L'orrore dell'identificazione nello spettatore
Semplice come il buongiorno
di Gianluca Moro
L' orrore è una categoria esistenziale oltre che filmica. Dietro al linguaggio che lo rappresenta esiste una fisicità dell'orrore, una presenza, una filosofia. Più che una categoria, l'orrore è una presenza reale. Il gioco dell'identificazione spettatoriale prende forma e distorsione nel contesto plurale della tecnica e della dimensione umano-emotiva, fino a raggiungere lo spunto critico, l'interpretazione.
Se ciò è valido per ogni genere di film, l'horror sembra poter assumere una valenza mitica ed esemplare, tra metafora e materia: la sospensione, il ritmo, la tensione verso una fine sono portati all'esasperazione, tanto da creare uno stato di parodia dell'emozione stessa. Una ripresa in soggettiva "sporca" si esaspera di movimenti frenetici fino a lasciare una scia di sangue ironico. È l'inizio di Halloween, il principio dell'orrore, la fine della stasi. In senso narratologico nulla di nuovo: dallo stato iniziale attraverso il movimento della storia verso il riequilibrio finale (che può paradossalmente essere il non-scioglimento del nodo, ossia una tensione per sempre), un procedimento già presente nelle fiabe ancestrali portatrici di una "struttura dell'orrore".
L'identificazione acquista vigore dalla duplice matrice visiva e narrativa: con l'identificazione primaria lo spettatore "entra" e vive la realtà del film, la fenomenologia dello schermo fuso dentro di sè (e viceversa); attraverso l'identificazione secondaria egli assume il punto di vista di uno o più personaggi della storia, vivendola "come se tutto fosse vero".
L'ambivalenza del rapporto da un lato con lo schermo e dall'altra con la vita dentro lo schermo (personaggi, diegesi) è stata ricondotta alla teoria dello specchio di Lacan (e filtrata nella realizzazione cinematografica attraverso la rielaborazione di Christian Metz): superando l'autismo iniziale che lo rende identico al mondo, il bambino separa il sè da ciò che è esterno "guardandosi allo specchio" (identificazione primaria), e riconoscendo sè negli altri (identificazione secondaria): ciò comporta soprattutto la repressione e il differimento del piacere. La narrazione può riaprire la cicatrice di tale "operazione psichica", riportando lo spettatore adulto a ri-vivere le fasi dell'infanzia in un'altalena tra piacere e dolore: niente di meglio, per rinnovare la con-fusione, dell'orrore di una storia per immagini, specie se rinforzata dall'isteria del suono.
La musica e, in generale, il sonoro affiancano l'immagine per sostenere la tensione; viceversa, possono scioglierla in anticipo rispetto al mostrato oppure ritardarla: l'incalzare dei violini durante una soggettiva, l'urlo liberatorio dopo una lunga progressione dell'attesa, lo scricchiolio della porta malgrado l'ignaro sorriso di un volto che si crede ormai al sicuro. Nonostante la finzione, lo spettatore assume la cura di una duplice sopravvivenza: quella del personaggio e quella del sè, che assume l'identità dell'eroe. Esistono capolavori dell'orrore che rendono manifesta l'esigenza di cambiare, di denunciare la realtà attraverso la potenza dell'immaginazione e dell'allusione metaforica.
Ne esistono altri che non pretendono altro che essere orrore, ma questo assunto è già una presa di posizione, e quindi una filosofia dell'esistenza. In un caso o nell'altro, questi capolavori densi di significati propri e originali sono pochi: gli schemi ideali sopra presentati lasciano spesso il posto a una deriva di banalità e superficialità dove il gioco dell'identificazione risulta impossibile, poichè restano in piedi il distacco dato dall'incredulità e dalla critica alla scemenza. L'orrore va in primo luogo indirizzato verso la commercialità di certo cinema e l'utilizzo degli effetti speciali come unica attrazione per lo spettatore. Eppure, la bellezza dell'orrore sta tutta in un titolo che Prèvert regala alla presunta complessità dell'amore: semplice come il buongiorno.