Buongiorno, Stefano Gabrini
di Mario Bucci
Ho conosciuto Stefano Gabrini a Roma, per la presentazione di un suo cortometraggio, e l'ho conosciuto per caso, come accade spesso quando capita qualcosa di importante. Grazie a questa piccola fortuna ho potuto quindi constatare di persona un carattere che all'apparenza può sembrare chiuso e schivo, ma che in realtà nasconde, dietro un saggio silenzio, la più semplice arte dell'ascoltare, punto per lui di partenza per qualsiasi confronto/incontro. Quando mi sono trovato di fronte a lui, ho capito con il tempo che non è una persona dal facile giudizio, ma un uomo al quale piace soffermarsi a riflettere, possibilmente osservando. Stefano Gabrini è un regista, dunque, che parla con gli occhi, e dietro i quali nasconde una storia affascinante.
Hai iniziato nel 1980 come critico musicale per la rivista Rolling Stone… come ti sei avvicinato al cinema?
Avevo vent'anni, viaggiavo veleggiando nella condizione labirintica di intuire una via che assecondasse la mia vena sinestetica…Suoni-musica-immagine, tutto mi nutriva… Ero iscritto alla Facoltà di Psicologia, ma non era la gabbia universitaria che andavo cercando. Mi sono lasciato attrarre dalle passioni, ho abbandonato quasi subito la facoltà per inseguire la magnifica illusione… Come una pietra rotolante in una cristalleria, ho cominciato il mio viaggio prediligendo in quel momento la mia passione per la musica (Talkin'Heads, Cure, David Sylvian, Clash, Eno…), lanciandomi sia in programmi radiofonici su radio libere, sia come critico musicale sul magazine Rolling Stone. Era molto divertente, concerti su concerti, backstage, incontri e interviste con vere icone della musica. Il mio inglese era pessimo, cervellotiche le domande che facevo, ma avevo vent'anni e molto mi veniva perdonato. Questo fiume di note e di parole però, che hanno riempito per un paio d'anni la mi vita, sapevo che sarebbero state solamente una fase transitoria, un affacciarsi curioso su un mondo rutilante. Io non mi sarei mai potuto esprimere con la musica, sono completamente negato, e dovevo cercare altrove. La musica non l'avrei tradita, ma l'avrei sposata ad un'altra passione che covava latente da sempre: il cinema, un'attrazione fatale. Sono sempre stato assetato spettatore di film, da che ho ricordi. Per iniziare questo nuovo viaggio, ho cominciato allora a scrivere di cinema sull'inserto culturale del quotidiano Reporter, recensendo le colonne sonore dei film, per poi affrontare recensioni e interviste che mi hanno portato ad incontrare grandi maestri del cinema mondiale, sottoponendo spietatamente anche loro, come i musicisti prima, alle mie curiosità più cervellotiche e intrise della bruciante passione di voler capire. Vivevo i miei vent'anni, e questo forse rendeva tutti più pazienti. Ricordo l'incontro con Michelangelo Antonioni e le più di tre ore di domande che nascevano da risposte generosissime, in un succedersi a catena che un po' ricalcava la fase dei perché nei bambini di 5/6 anni…Parlammo a lungo del film "Il mistero di Oberwald", suo esperimento di cinema-elettronico nel 1980, e di una sua sceneggiatura mai realizzata, "Tecnicamente dolce", di cui ero follemente innamorato. C'erano due battute che mi piacevano molto, tipo "Perché piangi?" chiede lui. "Piango per me, per te, e perché sta piovendo", risponde lei. E chiesi ad Antonioni di poter plagiare quelle battute per un dialogo di una storia che stavo scrivendo. Mi disse di sì, con un sorriso benevolo, e con l'augurio che la mia storia potesse diventare un film.
Come battesimo direi che non è stato male…
Che benedizione! Non era quello che volevo? In quegli anni ho cominciato a scrivere anche racconti, soggetti, storie e testi per fumetti (L'Intrepido, Skorpio), primi tentativi di sceneggiature (frequentavo gli incontri settimanali all'ANAC con Leo Benvenuti), ancora parole, comunque, parole scritte. Prima sulla musica ora sul cinema e per il cinema, ma sempre parole e parole. Quello che non sapevo proprio fare con la musica, cioè suonare, io sentivo esplosivamente dentro di me che avrei potuto farlo con il cinema. Nell'83 ho partecipato allora ad un laboratorio di regia (si faceva con mezzi analogici) condotto da un regista argentino patito di Cortàzar (da allora, mito anche per me) e così ho cominciato a realizzare video indipendenti e filmati televisivi per la Rai. Con "La musica segreta delle piante", su un esperimento di botanica musicale, realizzato in analogico ma poi vidigrafato in 35mm., ho vinto il mio primo premio cinematografico e ho fatto il mio primo passo verso la pellicola. Che colpo di fulmine! Il mio piccolo film non era più solo un blocco di nero e imperscrutabile magnetico, ma, protetto in una bellissima scatola circolare in metallo argenteo, era ora un dipinto, una reiterazione di dipinti. La materia del fotogramma dopo fotogramma, su una pellicola che lasciata scorrere in controluce tra le dita rivelava la magia dell'immagine, destinata a essere espansa migliaia di volte nell'osmotica compenetrazione con lo schermo immenso dei cinema, la più grande finestra sull'immaginario dopo il cielo di notte a San Lorenzo. Avevo storie da raccontare per immagini e la pellicola ne sarebbe stata il supporto endemico, questo avevo scoperto. Mi sono immerso nella visione di più film possibili, guardandoli e riguardandoli, lasciandomi ogni volta stupire, e cercando di apprendere il più possibile. Ho cominciato a frequentare set, ad approfondire testi critici, a girare filmati in 16 mm. Ho fatto l'aiuto regista (e l'attore protagonista) in un film di Beppe Cino, ex aiuto regista di Roberto Rossellini, seguendo tutte le fasi progettuali e realizzative, fino alla stampa delle copie. Il film, "La casa del buon ritorno", andò poi al Festival di Venezia, ma in quei giorni viaggiavo per il Chapas, disertando quel tuffo nel cinema-che-conta, forse perché la mia prova davanti alla macchina da presa mi aveva fatto soffrire la schizofrenia del trovarmi dalla parte sbagliata della cinepresa, portandomi a disconoscermi e a disconoscere il film. Grazie al quale, però, avevo fatto la mia prima fondamentale esperienza nel magico mondo di celluloide. Senza pudori, mi sentivo pronto.
Purtroppo non ho visto il tuo film d'esordio, Il gioco delle ombre, per altro segnalato come migliore opera prima… Me ne parli? Mi dici un po' di che tratta e che esperienza è stata?
Nel 1985, a 26 anni, ho scritto il soggetto cinematografico di quella storia di cui avevo parlato ad Antonioni, "Il gioco delle ombre", liberamente ispirato ad un racconto gotico di Oliver Onions, ma intriso di quelle atmosfere tarkovskijane che il grande maestro russo aveva profuso in me attraverso l'incanto delle sue opere, che in quel periodo vedevo e rivedevo continuamente. Una seconda benedizione la mia storia l'avrebbe ricevuta da un altro maestro putativo, Werner Herzog, che ha premiato il soggetto inedito del film al Festival Scrivere il Cinema. Trovarmi il regista di Aguirre e Fitzcarraldo inginocchiato su un palco porgendomi una targa-premio!
Herzog in ginocchio?
Beh, se non conservassi gelosamente la fotografia di quel momento non ci crederei neanch'io!
E poi, come è andata?
A questo punto, non ci ho pensato due volte, ho scritto di getto una prima stesura di sceneggiatura e presentai domanda per l'Articolo 28. In quegli anni avevo visto un meraviglioso film georgiano, "Le montagne blu", su uno sceneggiatore smarrito nei meandri labirintici e iperburocraticizzati del Ministero della Cultura, una storia sublimemente gogoliana. Per un periodo interminabile credo di aver passato più tempo nei corridoi di via della Ferratela, al Dipartimento Spettacolo, tra carte, cartelle, bolli, esenzioni, deroghe, che sui set a rubare con gli occhi il mestiere! Però, facevo gran scorpacciate di film nei cineclub e avevo partecipato ad un seminario di Nikita Michalkov, diventando poi assistente alla regia nello spettacolo teatrale "Partitura incompleta per pianola meccanica", con Marcello Mastroianni…
Mastroianni a teatro credo che sia una possibilità capitata davvero a pochi…
Sì, in effetti quale migliore esperienza per approfondire il lavoro del regista con gli attori? Un maestro di cinema come Michalkov che dirige in teatro attori come Marcello Mastroianni in un testo già rappresentato al cinema dallo stesso Nikita!... Comunque per tornare al mio film d'esordio, è stata dura, ma riuscii ad ottenere il finanziamento di 350 milioni: avevo appena compiuto 27 anni e sapevo per certo che avrei fatto il mio primo film, "Il gioco delle ombre", anche se in realtà avrei dovuto aspettare più di due anni prima di girare il primo ciak, durante i quali formai una cooperativa che sancì il sodalizio artistico di quasi tutta la troupe artistica e tecnica. Un mix di talento e passione, tutti: c'era una sceneggiatura definitiva, dialoghi, tra cui le 2 battute di Antonioni, sopralluoghi, bozzetti scenografici, costumi, provini della macchina da presa, tutto era pronto per quattro settimane secche di set.
È stato un parto sincero però…
Non sarò mai abbastanza grato a chi in quest'avventura mi è stato meravigliosamente a fianco. Un secondo dono-miracolo di Herzog, inoltre, mi ha permesso di coronare un sogno nel sogno: fondere le immagini filmiche con una musica che ne vibrasse le corde più profonde. Volevo a tutti i costi (ma ero senza budget) i Popol Vuh, i musicisti di Monaco leaders dell'elettronica fin dai Sixties, autori delle colonne sonore dei film di Herzog. E così è stato. Contattati dal regista tedesco, si sono fatti mandare il premontato del film e dopo neanche 24 ore Florian Frikke, il leader dei Popol Vuh, mi ha telefonato dicendomi che mi avrebbero aspettato a Monaco per la registrazione delle musiche, tempo un mese.
E poi cosa è successo?
Purtroppo il film non ha mai avuto una distribuzione nelle sale, né in home video. Ha girato il mondo per festival e rassegne, raccogliendo elogi e premi, tra cui il Globo d'Oro per miglior opera prima, ed è entrato nel palinsesto di RaiTre, quello notturno. Assurdo! Avevo fatto un film per il cinema, lo avevo scritto, girato, montato, sonorizzato e musicato per essere proiettato in sala, su grande schermo, e che al cinema non è mai passato!
Come l'hai presa? Voglio dire, non è facile incassare questo colpo dopo tutto l'impegno e dopo tutti i meriti che ti sono stati riconosciuti...
Fare cinema e vedersi negato il confronto più vitale, quello con lo spettatore qualunque, che entra in sala pagando un biglietto, per vedere quel film di cui gli hanno parlato o ne ha letto o semplicemente l'ha attratto magari solo per il titolo, o casualmente perché è programmato nel cinema sotto casa, è difficile da digerire come colpo. È attraverso questa diffusione e gli incontri con umori, stati d'animo, curiosità, sensibilità, intelligenze, pazienze, vibrazioni diverse e rigeneranti, che si crea quella linfa vitale che dona una vita pienamente autonoma al film, rivelandone la sua specificità prismatica, 10, 100, 1000 facce, identità, molteplici e diverse per ogni singolo spettatore…
Allora, hai esordito con il cinema nel 1990 e sei tornato solo nel 2001 con Jurij… che cosa hai fatto in questi dieci anni?
Sono andato a letto presto… Non è vero. Forse qualche volta sì, magari quando c'era il coprifuoco a Mostar, agli inizi, nel '95, i primi tempi che stavo lì, in Bosnia… Ma questa è un'altra storia…Nei primi anni '90 avevo ripreso a fare regie di filmati televisivi, con la fortuna di ri-lavorare con Sergio Zavoli, il Presidente della RAI, anche se non lo era più, ma continuavano a chiamarlo così. Avevo già lavorato per il programma "La Notte della Repubblica" sugli anni di piombo, e ora si trattava di affrontare un altro percorso denso d'interessi: "Viaggio intorno all'uomo". Tv di qualità, come si diceva allora senza che si allungasse il naso. Avevo delle storie, dei personaggi, dei luoghi da raccontare con una telecamera, e non si trattava di inchiesta giornalistica, ma di trovare una cifra stilistica di racconto breve (5 minuti) con grande libertà artistico-espressiva. In uno di questi viaggi sono finito al tristemente celebre Cottolengo, l'istituto-cronicario di Torino, raccontato magistralmente da Calvino ne "La giornata di uno scrutatore". E qui, nel padiglione degli Angeli Custodi, quello dei bambini malformati che hanno dato origine a miti e leggende urbane, ho incontrato un bimbo nato senza occhi, le palpebre sigillate dalle sottili file di ciglia su occhi mai nati. Un volto bellissimo, un mondo chiuso in se stesso. Non ho più fatto riprese, lì, dopo quell'incontro. Me ne sono ripartito e ho fatto un viaggio in treno notturno Torino-Roma in silenzio, sveglio. Poi, qualche tempo dopo, di getto, in circa mezz'ora, ho scritto il soggetto di "Jurij", il mio secondo film! Annunciato 2 volte alla stampa come film in pre-produzione, nel '94 il progetto è finito in un cassetto mentre continuavo a scrivere storie e sceneggiature, prevalentemente con Fabio Bussotti… Mi ero creato l'illusione di poter infrangere la regola che l'opera seconda è più difficile da avviare rispetto all'esordio. Invece, niente. Avrei dovuto aspettare ben 9 anni dal mio primo film per realizzarne un secondo. Nessun rimpianto, però. Perché nel frattempo ho vissuto un'esperienza fondamentale della mia vita, dedicandomi per tre anni a percorsi laboratoriali di teatro per bambini e poi per ragazzi a Mostar, in Bosnia, dal '95 al '98, quando abbiamo portato lo spettacolo "Ne ide pa ne ide" ("Niente da fare" dal Godot di Beckett) al teatro Vascello di Roma, con 20 giovani attori mostarini.
Avevi perso le speranze?
Non lo so. Però poi un produttore esordiente legge la sceneggiatura, s'appassiona e rimette in moto il meccanismo del fare cinema. La sceneggiatura ottiene subito il riconoscimento di film d'interesse culturale nazionale e il finanziamento statale attraverso il fondo di garanzia. La RAI acquista i diritti, così come Tele+/Sky e il progetto acquista forza con il coinvolgimento di artisti straordinari (Leonard Rosenman, Charles Dance, Sarah Miles…) assumendo sempre più caratteristiche internazionali, a supporto endemico della mia volontà di mantenere l'aspetto plurilinguistico della storia, con suoni e metriche a suggerire diversità musicali in un ascolto assoluto. Ed ecco la mia intuizione di ricerca sinestetica, quella di vent'anni prima!
Tra le tue pratiche c'è dunque quella di sceneggiatore… Come scegli una buona storia? Come ti accorgi che hai una grande storia per le mani?
È come quando ci si innamora, quando si perde la testa travolti dalla passione, linfa vitale scorre nelle parole che la raccontano e che nutrono immagini su immagini tanto nitide da aver quasi paura di contaminarle nel volerle riprodurre fedelmente. Il suo impatto emotivo tocca corde così profonde da sciogliere ogni dubbio e non resta che veleggiare a vista su quel mare, a viso aperto e cuore impavido, con la purezza spietata d'un bambino che tutto scopre e relaziona. Mi piace immaginare che una buona storia, quella che per me è una buona storia, sia tale perché solleva domande senza pretendere di conoscere risposte assolute, e il punto di vista aderisca al protagonista come la forza dei suoi occhi… Ti guardo nello specchio e mi vedo… Dice Tarkovskij "Se il nostro sentimento del mondo può essere percepito anche dagli altri come parte inscindibile di loro stessi, che cosa può costituire uno stimolo più grande per il nostro lavoro?"
Parliamo del film Jurij, vincitore di tanti premi, apprezzato molto dalla critica e che a me è piaciuto molto per sensibilità, ma anche perché hai mescolato più cose. Vorrei usarlo come spunto per diverse riflessioni. Per esempio: nel film descrivi il rapporto tra maestro e allievo. Quale è stato il tuo maestro, se ne hai avuto uno?
Ti rispondo leggendoti alcune riflessioni che ho scritto: "il maestro non insegna, educa; o meglio: educa insegnando. Egli trasmette un insegnamento che consente al discepolo di diventare a sua volta maestro: maestro di se stesso. Non si tratta di imparare qualcosa, ma di imparare a imparare, anche di fronte alla propria sofferenza, disagio, dolore. Maestro è ciò che ciascuno deve poter divenire. Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. È colui che aiuta a ritornare a casa, e tornare a casa significa diventare ciò che si è. L'educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun'altro (il discepolo, l'allievo) da un'esistenza inautentica a un'esistenza autentica. Come si dice, è il discepolo che crea il maestro, quando egli è maturo per intravedere il bisogno di educazione nel proprio orizzonte. I maestri possono essere alla portata di chiunque, ovunque, nel raggio di una comune esperienza quotidiana. Il primo insegnamento che noi riceviamo da un maestro è forse proprio questo: poterlo riconoscere anche nel vicino di casa, nella persona anonima e opaca di chi ci vive accanto. La parola dei maestri coincide almeno in un punto con quella dei poeti: nell'effetto di illuminazione, di evidenza, che essa suggerisce e produce. Eppure, l'insegnamento di un maestro più è piatto e più è fecondante e ricco, di una piattezza che scintilla d'intelligenza nel suo dire come nel suo silenzio. La figura del maestro è adiacente, quando già non le comprende, alle diverse figure odierne del terapeuta, con cui ha in comune il fatto di prendere parte a una relazione di aiuto o di cura…". E così, nel film, Isabella si rivela guida preziosa per Jurij, proprio perché identifica il suo ruolo terapeutico con quello di maestra, entrambi imparando a imparare.
In Jurij c'è la madre, il violino, la pioggia, il carrello come movimento emotivo, la campagna…. Se penso agli ultimi dieci anni del cinema italiano non ricordo un film alla Tarkowskij come questo… ti piace come autore?
A proposito della domanda sui maestri, su quale può essere stato il mio, forse avrei dovuto rispondere con un nome, proprio il suo nome, Andrej Tarkovskij. Sì, posso considerarlo la vera guida spirituale delle mie scelte estetiche e stilistiche, padre putativo della mia ricerca sinestetica. Grazie a lui, ai suoi film e ai suoi insegnamenti (lui parla di prisma e di scoperte aurorali: e dice "L'artista nelle proprie opere rifrange la vita attraverso il prisma della sua percezione personale e proprio a causa di ciò è in grado di cogliere in scorci irripetibili i più diversi aspetti della realtà"), io ho trovato un mio percorso e so che di questo gli sarò eternamente grato. Proprio sul pensiero-Tarkovskij e sulla percezione sinestetica della realtà ho tenuto il mio primo laboratorio di regia al Centro Sperimentale, nel 2002.
Mi ha colpito l'uso di più lingue, alla Godard e alla De Oliveira… perché questa scelta?
L'aspetto plurilinguistico della storia (inglese, ungherese e italiano), con suoni e metriche a suggerire diversità musicali in un ascolto assoluto, nell'accezione più espansa, che coinvolge anche la stratificazione dei ricordi, è parte endemica del punto di vista di Jurij. Il padre-padrone-maestro ha un suono, la madre-ragazza ne ha un altro, Isabella, la terapeuta che lo aiuterà, un altro ancora… E la musica, anzi, le due anime musicali del film (diegetica e extradiegetica), alimentano questa geografia di partiture in cui Jurij, labirinticamente, è smarrito.
Mi parli dell'ultima immagine di Jurij, l'occhio del bambino?
Volevo che in "Jurij" apparisse che gli uomini non sono soli e abbandonati in un universo vuoto, ma sono legati da un'infinità di fili al passato e al futuro, che ogni essere umano col proprio destino realizza un legame con il destino generale degli uomini. Questa speranza che ogni singola vita e ogni singolo atto hanno un senso e un valore, accresce infinitamente la responsabilità dell'individuo nei confronti del generale movimento della vita. Ecco, oggi che ci rifletto, in questo momento che scrivo, penso che l'occhio di Jurij che ci guarda, il buio in cui ci lascia al battito di palpebre finale, lo scoppio orchestrale come un Big Bang che rovescia l'ordine precostituito basato sul silenzio e ingenera quel caos destinato a equilibrare tempo e spazio, sempre in bilico su quella fune che dev'essere tesa per far incontrare il funambolo con le nuvole…il piede con la corda…sospesi in un campo di forze determinato anche dagli sguardi a naso in su di chi assiste all'evento mirabolante…Sguardi che diventano forza, che materializzano una tensione dinamica, così forte da rendersi ancora più violenta di un soffio bizzarro del vento o di un gancio malmesso che cede…Nel respiro sospeso dei sottostanti, s'annida la caduta…o il volo… Eccolo, il potere dello spettatore. Nefasto o salvifico. Ed è di fronte a lui, individuo, che io alla fine abdico, cedendogli i fili del gioco, dopo avergli svelato l'inganno velato d'incanto: l'occhio di Jurij ti guarda e vede. E tu? Aristotele diceva "Se l'occhio fosse una creatura vivente, la vista ne sarebbe l'anima". Il poeta Lawrence Ferlinghetti, uno degli ultimi grandi della Beat Generation, che ho avuto il piacere di avere a fianco durante la proiezione del mio film a San Francisco, mi ha poi regalato un suo schizzo (è anche eccellente pittore) in cui fa dichiarare a Jurij: "Non sono cieco. Stefano Gabrini m'ha dato la visione".
Possiamo allora tirare fuori una teoria personale? Cosa vuol dire per Stefano Garbini "guardare"? mi spiego meglio, cosa si intende per "sguardo" quando si parla di un regista?
Ti rispondo ancora con Tarkovskij, utilizzando le sue parole: "Il principale principio formativo del cinema, il principio che lo permea fin nelle sue più microscopiche cellule, è l'osservazione. Il cinema nasce dall'osservazione diretta della vita. La stessa immagine cinematografica, nella sua essenza, è proprio l'osservazione dei fatti della vita nel tempo. La natura della vivente creazione esige il gusto dell'osservazione immediata del mutevole mondo materiale in continuo movimento. Il pittore con i colori, il letterato con le parole, il compositore con i suoni, conducono una lotta aspra, estenuante e coerente per padroneggiare il materiale che costituisce la base delle loro opere. Il cinema invece è nato come procedimento per fissare il movimento stesso della vita nella sua irripetibilità fattografica concreta, l'istante riprodotto sempre di nuovo, istante dopo istante, nella sua instabile fuggevolezza, della quale siamo in grado d'impadronirci imprimendola sulla pellicola. La concezione dell'autore diventa vivente testimonianza umana, capace di emozionare lo spettatore, soltanto quando sappiamo tuffarla nel torrente della realtà che fugge via impetuosamente, da noi fissata nella palpabile concretezza di ogni istante raffigurato, nella sua irripetibilità e unicità emozionale e di tessitura. Altrimenti il film è destinato a invecchiare ancora prima di nascere".
Parliamo di come sta cambiando il cinema, se è vero che sta cambiando… C'è effettivamente una differenza tra girare e vedere in digitale e girare e vedere in pellicola?
L'esperimento di cinema girato in digitale che più mi ha convinto è stato "L'Arca Russa" di Sokurov, un unico piano sequenza attraverso le sale e le meraviglie dell'Ermitage, oltre le frontiere del tempo. Sono convinto che anche il digitale possa essere, come la pellicola, un supporto filmico straordinario. Purché non s'incorra nell'errore di voler girare con le telecamere esattamente come fossero macchine da presa, secondo gli stessi parametri stilistici e semantici. Non ho mai girato nulla in HD, ma m'incuriosirebbe molto rapportarmi con la tecnologia di ripresa digitale più avanzata, sviluppando un percorso di ricerca "altro" rispetto ai canoni cinematografici tradizionali. Siccome la differenza c'è, eccome, allora più che nasconderla o sottovalutarla varrebbe la pena di spingerla al massimo e adottare nuove coordinate di riferimento visivo per realizzare racconti per immagini radicalmente nuovi, o comunque sostanzialmente diversi nel loro linguaggio specifico. Per quanto riguarda il cambiamento del cinema, comunque, c'è da auspicare che possa essere vero. Al di là di forme e linguaggi, quello che preoccupa è la straripante penuria di buoni film nelle sale. Oh, è sempre più raro che io esca dal cinema senza una cocente o latente delusione addosso, dentro. Di recente, solo l'ultimo Kaurismaki, e quasi in toto la cinematografia orientale, mi hanno donato il piacere vero di godermi ancora l'arte del cinema.
Si può fare politica con il cinema? Esiste una politica d'autore che ti interessa, ti stimola (tipo Von Trier, per citare l'ultimo).
La nascita stessa del cinema, più di 100 anni fa, costituisce la realizzazione di un sogno utopico: la rappresentazione del reale nel suo divenire. Dunque, di per sé, la settima arte ha un potenziale rivoluzionario. Se non collettivo, determinando o contribuendo a determinare effetti sociologici di massa, sicuramente individuale, fomentando pulsioni latenti in ognuno. Diciamo che potrebbe essere in grado di agire sensibilmente su più livelli, più strati, instillando goccia a goccia nutrimento alla speranza che questo cazzo di mondo possa cambiare. Ogni creazione è un bene comune. Peccato che questo senso di responsabilità sia spesso solo un vago fantasma di retorica.
Domanda secca, ma se te la senti risposta larga: Fellini o De Sica?
Come si fa a preferire "La strada" a "Ladri di biciclette", piuttosto che "Umberto D" a "8 ½"? Si può essere bigami?
Quali sono i tuoi impegni attuali e i progetti futuri?
Beh, visti i lavori realizzati l'anno scorso dai ragazzi dell'Accademia del Cinema di Enziteto, mi piacerebbe molto incontrarli in un percorso laboratoriale da condividere fin dalla sua stessa ideazione. Ho già il titolo, che denuncia bellicose e sovversive intenzioni dadaiste: "En'zitract"!