Vittorio Moroni: Le ferie di Licu
di Maurizio Ermisino
È un piccolo, grande film Le ferie di Licu di Vittorio Moroni. Perché parla di un'Italia nuova, fatta di tanti nuovi italiani che ne fanno parte. E racconta lo scontro tra le tradizioni del paese d'origine, il Bangladesh, da dove vengono Licu e la sua sposa Fancy, e quello dove sono venuti a vivere, l'Italia. Quella che il regista Vittorio Moroni chiama "schizofrenia dell'integrazione". Un film che, come tutte le cose belle, nasce quasi per caso. La storia della genesi di questo film è appassionante. E non è finita con la prima uscita nelle sale. Il "Licu Tour" porterà il film in tutta Italia: per sapere dove, lasciate un indirizzo mail sul sito www.leferiedilicu.it.
Com'è nato Le ferie di Licu?
Stavo lavorando al soggetto per un film di finzione, L'intruso, in cui c'erano due personaggi bengalesi. Ho deciso così di entrare nella loro comunità, e di parlare con alcune persone. Mi divertiva vedere come in molti di loro coesistesse un desiderio molto spinto di bruciare le tappe della propria romanizzazione, anche nel linguaggio e nel modo di vestire, nel ribadire di essere tifoso di Totti, e di parlare un italiano pieno di frasi fatte in romanesco, con un grande rispetto, tuttavia, per la propria tradizione e la propria religione. Intendevo prendere una serie di appunti per suffragare la mia sceneggiatura, quando mi sono imbattuto in Licu. E ho capito che queste contraddizioni in lui diventavano spettacolari. Così ho pensato di fare un documentario sulla sua vita e le sue condizioni: fa due lavori per arrivare alla fine del mese, è un po' sfruttato, lavora dodici ore e gliene vengono riconosciute quattro, condivide la casa con altre sette persone. Mentre molti altri bengalesi frequentavano solo gente della comunità, lui frequentava anche Giulia, una ragazza italiana. Quando vede una ragazza per strada gira gli occhi, e poi mi faceva vedere il suo calendario con orgoglio: c'è un ribollire di negoziati tra codici non ancora risolti.
Il film poi è diventato qualcos'altro…
Immaginavo che Licu volesse sposare un'italiana, magari Giulia. A un certo punto, invece, è arrivata una lettera dal Bangladesh, che ha cambiato tutto: in questa lettera c'era la foto di una ragazza che avevano scelto per lui come sposa. Non credevo che gli interessasse, ma con mia grande sorpresa ha deciso di sposarla, e con grande entusiasmo. Però deve trovare dei soldi e farsi dare due mesi di ferie, mentre gliene danno solo uno. Quando gli abbiamo chiesto di andare con lui, pensavo che facesse delle resistenze, invece ci ha detto di andare: la famiglia della sposa è di città, quindi di uno stato sociale superiore alla famiglia di Licu. Per cui il fatto che andassimo con lui costituiva una garanzia: significava che in Italia era integrato. C'è stata una lunga contrattazione sul matrimonio, trenta persone lo hanno sottoposto a un interrogatorio, e non gli hanno dato risposta, cosa che viene presa come un affronto. Una cosa interessante è che sono i maschi della famiglia di lei a interrogare Licu, ma poi sono le donne a intessere la trama che porterà al matrimonio. La nonna di Fancy, dopo essersi messa d'accordo su una questione di soldi, dice "vi cedo tutti i diritti".
La scena in cui i due si incontrano è molto toccante, e l'imbarazzo è risolto grazie a un telefonino…
Ai due sposi sono stati concessi quindici minuti per conoscersi, in cui non sono stati completamente appartati, ma in una sala con la porta aperta, vigilati dal resto della famiglia. Da una parte Licu cercava di descriversi nel modo in cui voleva apparire in Italia, dall'altra Fancy era completamente sprovveduta e impreparata, arrivava lì per decisioni prese da altri. Noi abbiamo filmato la scena con il teleobiettivo, e con i radiomicrofoni molto vicini a loro. Il telefonino che fa le foto gioca un ruolo decisivo, e li cava un po' d'impaccio, grazie a questo si scioglie il ghiaccio. Poco dopo i due sono sposati.
La parte del matrimonio scorre veloce, in stile Bollywood. È il filmino girato in Bangladesh?
Avevamo a disposizione dieci ore di girato, coloratissimo. Lo abbiamo montato, ma a un certo punto ho avvertito il pericolo dell'esotismo, e ho capito che non mi interessava questo aspetto. Ho pensato che la cosa migliore fosse farlo diventare un ricordo. Abbiamo utilizzato il loro girato, montato da loro: ci sembrava un momento in cui andava descritto più il sogno che la realtà, e il sogno era il loro, con farfalle che attraversano lo schermo, con quelle cornici: è qualcosa che intenerisce.
Avete voluto raccontare anche qualcos'altro, come la vita di Fancy in Italia. Che punto di vista avete scelto?
La cosa su cui mi sono interrogato di più è stata questa: da una parte non volevo giudicare nessuno, né potevo farlo. Volevo seguire la regola "show, don't tell". Dall'altra parte volevo anche che le mie emozioni di osservatore passassero. Spero che passino entrambe: sia il mio desiderio che queste persone vivano felici, sia la mia interrogazione di cittadino su quello che bisognerà fare insieme per trovare un'intesa sui valori. Tanto è vero che nel dvd metteremo un'intervista a una signora napoletana che ha avuto una storia identica a quella di Fancy: si era sposata con una persona che non conosceva per volere della famiglia. Molto spesso mi viene detto che anche da noi succedeva; ma per me è struggente vedere una ragazza di diciotto anni che si trova a non aver scelto nulla della cose fondamentali della sua vita.
Il finale, con i due che pattinano sul ghiaccio, è molto bello. Come lo ha scelto?
Il finale è doppio: un po' pessimista, che registra il fatto che tutte le richieste che lei avanza cozzano con le decisioni del marito, imprigionato nel suo ruolo, e finiscono per interrompere del tutto i suoi desideri. Un secondo finale è quello del pattinaggio: il ghiaccio e la neve rappresentano per loro un sogno, il modo in cui vivono eroticamente l'Italia, rappresenta quello che per noi è una spiaggia bianca. Il fatto che a Capodanno fossero andati a pattinare mi sembrava una bella metafora della loro speranza. Il ghiaccio rende l'idea di un terreno sul quale non sono abituati a stare, di due persone che stanno in piedi in maniera incerta, ma si aiutano a stare in piedi: mi sembrava il simbolo di tutto il loro rapporto.
A che punto è l'integrazione in Italia? Come proseguirà quella di Licu e Fancy?
Quello che possiamo fare è guardare ai paesi europei dove il fenomeno dell'integrazione è più antico, come la Francia e l'Inghilterra, anche se lì i modelli culturali e legislativi che hanno portato all'integrazione sono mezzi falliti. Credo che si debbano tentare strade nuove: Roma ha delle risorse che non conosce, come un'abitudine millenaria a frequentare culture diverse. Normalmente si rileva che la seconda generazione tende ad identificarsi molto con il paese d'arrivo, mentre la terza subisce un contraccolpo di nostalgia e negazione di quello che è stato appreso nel paese d'arrivo. Trovo che per queste due persone sarà interessante il rapporto che si instaurerà con i loro figli.
Cosa pensa delle condizioni in cui vivono gli immigrati in Italia?
Penso che gli immigrati siano una grandissima risorsa: purtroppo le condizioni in cui arrivano e la fatica con cui possono affrancarsi da un regime di clandestinità sono molto difficili, anche a livello burocratico: sarebbe difficile anche per un italiano. Queste difficoltà insormontabili li inducono a tentare di trovare delle scappatoie, a immaginare che non si possa arrivare a dei traguardi in modo meritocratico, ma attraverso modi paralleli, che trovo una bruttissima lezione di civiltà da parte nostra nei loro confronti: è una nostra eredità. Questo crea una debolezza tale nel mercato del lavoro, che fa sì che siano in balia di offerte non sempre accettabili.
Com'è l'approccio di noi italiani verso i "nuovi italiani"?
Gli italiani hanno capito che sono una risorsa per avere manodopera a basso costo. Per il resto l'approccio degli italiani mi sembra un po' superficiale, il che è già qualcosa: ha a che fare con gli elementi più glamour, che arrivano da un'indistinta India, alla quale tendono ad assimilare anche il Bangladesh, dove la popolazione è musulmana e ha differenze profonde con l'India. D'altra parte, quando si parla in termini politici dell'immigrazione, ho l'impressione che si sia in una fase un po' schematica, che si debba decidere a priori se ci si schiera pro o contro gli immigrati, e tutto debba essere preso in blocco, nel bene o nel male. Io tenevo a non idealizzare nulla, e per questo ho cercato di non andare a cercare gli elementi esotici, ma di focalizzare l'attenzione sugli elementi problematici, dove l'integrazione diventa frizione.