Alla scoperta del postmodernismo
di Adriano Boano
"Il Paese è andato a puttane da quando i Credence si sono sciolti" (Christofer Lloyd in Libertà di reato di L.Teaguel), "Nothing will never be like before" cantava The Rocky Horror Picture Show, inaugurando l'ossessione nordamericana.
Dove s'annida quel tarlo sfuggito a tutti, condizionamento del nostro modo di pensare? Underworld di Don Delillo scorrazza lungo quarant'anni USA cercando di mettere disordine nelle manifestazioni epocali rispetto ad un "prima" e un "dopo". Anche in Pleasantville, crogiolo di fenomeni culturali dirompenti attorno al punto di non ritorno per eccellenza ('50s), s'avverte lo stesso senso di perdita del mondo b/n.
L'oltrepassamento dell'agonia avanguardista, col conseguente ritorno all'ordine e spinta al superamento del condizionamento dottrinario delle apodittiche avanguardie (parodiate dagli epigoni di Dogma95), venne individuato nel trascolorare da un decennio colmo di afflati rivoluzionari e godimenti in uno artificiale, preludio al pensiero unico soffocante: un colpo di pistola in Boogie Nights saluta gli anni '80 della omologante convenzionalità neoliberista; rappresenta la rinuncia allo sberleffo del perbenismo e alla rivolta. Curiosamente questo secondo momento topico coincide con l'uscita di La condition Postmodern di J.F.Lyotard, il pamphlet da cui s'avviò il dibattito filosofico nel 1979, altro momento presente nel romanzo di Delillo.
Ora la globalizzazione impone visioni stereotipate, spacciandole per postmoderne, negando la vernacolare propensione individuata da Charles Jencks, l'architetto che nel '74 applicò per la prima volta il termine Post Modern a partire dalla commistione di tradizioni localiste rivisitate con provocatorio gusto ironico.
L'ascendente citazionista rivitalizza testi formalizzati in un prima per rivivere l'atmosfera perduta, che ammanta di glamour il dopo. Languore confuso nel nichilismo di Araki (in particolare Nowhere) al suo aggrapparsi ai volti (necessità condivisa con Kids di Clark) per riempire di senso, benché simulacrale e reificato, lo schermo orfano del soggetto, la cui morte il postmoderno decretò sostituendogli il linguaggio.
Questa nostalgia si ritrova in disparate espressioni: nella scelta di locations labirintiche, per comunicare smarrimento di fronte all'assenza di grandi narrazioni (la foresta di Pola X nell'estasi melvilliana di Carax); nell'algidità di personaggi e situazioni congelate dall'avvento della "fine della storia" (The Sweet hereafter di Egoyan), aspetto focale del rifiuto postmoderno allo sviluppo teleologico della modernità, superando anche l'eterno ritorno dell'uguale nietzschiano che per certo tempo sembrò informare di sé la rappresentazione del mondo tardo-moderno (Terminator, 12 monkeys) per arrivare al Viagem ao principio do mundo di Oliveira, caratterizzato dalla progressione a ritroso, colta nell'inquadratura dal lunotto posteriore dell'auto; mentre il millenarismo pone in stallo la narrazione senza progresso né ciclicità, in una farneticazione cortocircuitante nemmeno circolare, espressa da casuali emersioni alla coscienza di frammenti già formalizzati dal racconto stesso (New Rose Hotel, in nuce nel più articolato The Addiction); nell'azione stereotipata, ovvia dacché tutto è già stato formalizzato, recitata da una maschera mitica nella quale s'indovinano echi del megarecit epico, altra versione del mondo, ridotto a sovrapposizione di strati decostruiti (Hana-bi, ma pure l'intera filmografia di Wong Kar Wei); nell'esplorazione lisergica, replica all'infinito della fine dell'immaginazione trionfante sull'attuale spietata convenzionalità neoliberista (Fear and Loathing in Las Vegas); nel riesame d'un universo speculativo la cui realtà s'è rivelata un arcano, quando invece sembrava lineare e conosciuta (Midnight in the garden of good and evil); nel rifiuto di riconoscere il cambiamento epocale (The Big Lebowski), negando l'esistenza del punto-causa di quella piccola catastrofe (Renée Thom), dalla quale nasce il post.
Nel caso dei Coen la visione del mondo è improntata a critica, la svolta è un orrore reazionario, però per l'anacronismo sbandierato diventa quintessenza di postmodernità, perché un aspetto non secondario di essa proviene dal recupero delle tracce del passato, spesso con spirito ironico, come avviene anche nelle biografie tipo Private Parts; allo stesso modo il cinema di Carpenter è devastante nella critica (Jüngeriana?) alla società tecnologica che distruggerebbe gli eroi, se non esistesse l'anarca Snake Plisskey ad azzerare ogni diavoleria elettronica in un condivisibile afflato neoluddista.
Nel postmoderno la ricerca del Point Break è destinata al fallimento, perché tutto può solo essere rimasticato a partire da frammenti o monumentali rovine, i cui significati sono parzialmente persi, dunque se ne attribuiscono di nuovi, convalidati individualmente; perciò ciascun autore ricerca complicità tramite sensazioni-oggetti-corpi-situazioni capaci di catturare la condivisione dello spettatore, che riconosce nel proprio bagaglio culturale l'appiglio per solidarizzare con la percezione dell'autore di una realtà sfumata nella propria rappresentazione, come nelle windows coltissime di Greenaway.
Un passo oltre all'adesione, ottenuta dalla fascinazione multimediale enciclopedica, si raggiunge spostando vieppiù il centro d'interesse sul lettore, sgravando la figura autoriale dai paramenti mistici: a questo obiettivo s'applicò il decostruzionismo.
La differance derridiana è traccia che segna una presenza mai data, il cui scopo è sostituire l'Ur; il senso gioca le proprie vestigia nel testo, unica vaga rappresentazione possibile, comunque sfuggente una volta formalizzato, costringendo a tessere nuove idee di mondo, dissolte quando sembrano raggiungere un seppur debole fondamento: definizione che si attaglia a Lost Highway e alla sua negazione di qualunque verità, travalicando la tentazione di limitarsi all'autoreferenzialità con la quale riraccontare una nuova storia: un caso particolare è Jackie Brown, dove Tarantino aggiorna la blaxploitation, riempiendo i vent'anni di distanza, immaginando come gli eroi di quel cinema sarebbero invecchiati e proponendo coi loro occhi attuali quella sensibilità a sua volta aggiornata.
I testi registrano la frammentazione della percezione con conseguente riproposta dei brani nell'intento di ricomporre un universo sfuggente: Ferrara/Gibson in New Rose Hotel porgono dapprima la parvenza di un testo con struttura riconoscibile, rivelatasi parzialmente fallace, per poi dissolverlo parcellizzandolo, come avviene in The Babysitter di Ferland, splendida trasposizione dell'omonimo romanzo di Coover, estremo esempio di decostruzione.
Fin da The Draugtman's contract il testo dissemina realtà, presentandosi come un meandro di strutture linguistiche; talvolta il labirinto sorge dalla ripetitività della ripresa: circolare, in una camera, con un testo autoreferenziale, sempre uguale ..., ma ad ogni passaggio lievi differenze, anche solo perché il tempo trascorre (Le Jour ou ... di Akerman).
Lost Highway, snodo postmoderno: sviluppa surrealmente tematiche disparate come il simulacro baudrillardiano, reso ancora più manierista dall'ultimo Kubrick, e la scomposizione dei parametri temporali, infarcendoli di decorazioni; barocche suggestioni. Il labirinto caro a Borges è una struttura mentale con svariate peculiarità: si materializza in Cube, la cui inarrestabile trasformazione evoca il mondo espressionista dell'illusoria Dark City, cangiante ogni notte; ma esponenti maggiori della perdita di senso spaziale sono i décor post-industriali di Tetsuo creati da Tsukamoto, all'aspetto ambientale s'aggiungono compenetrazioni di corpi e materia fino all'esibizione dei particolari tecnologici nell'oscena composizione organica di corpi squassati dal delirante connubio, portando al parossismo le paleo-commistioni di Crash.
In Pola X, dimora simbiotica dello scintillio metallico con l'umana carne, ibrido di sesso e morte vaticinato da Ballard/Cronenberg, è il capannone artistico post-industriale: lì culmina la fusione iniziata nell'osmotica camminata coi corpi avvolti dalle dominanti blu della foresta, buchi neri capaci di contenere tutto il vuoto scandagliato da Sharuna Bartas, omologhi all'essenziale Blue di Jarman in sintonia oppositiva con il tutto pieno di The Kingdom.
Questa saturazione dello sguardo ottiene effetti migliori nelle forme lisergiche: significativo grandangolo incantatorio è Fear and Loathing in Las Vegas, trovando controcanto nelle stanze dei protagonisti dell'apparentemente lezioso Nowhere di Araki.
Entrambi fluttuano in suggestioni pop: uno individua quando terminò il mondo, mettendone in scena la spettacolare dissoluzione in omaggio al nichilismo che ne derivò, l'altro è già parte dell'universo artificiale successivo alla catastrofe, immagina tracce trapassate nel nuovo inesistente universo, sospeso tra il patinato e il disperato, dove luci e colori non lasciano immaginare nulla di tangibile. Ipnotici ambienti gibsoniani intrisi dell'uguale disperazione per la fine delle narrazioni.
Nella postmodernità il referente riconosce il proprio valore nella memoria di sé, il linguaggio scopre legittimazioni nella propria rievocazione, invece il soggetto privato della sua storia viene messo in crisi dall'oltrepassamento perpetrato dalla tecnica ai suoi danni, dissolvendo con lui la narrazione, traguardo concepito dopo la derealizzazione del mondo, ottenuta costruendone uno speculare: il doppio innesca un cortocircuito all'interno del quale l'uno è parodia dell'altro, fino a delegittimare il principio di realtà. Il soggetto, immolandosi alla spettacolarizzazione di un mondo di cyborg, dove i corpi sono immagini riflesse che promettono matericità altrove, si reifica in specchi di desiderio inappagato.
Guardami: Nina non urla a comando, s'appropria invece del piacere/dolore per affrancarsi dalla duplice paura (della morte e del proprio sguardo fantasma) lanciando un'occhiata direttamente da un universo di sensi rappacificati, passando attraverso la morte a partire da un'orgia di orgasmi finti e autentici, smettendo di scindersi e moltiplicarsi in macchine celibi, moltiplicate dagli schermi e dagli "osceni" mezzi di riproduzione accolti in scena da Ferrario, accentuando così il disagio per la loro presenza "spudorata" nell'inquadratura, come in Edtv.
Il simulacro duplicato dagli schermi, luogo erotizzato dal taglio dell'inquadratura, orienta il piacere re-indirizzandolo sull'immagine anziché sulla carne; infatti è lo sguardo di Nina a proiettare piacere proveniente dalla propria osservazione durante la pratica erotica (Atteone e Diana per Klossowski). E gode attraverso il doppio di sé, protagonista della concrezione spontanea di diafane evanescenze che Baudrillard chiama seduzione e Lynch intitola Lost Highway (la parte di Diana è qui svolta dal video): il simulacro emergente dalla propria storia o dal gioco destinale di Abre los ojos, Sliding doors, della poetica di Ruiz, riscontrabile nella sospensione teofanica del tempo di Lola rennt, rilanciata dai giochini elettronici, selezionatori dell'evento che ridispone l'intera serie di microuniversi secondo infiniti possibili destini concatenati.
Rimane la sensazione che le morti cinematografiche siano maestre di cerimonia della proliferazione di mondi legittimati soltanto dallo schermo: Truman Show, Edtv seguono il precetto principale di Pynchon, la costante testimonianza veridittiva del televisore.
In realtà La colazione dei Campioni di Rudolph da Vonnegut ci mette sull'avviso: per l'invadenza televisiva dopo la fine del Sogno Americano il protagonista impazzisce, trovando una pace individuale in un mondo autistico la cui origine va individuata.
Così si torna all'inizio: qual è il momento dopo il quale "nulla sarà più come prima"?