersi, dall'altra punta
tutto sulla fotografia (affidata in questo caso a Larry Smith) che alterna,
in maniera contrastante, momenti di forte luce con altri dalle ombre
pesanti che avvolgono i protagonisti. Si può menzionare, una
per tutte, la sequenza iniziale della festa (che ci ricorda il salone
da ballo dell'Overlook Hotel) durante la quale le forti luci che addobbano
l'ambiente anziché conferirgli un festoso calore, calano la situazione
in un'atmosfera algida dove l'illuminazione sembra sfoggiata solo per
celare i lati oscuri dei convitati. E ancora bisogna menzionare la magniloquente
scenografia che riproduce interi quartieri di New York, svuotandoli
però di quella frenesia, di quel sovrappopolamento tipici della
Grande Mela.
Una scelta volta sia a suggerire nuovamente la dimensione del sogno
sia a caratterizzare un contesto gelido e asettico malgrado il Natale
incombente. Ogni spazio domestico è segnato dalla presenza di
un albero di Natale che, malgrado le luci variopinte, non riesce a trasmettere
gioia ma solo ad accrescere la desolazione di quegli ambienti.
L'albero diviene così una vera e propria icona che testimonia
una mancanza, un'assenza, il ripetersi di un rito ormai spoglio del
significato originale. La scelta di due attori di fama mondiale che
risponde alla volontà stessa del regista di far vedere le proprie
opere a un pubblico molto ampio, in questo caso probabilmente ha costituito
un limite invalicabile. Se da una parte Nicole Kidman si lascia andare
abbastanza liberamente ai dialoghi scritti dal regista in collaborazione
con Frederic Raphael - costruiti sulle frasi lasciate a metà,
sul peso dei silenzi, sui pensieri solo lasciati intuire - dall'altra
Tom Cruise è troppo rigido nei movimenti non riuscendo ad abbandonare
del tutto, almeno per una volta, il suo ruolo di belloccio americano.
A questo bisogna unire l'immancabile traduzione italiana che aumenta
in maniera vistosa la loro teatralità. E per finire bisogna toccare
il tasto dolente del montaggio. Non si può non essere d'accordo
con Paolo Cherchi Usai che provocatoriamente (Segno Cinema, sett/ott
1999) ha denunciato l'assenza del final cut. Infatti si avverte, soprattutto
verso la fine, che non c'è stato il taglio del grande maestro,
quell'ultimo lavoro di lima che probabilmente avrebbe reso certi passaggi
più scorrevoli e meno sbavati. Malgrado ciò Kubrick con
Eyes Wide Shut firma un'opera completa e complessa - la cui falsariga
nichilista è da ricercare nel testo da cui è partito -
e che si propone, come nei film precedenti, di indagare i grandi misteri
che riguardano l'uomo, Dio, le pulsioni sessuali e - non ultima - la
visione.
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