Digit Fashion Eye
In un’intervista rilasciata a “Latinoamerica” (n°65, pubblicata da “Il manifesto” del 6 settembre 2001, pag. 18), Walter Salles - il regista di Central do Brasil in concorso all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia con Abril Despedaçao – individua nella tecnologia digitale la soluzione per un nuovo «cinema vitale, energico ed essenzialmente creativo, che potrà finalmente utilizzare la macchina da presa come una penna». Mettendo prontamente da parte ogni riferimento al concetto di Caméra-stylo, coniato da Astruc in tempi assai diversi e su cui si è lungamente discusso, un punto di contatto si può individuare nell’ambiente in cui questo stesso concetto prenderà forma. Se di Nouvelle Vague si parlava in Francia dopo la metà del secolo scorso, di Nouvelle Vogue, si perdoni il calembour, si potrebbe parlare all’inizio di questo millennio.
La nuova moda della cinematografia contemporanea, la più discussa per come ha diviso drasticamente la critica, è proprio quella lanciata dal gruppo danese del Dogma 95 qualche anno addietro, tendenza che ha trovato consensi e proseliti nelle altre produzioni mondiali. Un’ondata imponente che ha allargato i confini del visibile, che ha già ammaliato un’intera generazione di giovani filmakers, e che sta corteggiando in maniera ammiccante anche i grandi maestri. La concezione di amatoriale è stata messa in discussione da tecniche e regole che proprio dal video fatto in casa prendono le mosse. Non conta più la qualità dell’immagine, quanto la sua moltiplicazione, la relativa decomposizione e, perché no, la sua decadenza.
Mike Figgis
Dopo alcuni sporadici tentativi (si pensi all’interessante e quasi dimenticato Time Code di Mike Figgis), la recente Mostra di Venezia è stata teatro della nuova invasione, dal tentativo di Giuseppe Bertolucci con L’amore probabilmente, all’happening della Fura del Baus, alla presentazione del nuovo Indipendent Digital Entertainment, un progetto completamente basato sulle tecniche più avanzate della tecnologia digitale battente bandiera statunitense. L’InDigEnt (è questa la sua sigla indicativa), nato nel 1999 dall’unione dell’Indipendent Film Channel (televisione via cavo che trasmette solo produzioni indipendenti) con la Sloss Special Projects e il regista Gary Winick, si propone di produrre una dozzina di film a budget limitato (non superiore ai 100.000 dollari), in netta contrapposizione con le multimiliardarie grandi sorelle hollywoodiane. La stessa troupe si divide - senza alcuna distinzione tra il regista e l’attrezzista - il cinquanta per cento dei proventi del film stesso. L’attacco alla cosiddetta Mecca del cinema è diretto e palese. Ma questo è solo l’aspetto più evidente e, forse, il meno interessante.
La rivoluzione digitale cambia faccia. L’immagine sgranata non è più il manifesto del rifiuto di un cinema tradizionale, ma il semplice espediente per dare vita ad una nuova forma di cinema che nasce dalle presunte ceneri di quello passato. Utilizzando sceneggiature fortemente dialogate e un linguaggio notevolmente spigliato, la volontà di quest’operazione è una produzione seriale che non rimanga legata al pubblico di nicchia, ma che si espanda a un largo raggio. Il fine ultimo, come dice la stessa sigla, è l’intrattenimento, non la provocazione teorica.
L’America rifiuta il grido danese ma ne assorbe le intuizioni, incanalandole in una direzione volta a scardinare la logica speculativa della fruizione statunitense. E lo fa attraverso i due interessanti lavori dell’InDigEnt Project presentati alla Mostra, Women in Film di Bruce Wagner - storia diaristica di tre donne che frequentano a vario titolo e con diverse speranze ed aspirazioni il mondo del cinema - e il quasi programmatico Tape di Richard Linklater, che utilizza saggiamente la componente tempo all’interno dell’unicità dello spazio della storia per sondare da un punto di vista narrativo le possibilità di evoluzione del racconto e, più indicativamente, ad un livello esclusivamente iconografico, esprime ed ostenta le potenzialità del mezzo digitale utilizzato. Se Wagner utilizza la tecnologia per una sorta di confessione intima rivolta alla camera, che prende le mosse dallo stile documentario per virare in fiction spiazzante, Linklater, nei primi venti minuti del suo film tratto da una salda pièce di Stephen Belbar - che in questo modo garantisce dinamiche di racconto già testate e la conseguente possibilità di concentrarsi sulla recitazione e sulla composizione iconica e plastica -, offre un vero e proprio saggio delle possibilità del digitale, trasformando lo spazio di una stanza di un motel in scenario metacinematografico ad uso e consumo di esegeti, curiosi e futuri fruitori della nuova tecnologia. Una stanza di motel con colori bruni. Alcune fonti di luce da un paio di abat-jours dislocate in modo strategico all’interno dello spazio, una grande sorgente luministica proveniente dal bagno della stanza che si pone esplicitamente come punto focale di riferimento spaziale all’interno del setting mostrato dal regista, alcuni specchi che raddoppiano l’immagine delle figure che si muovono all’interno dell’ambiente, uno dei personaggi (Vin, interpretato da uno sfavillante Ethan Hawke) che appare quasi tarantolato nella sua estrema smania di muoversi nervosamente, una sorta di pipistrello ingabbiato in uno spazio chiuso e sostenuto da massicce dosi di sostanze psicotrope. Queste sono le indicazioni fondamentali che Linklater presenta sotto forma di informanti che preludono alla messa in scena e che si premurano di allestire ciò a cui lo spettatore si sta accostando.
Women in film
Tutto è pronto per i venti minuti di manifesto programmatico del nuovo mezzo: Linklater vuole dichiaratamente fornire le coordinate attraverso le quali utilizzare o leggere (a seconda della prospettive) il digitale, come la realtà effettiva vista in virtù di una scansione analogica possa essere trasformata in serratissime campionature che convertono i parametri dell’immagine in milioni di sequenze binarie. E visto che i parametri del frame - l’informazione presente in un’immagine elettronica - si fondano sui livelli di luce, sulla qualità dei cromatismi e sulla nitidezza dei contrasti, Linklater organizza messa in scena e messa in quadro, ossia contenuti ed esplicite modalità di rappresentazione, per esibire le enormi potenzialità della sua videocamera: movimenti di macchina veloci e sempre a fuoco, profondità di campo, piani differenti all’interno dello stesso quadro, estremo controllo delle condizioni di luce, notevole cura nella definizione dei più minuti dettagli, montaggio febbrile e fluido, velocità e mancanza di problematicità nella transizione focale, alta definizione dei colori e dei relativi contrasti, assoluta agilità nella ripresa. Dopo i venti minuti citati, Linklater si concentra (ed anche molto bene) sulla definizione dei personaggi e sulla loro estrinsecazione relativamente allo sviluppo della diegesi, ma la prima parte è una sorta di tour de force esplicativo. Una specie di promozione a scopo divulgativo del mezzo digitale che in un certo senso mette in discussione il principio espresso in apertura dalle parole di Salles: sulla base del puro entusiasmo per la democraticità del procedimento, l’onda rischia seriamente di trasformarsi in moda. Anche se è innegabile che l’apertura delle nuove tecnologie all’austerità abbia fornito una vera e propria boccata d’aria fresca ad un cinema spesso soffocante e soffocato, è fin troppo evidente come - in breve tempo - questa abbia perso la sua intensità, svuotandosi così di quell’aggressività che aveva attirato l’attenzione della critica e del grande pubblico.