Buena vista Social Club
Il cinema come contenitore di memoria
di Andrea Parena
Forse la "sindrome della soglia" è la patologia arrivata in anticipo sullo scadere del millennio e che si insinua in noi, confusi e disorientati di fronte al passaggio epocale. All'appuntamento col millennio qualcuno si presenterà un po' stordito, qualcun altro in modo del tutto disinvolto, altri ancora (quelli del secolo breve) di corsa dopo aver freneticamente infilato nelle tasche tutto il possibile uscendo di casa. In ogni caso, che ci si presenti spaesati oppure un po' spettinati, è certo che dovremo portarci anche il cinema.
Una vaga e inquietante sensazione che una volta varcata la soglia non ci si possa più voltare indietro ha ghermito tutti quanti, e mentre è aperto il dibattito su quali film sia opportuno portare di là con noi e quali invece lasciare indietro, è utile pensare che è sempre meglio non buttare via niente, perché tutto un giorno o l'altro può tornare utile.
Fortunatamente per tutti gli amanti della bella musica e del bel cinema la "sindrome della soglia", con l'allarmante presentimento di fatalità che ne è il sintomo principale, non ha risparmiato neanche Ry Cooder e l'amico Wim Wenders, che hanno pensato bene di recuperare un piccolo mondo destinato all'oblio, quello di alcuni grandi musicisti cubani, una volta celebri ed ora dimenticati in patria.
E' il Wenders migliore quello che si fa trascinare dai suoni e dai colori, quello di Buena Vista Social Club, lo stesso che con Lisbon Story aveva ricordato all'Europa "nascente" che una delle più belle ed emozionanti città del continente stava per essere lasciata per strada.
E' bello, ora che il cinema si nutre avidamente di tutto ciò che è futuribile ed il festival di Venezia inaugura giustamente lo spazio "Nuovi Territori", dedicato a sperimentazioni e trasgressioni di vario tipo, che qualcuno si senta in dovere di rallentare e di usare questo mezzo recuperandone quella schiettezza che permette di garantire memoria a qualcosa che nella foga rischiava di andare perduto.
Non è questo il senso del volto stupito e insieme smarrito di Ibrahim Ferrer che si aggira per le strade di New York? Non è questo il senso dei bellissimi piani-sequenza che con commossa meraviglia salgono scaloni o esplorano verande sul mare, alla ricerca di una presenza testimoniata dallo squillare di una tromba, di una vita suggerita dal pulsare di un contrabbasso?
Come in un continuo gioco di scatole cinesi, la realtà si offre via via più preziosa alla macchina da presa, mentre questa attraversa spazi che sono vere e proprie scatole armoniche e ci conduce come un vecchio e fiero maggiordomo verso lo scrigno che custodisce il monile più raro, il ricordo più nascosto svelato dall'indugiare di un'ultima perfetta inquadratura, così come da un improvviso brillio di note. Il piano sequenza è il movimento fluido e insieme trattenuto della memoria, l'avvicinarsi a ciò che, cautamente evocato, comincia a prendere forma... una melodia si precisa... ora un solo strumento si isola... un timbro si definisce...
Cominciamo a ricordare? Intravediamo brillare qualcosa là in fondo, ne intuiamo dapprima i riflessi dagli specchi che arredano le pareti, ci siamo quasi, lo sentiamo, ma come sempre il ricordo finirà per sorprenderci e noi dovremo fermarci almeno un attimo ad osservarlo. Sarà il volto di un vecchio amico, una voce un tempo familiare, una piccola storia raccontata in passato... Lo guarderemo appena un momento negli occhi, il nostro ricordo, poi lasceremo che il cinema "registri", perché questo può fare, "raccogliere" anche i brevi incontri che sempre ci lasciano sul volto un po' di stupore, tra noi... e i nostri ricordi.
E' qualcosa di esile e prezioso come il ciondolare di Ruben Gonzales quello che Wenders documenta, qualcosa di fragile e davvero commovente quello che recupera dalle parole, dai volti, dai vicoli ripresi con le comuni tecnologie del documentario ed uno stile sobrio e raffinato. La macchina a mano, il Betacam inevitabilmente proposto come garanzia di sincerità e veridicità, assorbe racconti, suggestioni, mentre il metodo è quello dell'intervista. Poi è l'emozione ad avere il sopravvento e il movimento incerto diventa fluido ogni qual volta si lascia guidare da un saltellare di note di pianoforte o di laùd, dalle stradine sporche si sale ai piani più alti di grandi palazzi, la musica echeggia in ampi saloni vuoti e ne determina il respiro come in un grande polmone, passiamo la porta e in un angolo c'è un piano, un dondolare di capelli grigi, un bel volto, delle dita veloci e precise...
Sono forse questi spazi lirici i momenti del film che rimangono più profondamente impressi nella memoria e che la macchina da presa si limita a percorrere, lasciando alla musica il compito di stabilirne l'architettura e ai volti quello di determinarne l'intensità.
Percorriamo vasti giardini, ampi locali, e tutto ha il fascino dei luoghi spogli lasciati da tempo, ma dove è sufficiente tornare perché sembrino ripopolarsi di ciò che è passato. Certo non dei volti, ormai invecchiati, ma di quella musica, che ad un timido, ormai inconsueto ricordo, picchierellato qua e là sulla tastiera, trova risposta nel suono lucido di una tromba disposta alla nostalgia.
E' la memoria che vive dei riflessi, lo stagno che di essi si anima al cascare del sasso, uno specchio in fondo a corridoi deserti, che tornano giù lontano, a svelare un vecchio cornettista e il suo strumento, giustificando così... l'impressione di un suono. E' il cinema, infine, che dello specchio ha la consistenza e della memoria il passo, che pur non riconoscendo i confini tuttavia li stabilisce ad ogni inquadratura ed è una nuova suggestione, la rinnovata scoperta di qualcosa che, sepolto in noi, ci sorprende non appena è suscitato, il desiderio invincibile non solo di guardarci attorno ma di guardare in lontananza, in profondità... e spesso verso ciò di cui sentiamo irrimediabilmente la distanza, ciò che abbiamo vissuto, ciò che fatalmente dimentichiamo.