Zavattini e Fellini: due estetiche a confronto
di Francesco Di Benedetto
Seguendo alcuni punti nevralgici nell'impostazione tematica della lettura che Stefania Parigi propone del pensiero zavattiniano sull'immagine cinematografica nel libro "Fisiologia dell'immagine", mi pare suggestivo confrontare lo Zavattini teorico del cinema e il Fellini dei film Casanova e La città delle donne: i due itinerari di riflessione (esplicita nelle dichiarazioni zavattiniane, più o meno implicita nelle due opere felliniane) sulla natura del medium cinematografico mi paiono fra di loro tanto opposti, antinomici, da presupporre e al tempo stesso negare l'uno l'altro. Il discorso potrà dunque risultare utile per definire le due estetiche nelle relative prese di posizione e peculiarità.
Il terreno comune ai due itinerari potrebbe esser rintracciato nella crisi della figura tradizionale dell'autore, nell'insofferenza radicale verso una soggettività idonea a piegare, definire e configurare secondo unilaterali e assolutistiche istanze di attribuzione di significato, il mondo nella relativa concretezza e indefinitezza, il profilmico, l'alterità rispetto all'occhio della macchina da presa. La crisi sarà forse vissuta in maniera più sofferta, assumendo tratti vistosamente antinomici e autolesionistici, in Fellini, autore ancora intimamente legato a una più tradizionale concezione dello spettacolo cinematografico, mentre ne verrà proposto il superamento nelle riflessioni zavattiniane mediante la proposizione di una vera e propria rivoluzione nelle forme linguistiche e nella concezione della natura del medium cinematografico.
A Zavattini, in particolare, il cinema appare quale terreno possibile di un incontro fra la soggettività di chi guida l'occhio della macchina da presa e l'oggettività di tutto ciò che si trova di fronte a questa. La prima opererà nel segno dell'analisi, dell'interrogazione dell'alterità di volta in volta messa a fuoco dall'obiettivo della macchina da presa, in una tensione conoscitiva che, stanti l'afflato viscerale e la carica umana impliciti nell'operazione, acquisterà i tratti di una vera e propria unione carnale con l'altro; un'unione, questa, improntata tendenzialmente a un atteggiamento di rispetto, apertura, accettazione da parte del soggetto che guida lo sguardo della macchina da presa, nei confronti dell'oggetto materiale della conoscenza, delle cose o degli uomini di volta in volta oggetto dello sguardo. L'intervento autoriale inscritto all'interno del gesto cinematografico non potrà dunque più essere rintracciato nella configurazione di uno schema astratto di pensiero atto a sua volta a configurare e a definire preventivamente l'alterità oggetto dello sguardo della macchina da presa, ma si calerà in una dimensione dialettica, di rapporto con l'altro da sé i cui termini (soggettività e oggettività) giocheranno, entrambi, il loro ruolo; il risultato di questa dialettica sarà comunque impregnato di autorialità, si configurerà comunque quale atto d'interpretazione piuttosto che di mera registrazione della realtà: la soggettività dell'autore si sarà esplicata infatti nella scelta delle domande da porre al profilmico, nelle direzioni di sguardo da proporre allo spettatore, nonché nella tensione affettiva inerente a queste operazioni; d'altra parte l'elemento "oggettivo" troverà spazio, sia pur tendenzialmente, all'interno dell'opera filmica, proprio in virtù di questa disponibilità autoriale, inscritta all'interno del procedimento di realizzazione del film, all'incontro e all'interesse nei confronti dei materiali della realtà, disponibilità che necessariamente si sostanzierà in un rinvio, in un afflato, in una tensione emozionale diretta a questi materiali, implicita all'interno del testo filmico.
Zavattini individua poi varie garanzie idonee ad assicurare una piena operatività del medium quale terreno fertile di incontro e di dialettica fra l'io autoriale e l'alterità oggetto di osservazione e di indagine da parte di chi guida l'occhio della macchina da presa; garanzie, queste, prevalentemente dirette a evitare una subalternità degli elementi oggettivi della dialettica ad una soggettività avulsa dal contesto effettuale degli stessi, e dunque astratta. Distinguerei due ordini di garanzie: garanzie mediologiche ovvero inerenti alla natura, alle caratteristiche peculiari del medium cinematografico, e garanzie pratico-operative, inerenti all'uso che del mezzo si fa. Quanto alle prime si legge in "Neorealismo ecc.", "la macchina (da presa) ha "tutto davanti", e vede le cose e non il concetto delle cose, ci aiuta almeno in questo senso". La priorità logica attribuita dal medium alla fisicità delle cose, alla fisicità dei corpi oggetto dello sguardo della macchina da presa rispetto ad ogni operatività strutturante nei confronti del mondo da parte del pensiero, viene dunque evidenziata in relazione alle peculiarità di un medium che si connota essenzialmente nell'essere sguardo, proposizione di uno sguardo. Se è vero che ci si imbatte prima nelle "cose" piuttosto che nei "concetti" delle stesse, già di per sé il medium ci preserverebbe, nella relativa pratica, dalle tentazioni di una completa soggezione delle prime ai secondi. La macchina da presa ha "tutto davanti" e dunque il cinema è un'arte della presenza: implica una relazione con un'alterità, il profilmico, fisicamente contigua e presente nel momento stesso dell'espressione; contiguità e presenza delle cose oggetto dello sguardo della macchina da presa non impediranno certo l'operatività dei filtri soggettivi dello sguardo dell'autore all'interno della pratica del medium, ma ne ridurranno almeno la portata violatrice, trasfigurante nei confronti delle cose. In questo senso, per Zavattini, il cinema è un medium molto lontano dalla letteratura, mezzo di espre ssione che implica a sua volta una relazione con un oggetto, ciò di cui si scrive, assente nel momento stesso della scrittura ed ascrivibile alla sfera della virtualità o del passato.
Sul piano delle garanzie pratico-operative via via indicate da Zavattini, vorrei ricordare almeno l'abolizione del montaggio, la scelta di soggetti non straordinari e la pratica del film non narrativo. Quanto all'abolizione del montaggio, essa va intesa in termini non strettamente letterali: ciò che rileva è lo spostamento dell'attenzione dello spettatore da una serie di situazioni narrative differenti, fra di loro più o meno logicamente correlate secondo principi di causa ed effetto, al singolo evento o momento della vita di un uomo, sufficiente di per se stesso a costituire materia per un film; un esempio, evinto da "Neorealismo ecc.", può essere quello dei "novanta minuti consecutivi della vita di un uomo". Fra le varie conseguenze di una simile pratica del medium cinematografico ricordo l'abolizione di ellissi e gerarchie fra gli eventi finalizzate alla costruzione di un intreccio: l'apertura dell'autore nei confronti dei materiali della realtà comporta infatti un pari amore e una pari disponibilità a lasciarsi emotivamente segnare da ciascun momento dell'esistenza dell'uomo; la costruzione di un intreccio composto solo dai momenti più appariscenti si rivela così un'eccessiva forzatura dell'elemento oggettivo nella dialettica instauratasi fra la soggettività dell'autore (e dello spettatore) e il mondo. Lo stesso discorso opera riguardo alla "lotta" intrapresa da Zavattini nei confronti dell'"eccezionale", da cui scaturisce l'esigenza di scegliere soggetti ascrivibili alla sfera dell'ordinario, della quotidianità. Un cinema standardizzato sulla misura di ciò che comunemente si ritiene eccezionale comporta la chiusura dei soggetti coinvolti nella realizzazione e nella fruizione a quanto di altro, di diverso, di imprevisto e di non programmabile "eccezionale" non è. In entrambi i casi si impone dunque la necessità dell'esercizio della pazienza, della lotta contro la noia (prima e più superficiale reazione dell'uomo di fronte alla realtà, secondo Zavattini) da parte dello spettatore, quale condizione imprescindi bile di un'autentica comunione con l'altro.
Quanto al film non narrativo, eccetto l'ipotesi limite e tanto discussa del "film lampo", si tratta di un film che escluda qualsiasi ipotesi di rappresentazione di una storia (reale o inventata) già compiutamente prefigurata in precedenza, e di un film che abbia ad oggetto d'indagine quegli stessi uomini che compaiono nelle inquadrature. L'intreccio è infatti da Zavattini considerato un'astrazione che possa prefigurare in maniera fin troppo penetrante l'alterità oggetto dello sguardo della macchina da presa. Al di là dell'intreccio si apre la possibilità di un effettivo operare del medium quale arte del presente: gli elementi oggettivi saranno autonomamente presenti nel momento e nel luogo stesso dell'espressione (la ripresa), non potendo essere semplicemente ricondotti alla sfera virtuale di un passato che li abbia, sia pur tendenzialmente, già previsti e configurati. Ciò non esclude un'attività di preparazione del film e in particolare la sussistenza di un piano d'indagine posto in essere da chi la condurrà poi in loco servendosi della macchina da presa.
Riguardo alle conseguenze sul piano teorico di questa concezione dialettica del medium cinematografico, d'incontro fra l'autore e il profilmico, si legge in "Neorealismo ecc.", "la macchina (da presa) non fotografa, non deve fotografare, ciò che abbiamo pensato, ma fotografare ciò che pensiamo nell'atto stesso in cui lo vediamo"; come a dire che il cinema è pensiero calato nella concretezza delle cose (il cinema fotografa, dunque materializza nella visione, ciò che si pensa) ed al tempo stesso è un pensiero non preesistente ma attivato ed operativo proprio nel momento della visione. La prospettiva indicata da Zavattini è dunque quella di una sintesi, di una risoluzione, nella pratica del cinema, dell'antinomia occidentale fra l'universo del pensiero da un lato e l'universo del sensorio (e in particolare della vista) dall'altro. Assimilabile allo scioglimento della contrapposizione pensiero e sensorio è lo scioglimento, attuato nel cinema, della dicotomia arte e vita. Si è detto come la concezione che Zavattini ha dell'espressione cinematografica si radichi tutta nel rapporto operativo (nella fattispecie conoscitivo e affettivo) con il mondo, con l'altro da sé, e dunque nella vita, vita e rapporto non sottoposti ad alcuna mediazione che prescinda solipsisticamente dal contatto con suddetta alterità. Zavattini constata a proposito nel 1949 (in una relazione ad un convegno sul cinema, ascritta poi alla raccolta di scritti "Neorealismo ecc.") il fatto che il cinema italiano avvicini "sempre più i due termini vita e spettacolo affinché il primo ingoi il secondo". La compenetrazione fra arte e vita, fra vita e spettacolo, opera così nel segno dell'acquisizione autonoma da parte della vita di una propria valenza estetica. Per comprendere questo delicato passaggio teorico può essere forse utile il paragone con l'estetica dadaista del ready made. Nel dadaismo come nel cinema teorizzato da Zavattini si assiste all'iscrizione nella sfera dell'"arte" di un gesto direttamente correlato alla vita concreta; un gesto che assume nel caso del dadaismo i connotati della proposizione dell'oggetto "già prodotto", e, per quanto concerne il cinema teorizzato da Zavattini, i connotati dell'atto conoscitivo e affettivo di dialettica nei confronti del profilmico; ora però, mentre nel dadaismo l'elemento della vita concreta, il ready made, l'oggetto già prodotto, si lega all'arte solo in quanto funzionale ad una produzione di senso inscritta nel gesto autoriale dell'esposizione dello stesso, nella teoria zavattiniana è l'elemento vitale, e in particolare l'atto operativo di rapporto con l'altro, ad essere idoneo, di per se stesso, ad acquisire una valenza estetica.
Passando poi a Fellini, e in particolare al Fellini di Casanova e La città delle donne, si riscontra un pari interesse rispetto a Zavattini riguardo alla proposizione della questione del rapporto con l'altro, un'alterità qualificata nei due film in questione anche quale alterità sessuale. Solo che, ad una prima e parziale approssimazione, l'immagine cinematografica felliniana piuttosto che potersi leggere quale terreno operativo per un rapporto con l'altro, apparirà più facilmente come un'opportunità privilegiata, concessa all'autore e allo spettatore, per una rappresentazione di un contatto al tempo stesso travolgente, pieno e gradevole con il mondo e con la vita. Lo spettacolo cinematografico si fa così innanzitutto momento di liberazione o sublimazione di pulsioni e desideri profondi, luogo esplicito di seduzione e di esibizione carnale: si tratta dunque di uno spettacolo pirotecnico, parossistico fino a sconfinare nel grottesco, diretto ad un pubblico mai sazio di stimoli e eccitazioni sensorie oltre il limite dell'ordinario. Da parte dello spettatore già questa attitudine all'ingordigia, all'impazienza nel veder puntualmente forzati in chiave caricaturale, conturbante e seducente i materiali provenienti dalla realtà ci segnalano che ci muoviamo in un universo estetico ben lontano da quello zavattiniano: laddove si riscontravano l'esigenza dell'esercizio della pazienza, del superamento della noia nell'analisi approfondita del mondo e l'esigenza di evitare una selezione dei tratti più appariscenti dei materiali della realtà, condizioni necessarie per un'autentica accettazione e comunione con l'altro, ora si richiede proprio l'esibizione di quanto di "eccezionale" si era precedentemente con forza e rigore osteggiato.
Ora, questa stessa attitudine alla riqualificazione dei materiali della realtà nel segno della caricatura, di un'ipertrofica e coatta stimolazione sensoria dello spettatore, ci segnala anche come il contatto con l'altro inscritto nell'immagine cinematografica felliniana, per quanto incandescente, si situi sull'orizzonte mentale della virtualità piuttosto che di un'effettiva dialettica esercitata in loco con l'altro. Si veda come, fin qui, il percorso estetico felliniano diverga radicalmente da quello zavattiniano: all'operatività di un pensiero in azione in contiguità fisica e temporale con l'altro, tale da annullare definitivamente la distanza fra l'intelletto e quanto di sensorio è ascrivibile al contatto con il mondo, si sostituisce ora un'immagine tutta mentale, e dunque un pensiero ciecamente arroccato su se stesso, rivolto alla figurazione di astratti, inesistenti "altrove" di pienezza e di piacere. La vita, nel suo caos e nella sua indefinitezza, nella sua carica eversiva di coinvolgimento in legami perennemente imprevedibili, pare inconciliabile con l'arte, un'arte che si farebbe possibilità concreta di eluderne le problematiche, eventuale evasione e rifugio individuale in un territorio protetto dalle insidie dell'altro.
Quale nota dissonante, non affatto marginale, all'interno dell'estetica felliniana, questi stessi limiti (estetici ed esistenziali) dell'immagine cinematografica proposta dall'autore vengono da essa stessa esplicitati a chiare lettere. E' lo scandalo del cinema felliniano che, nel momento stesso in cui propone un universo virtuale di piacere quale rifugio dalla vita, ne dichiara apertamente la natura fittizia, insieme alla fragilità individuale e al solipsismo che ne configurano l'esigenza. Sono i testi felliniani stessi, e in particolare Casanova e La città delle donne, ad evidenziare abbastanza chiaramente, attraverso l'utilizzo dell'ironia e del registro del grottesco, come all'origine del procedimento creativo vi sia un forte disagio, una dicotomia irrisolta fra l'io e l'altro; una dicotomia da leggersi sostanzialmente quale paura delle potenzialità lesive dell'altro, da una parte, e quale deliberata incomprensione delle ragioni e delle istanze dell'altro dall'altra.Alla dicotomia fra l'io e l'altro si sovrappongono poi le dicotomie fra pensiero e vita e fra arte e vita, che diventano antinomie inscritte all'interno dell'immagine stessa; l'immagine cinematografica proposta da Fellini, nella relativa esplicitazione radicale delle dinamiche del desiderio e della seduzione che ne guidano la configurazione, e nell'energica carica di ironia che l'accompagna, acquisisce così fortissime valenze autoriflessive, contenendo essa stessa un'insofferenza, una critica e una demistificazione nei confronti di se stessa.
Vediamo ora come opera questa contraddizione fra soggetto e mondo, fra arte e vita, all'interno dei film Casanova e La città delle donne. Al centro delle due opere ci sono due viaggi, il primo memoriale, il secondo onirico, all'interno di due universi entrambi dedicati ad un'alterità tanto pregnante all'interno della poetica felliniana: la donna. In svariate opere precedenti e successive la rappresentazione della donna, nella relativa corporeità, si era e si sarebbe fatta luogo privilegiato di manifestazione dello stile barocco e affabulatorio dell'autore, e dunque simbolo dell'ipertrofia della messa in scena felliniana. Questa considerazione ci porta a considerare le due opere come un'occasione privilegiata concessasi dall'autore per riflettere sulla natura ed eventualmente sull'origine dell'operatività formale della propria arte. L'immagine che della donna emerge da Casanova è un'immagine carnale, pulsionale, tutta persistentemente ed eversivamente tesa, come un gorgo, ad irretire il protagonista senza concedergli alcuna via di scampo; ma al tempo stesso è un'immagine fittizia, integralmente ascrivibile alla sfera della fantasia, stante la relativa e puntuale disinvoltura delle donne ritratte nel concedersi al più fatuo ed infantile dei maschilisti (Casanova, appunto). La messa in scena, coerente con l'immagine calamitante e viscerale che della donna si vuol dare, segue istanze rigorosamente e programmaticamente estetizzanti. La dicotomia fra soggettività (maschile) ed alterità (femminile) si viene così a delineare in relazione all'inconciliabilità radicale dell'immagine che il protagonista, sotto le lenti deformanti ed autocompiaciute della memoria, ci dà della donna, con ciò che le donne sono. Suddetta dicotomia si converte poi in dicotomia fra arte e vita proprio in virtù del fatto che il punto di vista offerto dall'arte e dallo spettacolo, nel film in questione, coincide con quello, mai rispettoso nei confronti dell'alterità, del protagonista.
Ora, a ricordarci, direi autolesionisticamente, la natura virtuale dell'immaginario presente nel film Casanova, concorrono svariati fattori testuali: in primo luogo l'ironia feroce con cui l'autore ci presenta il suo personaggio e dunque, insieme al personaggio (che finirà per individuare in un automa la propria donna ideale), l'intera prospettiva di sguardo adottata dal film; in secondo luogo la radicalità dei procedimenti di seduzione ed esibizione inscritti all'interno dell'opera, smascherati così in quanto tali agli occhi e alla coscienza dello spettatore; in terzo luogo un ulteriore testo filmico felliniano, di poco successivo alla realizzazione di Casanova e vicino ad esso per le tematiche affrontate: La città delle donne, che appare innanzitutto come un'occasione di disvelamento dei potenziali retroscena individuali nascosti dietro a Casanova. A determinare questo potenziale disvelamento sono alcuni mutamenti rilevanti nei connotati dei personaggi coinvolti nel plot rispetto ai tratti dei personaggi di Casanova: muta la qualità dell'esperienza sessuale del protagonista maschile, qui segnata dalla frustrazione, dalla persecuzione e dalla derisione da parte delle donne oggetto del desiderio; le donne a loro volta da una posizione di soggezione passiva alle istanze dell'immaginario erotico del maschio, si faranno soggettività minacciose e inaccessibili alla lettura e alla comprensione da parte del soggetto maschile, mentre in una prospettiva (anch'essa autolesionistica) di dissolvimento radicale delle estetizzanti coordinate di riferimento dello sguardo felliniano, una messa in scena manieristica, caotica e selvaggiamente ridondante sembrerebbe configurare nel segno del fiaccamento e della sterilità la soggettività creativa dell'autore.
Si può dunque bene ipotizzare, sia pur nelle radicali differenze che dividono il percorso estetico disegnato dai due film di Fellini da quello zavattiniano, una condivisione da parte del regista e dello sceneggiatore teorico del cinema di un terreno, di un nucleo teorico comune tanto scottante quanto produttivo: da un lato la proposizione, in seno all'arte e allo spettacolo, del problema della legittimità di esistere ed operare da parte della "vita", quale alterità concreta da quanto di eccezionale e seducente le convenzioni spettacolari hanno sempre celebrato, e, dall'altro lato, la disponibilità o meno dell'autore all'accettazione ed al rispetto di suddetta vita ed alterità. Vita ed alterità ora incalzanti, ora messe a tacere nelle due opere felliniane, ma che comunque si riveleranno ivi presenti quali altrove, sia pur di fatto sconosciuti ed inesplorati, la cui sussistenza si farà dunque oggetto di rivendicazione, anche in chiave autolesionista, dagli stessi dispositivi testuali; vita e alterità quali terreno diretto di ricerca e di operatività del medium, nella teoria del cinema di Zavattini.
Bibliografia consultata:
Giorgio De Vincenti, "Il concetto di modernità nel cinema"
Giorgio De Vincenti, voce "Autore" tratta dall'Enciclopedia del cinema Treccani
Stefania Parigi, "Fisiologia dell'immagine – Il pensiero di Cesare Zavattini"
Cesare Zavattini, "Neorealismo ecc."