Qualche riflessione intorno alla preponderanza della forma
La nullificazione dell'essere
di Dante Cruciani
Il cinema contemporaneo appare sempre di più come il regno dell'appositamente confezionato e predisposto, un luogo in cui non si organizza la comprensione dello spettatore ma la sua reazione a determinati stimoli visivi ed iconografici.
Il pubblico si siede nella sala e segue inattivo il percorso propostogli dal film che sta vedendo, accompagnato per mano all'interno di una storia che si offre come mero ed elegante pretesto per presentare una linea nella quale il tragitto ottico-cognitivo da seguire è impostato intorno all'iconicità del significante e al ritmo di svolgimento della pellicola, ossia dalla velocità della sua messa in serie.
Se nel cinema classico è più o meno vero (a seconda dei casi specifici) che l'immagine riduceva la sua importanza in funzione della storia che intendeva raccontare (e di cui si faceva puro supporto visivo), attualmente la tendenza più appariscente (in virtù del suo fulgore spettacolare) è quella di conferire un'ipertrofia del piano rispetto alla consequenzialità narrativa, un'importanza palesemente esibita all'immagine e alla sua denotativa manifestazione iconica, messa in una relazione non paritetica con il piano connotativo della rappresentazione.
Il film non si organizza più inquadratura dopo inquadratura, ma inquadratura su inquadratura: l'iconomegalia dell'immagine lega la sua nuova natura direttamente al piano energetico e pulsionale, al concetto di forza più che a quello di significato.
Il protagonismo della macchina da presa diventa esasperato e onnicomprensivo, il suo sguardo non propone oggetti di visione ma li impone, obbligando l'itinerario dello spettatore lungo rigidi binari che esulano dalla consigliata comprensione del significato per affidarsi al dettato del percorso, che diventa di tipo libidinale, legato cioè al soddisfacimento di una pulsione scopica, a un vagheggiamento di tipo spettacolare. L'immagine, tramite la sua esibizione palese, rende altrettanto evidente il suo offrirsi come vera e propria riproduzione, come effigie di un processo in atto davanti agli occhi dello spettatore e, inevitabilmente, opera un ritorno su se stessa della medesima operazione comunicativa. Con un piccolo scarto, però.
Quello che si realizza non è un feedback dovuto alla manifestazione esplicita di un processo comunicativo in atto, ma è la rappresentazione fin troppo evidente di una mutata referenzialità all'interno dell'istituzione cinematografica: ciò che si intende trasmettere non è più una realtà effettuale, ossia il mondo che si apre allo sguardo curioso dello spettatore, bensì il mostrare la stessa macchina cinema nelle sue mille facce diverse, nell'evoluzione della sua natura, nei mutamenti delle sue figure filmiche, nella diversa dislocazione di segmenti narrativi ed iconici (citazioni, riproposte di immagini, colori e scenografie, dichiarata presentazione di situazioni drammatiche già viste).
Il cinema contemporaneo utilizza la sedimentazione instillatasi nell'immaginario collettivo per rendere transitiva la sua essenza: le consuetudini assodate dalla pratica del montaggio, i capolavori della storia, le codificazioni dei vari generi attraversano e superano la natura del cinema e attualizzano un mutamento di pelle, perchè l'universo comunicativo (dopo McLuhan, ma grazie ad esso) è diventato un 'villaggio globale' che si autoalimenta continuamente e dal quale il cinema trae costantemente linfa, ispirazione e volontà all'integrazione dei vari stilemi e degli innovativi segni iconici.
Così il montaggio si fa più serrato, mostrando attenzione alle infinitesime variazioni di ritmo imposte dalla colonna musica (non più d'accompagnamento, ma ordinatrice di tempi e scansioni), mentre l'immagine assume interi frammenti o semplici quanto riconoscibili quadri da altre famose pellicole (The Cell, per es.) per una vertiginosa mise en abime del significante (forma che basa la sua forza su una forma preesistente), incrocia senza soluzione di continuità cultura alta con il relativo sviluppo pop e affida alla computer graphic l'estrema spettacolarizzazione dell'impossibile che si fa possibile, auspicabile, certo. Si giunge, di conseguenza, ad un nuovo metabolismo spettatoriale: l'agogico ingloba il diegetico, la denotazione sottomette il significato alla sua esplosione figurativa, il senso si dissolve e l'intreccio si destruttura a vantaggio dell'iconografia.
Ma si tratta di profondità mediatica o appiattimento verso il nulla?