Paradossi e ironie a (s)proposito delle nuove tecniche
Tecnicamente il Cinema
di Gianluca Moro
Se
il termine "tecnica" in origine identificava una sfera semantica
piuttosto estesa, in epoca moderna rimanda a una dicotomia con il termine
"arte".
Da un lato si vorrebbe porre la "fredda tecnica", oggettivante,
massificante, spersonalizzata; dall'altro, la "calda arte",
soggettiva, autoriale, vitale. Gli aggettivi sono facilmente sostituibili
da una miriade di altre opposizioni, fazioni, divisioni dove l'iride di
un osservatore attento non potrà che sorridere di una simile ingenuità.
Una certa maturità critica dovrebbe superarla per approdare a un
punto di vista che sappia conciliare e insieme confondere i termini: è
anche merito dell'invenzione cinematografica se si può dirsi non
lontani da tale prospettiva.
Il cinema è lo specchio dell'età della tecnica e la tecnica
è lo specchio dell'età del cinema: così si potrebbe
riassumere ironicamente la difficoltà della querelle. La dimensione
filmica vive e si nutre di tecnica e, assimilatala, digerisce opere compiute,
materiali che senza l'apporto dello strumento (tékne) vivrebbero
soltanto nell'immaginario segreto di qualche regista o sceneggiatore potenziale:
dalla potenza all'atto, grazie alla tecnica, senza la quale il cinema
non può essere.
Per
complicare il gioco semantico circolare, occorre dire che il concetto
di tecnica è stato spesso avvicinato anche a quello di stile, benché
si distingua faticosamente la forma concettuale (l'intento dell'autore
in astratto o nella sua rielaborazione critico-interpretativa) dalla forma
realizzata (ossia ciò che espressamente si coglie sullo schermo,
come realizzazione pratica di quell'intento).
La tecnica si aggiorna continuamente mentre il cinema ha da poco compiuto
cent'anni.
Dalle fantasmagorie di Meliès a quelle di George Lucas l'unica
forte differenza sta nella fruizione e nell'educazione percettiva, ossia
nella cultura dello spettatore: se si preferisce, nel codice. Occorre
evitare l'assolutezza delle interpretazioni per rispetto della complessità
del reale.
Indubbiamente, l'introduzione del sonoro e del colore - per fare solo
un esempio - ha ritagliato una cesura forte tra due diverse modalità
narrativo-descrittive, stimolando nuovamente il dibattito sul presunto
realismo che in differenti echi è giunto fino alla fine del Novecento.
Nonostante ciò, il cinema è rimasto un'arte dell'immagine
e del montaggio, e in questo senso i film del passato non differiscono
da quelli di oggi. Al contrario, la tecnica ha rivoluzionato alcuni aspetti
del profilmico come la scenografia, attraverso gli effetti speciali che
alterano violentemente la natura dell'immagine, lasciando invariato lo
schema compositivo, la struttura narrativa di base.
Lo stile non vive in un liquido amniotico di segni chiusi, ma interagisce
con l'evoluzione di tutto ciò che lo circonda assimilandone forme
e contenuti: il cinema non è mai vecchio, ma sempre neonato, grazie
alla lotta incessante dei "trasformatori". Accanto a certe tendenze
holiwoodiane ne emergono alcune di genere contrario, quasi di "resistenza
alla tecnica".
I più acuti, tuttavia, si allontanano da entrambe le visioni,
ignorando sostanzialmente la questione e prendendo a piene mani dove si
può, attualizzando di nuovi colori i discorsi neoavanguardistici.
Esiste allora un'avanguardia di fine millennio? Probabilmente sì,
ma in termini totalmente diversi dalle precedenti tanto che il termine
suona anacronistico: non una scuola precisa, bensì un melting-pot
postmoderno dove l'incontro sembra più frutto del caso che di una
scelta motivata. Le correnti si muovono nel giro di un istante, la frenesia
della moda vuole l'irripetibile: Titanic, La mummia, Eyes wide shut, così
diversi nel loro valore artistico e culturale, vengono accomunati per
il loro potere simbolico extraartistico. Vale a dire che il rumore che
violenta le coscienze suggestionabili di molto pubblico viene dal discorso
sopra il film, dal suo essere oggetto di pubblicità e chiacchiericcio.
Si corre al cinema per assistere a qualcosa che si conosce già,
per trovare una conferma alle proprie attese, per uscirne privati di una
catarsi autentica, o di una propria multiforme interpretazione : tutto
è già stato detto, prima che il film possa iniziare a parlare.
Ciò che conta è la tecnica sul film e non più la
tecnica del film. Ciò che contraddistingue certo cinema contemporaneo
è il fatto di prendersi troppo sul serio: cinema di finzione per
eccellenza, pretende di essere evento in quanto medium trascinatore, panem
et circensem di fine secolo e millennio. E la tecnica gli corre dietro
tentando magari di ammazzare il cane ribelle, ossia il cinema alternativo.
L'uccisione non si esplicita tanto nella massificazione e nell'assuefazione
a un cinema dalla tecnica mediocre e antiartistica, quanto nel predominio
sulla scena mass-mediatica, ma soprattutto nella chiusura economica al
cinema alternativo o antispettacolare. Una soppressione, dunque, per occultamento
seguendo un procedimento che è sempre lo stesso: quello dell'ESclusione
a tutto ciò che muove l'animo di scosse, e dell'ESplicitazione
di ogni elemento, che lascia lo spettatore alla deriva di nuove idee,
impossibilitate a uscire, perché "bloccate". Presentare
un film immaginario può essere devastante per chi si troverà
a confrontarlo successivamente con quello proiettato in sala: ciò
significa preconfezionare l'interpretazione e l'emozione del destinatario,
annullando in gran parte la sorpresa e lo shock dell'esperienza nel buio
uterino e intellettuale.
La fruizione dello spettatore si trasforma al rinnovarsi della tecnica
cinematografica, la quale contribuisce alla graduale evoluzione dello
stile e alla compenetrazione di più arti, rendendo sempre più
il cinema come un progetto multidimensionale, multiartistico, e multigenerico
(si veda I racconti del cuscino di Greenaway); tuttavia, l'utilizzo del
digitale rappresenta una possibilità ulteriore che fino ad ora
non ha trasformato radicalmente il rapporto del destinatario-interpretante
con l'evento filmico.
Piuttosto, l'ausilio dell'"elettronica" può connotare
la testualità cinematografica di una valenza più grande:
la "digitalità" potrebbe assumere una valenza liberatoria
e innovativa allo stesso tempo.
Liberatoria perché inserirebbe il cinema in circuiti alternativi
quali la rete telematica; innovativa, tanto per la diversa fruizione mediatica
(a livello pratico di supporto-canale) di una stessa opera, quanto per
il diverso contesto culturale e la diversa consapevolezza di fruizione,
fuori dai contesti puramente commerciali.
Tutto ciò vuole essere un'ipotesi serio-ironica che possa farci
estendere la nostra accezione di tecnica e riportarla a dimensioni più
umane. Un intento che vuole soprattutto riappropriarsi del senso che la
Nouvelle Vague le attribuiva: scrittura, parola ambivalente e multimediale
per eccellenza, che nel cinema interagisce in rifrazioni sintomatiche
con l'immediatezza e l'oralità; gioco, ossia ritorno al piacere
freudiano della narrazione e dall'ascolto-visione.
Le nuove tecniche sono anzitutto tecniche-scritture multimediali, nel
segno di una trasformazione del cinema precedente ma anche di una fruttuosa
continuità (si pensi alle arti figurative, musicali, letterarie)
nell'universo dell'intertestualità: è proprio in questo
spazio di coraggiosa sperimentazione critica che il cinema può
proseguire ancora più libero e umano, poetico e sconvolgente come
ogni arte unita alle altre si propone di essere, in ogni tempo e in misura
sempre maggiore.