Il film (dis)velamento: shock cinematografici degli ultimi anni
di Gianluca Sadurny
Il cinema viene prodotto innanzitutto per essere visionato, fruito, vissuto da un pubblico. Non importa quale sia la dimensione entro cui si collochi tale medium, se cioè dobbiamo pensare al cinema come ad un'industria (i film seguendo quest'ottica non sarebbero altro che prodotti che necessariamente devono procurare un utile commerciale) oppure come ad una forma di espressione artistica (le pellicole da questo punto di vista vanno giudicate in virtù del loro presunto valore estetico e culturale), esso vive, si è sviluppato e si è diffuso ai livelli odierni solo grazie al rapporto che ha saputo instaurare con lo spettatore. Polo privilegiato di questo rapporto è senza dubbio il modo in cui un'opera cinematografica si conclude, le modalità con le quali essa decide di salutare la platea, in poche parole il suo finale. Quante volte, catturati e coinvolti da una pellicola alla fine ne siamo rimasti delusi per una scialba conclusione? Quante volte siamo usciti perplessi da una sala cinematografica perché il lavoro che avevamo appena visionato era stato rovinato da un epilogo fragile, frettoloso o comunque non all'altezza del resto?
La "chiusa" di un film è di certo, se non fondamentale, estremamente importante. In più di un secolo di vita lo spettatore ha imparato a veder confermate molto spesso le proprie attese (è il caso dell'happy end programmatico della Hollywood della "golden age"), è stato turbato, un po' più raramente, da epiloghi in cui i buoni non trionfavano a scapito dei cattivi, si è visto sorpreso da finali che proprio non si aspettava. In isolatissimi casi è avvenuto qualcosa di sostanzialmente diverso: la reazione indotta nel pubblico ha assunto i caratteri del totale ribaltamento rispetto alla prospettiva iniziale, dell'assoluta anche se momentanea incomprensione per quanto veniva proiettato sullo schermo, in breve del vero e proprio shock.
Anche se a rigore di termine il finale-shock potrebbe rientrare semplicemente nel novero degli epiloghi a sorpresa, esso se ne distanzia proprio in virtù dell'intensità del lavoro interpretativo che impone al suo destinatario. Per comprendere appieno questa diversità sarà utile ricalcare brevemente quelle operazioni mentali che ogni spettatore compie quando si trova dinanzi ad un testo cinematografico. Ciascuno di noi, man mano che si addentra nella trama di un film, incomincia, molto spesso senza rendersene conto, ad effettuare una serie di operazioni che risultano fondamentali per la comprensione di quest'ultima: inconsciamente veniamo coinvolti in un percorso in cui siamo spinti ad operare delle scelte, a formulare, secondo un processo abduttivo, delle ipotesi e a cercare nel magazzino della nostra enciclopedia mentale le chiavi interpretative o "reading keys" (per lo più di matrice intertestuale) che ci consentono di poter decifrare il mondo possibile (per dirla con Eco) messo in atto dalla finzione cinematografica.
Ebbene, il finale-shock gioca proprio con questi meccanismi inferenziali: ci spinge ad adottare la chiave interpretativa che sembra più adatta al testo che stiamo fruendo, per tutto il corso della trama lavora per dar coerenza a questa nostra (seppur pilotata) scelta ma alla fine ci costringe ad un ribaltamento totale: la chiave che abbiamo scelto non apre la porta della comprensione, anzi è necessario adottarne una completamente diversa, alcune volte opposta. Il finale-shock ci svela il suo inganno solo a pochi minuti dal "the end" e ci impone una rilettura totale dell'opera a cui abbiamo assistito: tutto o quasi cambia, molti aspetti vanno analizzati e letti con una luce totalmente diversa. L'effetto è straordinario: a seconda dei casi brividi, sbalordimento e ammirazione per chi ha saputo così elegantemente e sapientemente "giocarlo" percorrono lo spettatore. Molto spesso si è spinti addirittura a rivedere il testo filmico che presenta il finale-shock per vagliarne la coerenza e per comprenderne appieno il significato (magari illuminando zone di senso che prima erano oscurate o rilevando particolari che prima non si erano notati proprio a causa della differente chiave interpretativa adottata).
Prima di esemplificare concretamente quanto espresso, attraverso la rapida analisi di alcuni finali di opere recenti, valgono tre considerazioni strettamente interrelate:
1) Per ottenere pienamente l'effetto-shock è necessario che vi sia uno spettatore "al grado zero": non solo questi non deve ovviamente sapere come il film si chiuda ma non deve altresì esser venuto a conoscenza del fatto che esso abbia un finale a sorpresa (altrimenti tenterà in tutti i modi di scoprire cosa è celato dietro ciò che vede sullo schermo);
2) Il finale-shock si sviluppa sempre a partire dal "turning point": esso il momento in cui l'autore sceglie di dividere il plot in due percorsi alternativi badando bene che lo spettatore percorra quello sbagliato (ed è quello che sicuramente questi farà se è, come detto, uno spettatore "al grado zero");
3) Lo sceneggiatore e il regista (ma talvolta i due ruoli coincidono) per far sì che il fruitore della pellicola sia deviato al "turning point" e non scopra la "reading key" giusta, si avvalgono talvolta di "strategie (dis)velatrici". Esse si concretizzano o in piccoli, quasi microscopici indizi che sono lasciati a chi si trova dinanzi allo scorrere delle immagini (ma è veramente difficile decifrare e persino cogliere queste tracce che verranno per lo più individuate e comprese ad una seconda visione) o in una serie di elementi che, arricchendo la trama e rendendola in questo modo più interessante, hanno la funzione di dis-trarre lo spettatore e velare/svelare la conclusione del plot.
The Others (2001) e The sixth sense (1999): gli intrusi che non sanno di essere morti
Negli ultimi anni gli shock più forti subiti dallo spettatore sono stati originati dall'opera di due talentuosi autori: Alejandro Amenábar e M. Night Shyamalan. Ed è proprio da due loro piccoli capolavori che parte la nostra analisi, poiché entrambi possono canonicamente rappresentare (seppur con le dovute differenze) modelli esemplari di finali-shock.
Il giovane regista cileno-spagnolo nel realizzare l'opera che gli darà fama e notorietà parte da un'idea che nella sua semplicità è geniale: Amenábar prende uno sfruttatissimo sotto-genere che appartiene al vasto territorio degli horror-movies, quello della casa infestata dai fantasmi, ma decidendo in modo consapevole di ribaltarne completamente la prospettiva. L'autore adotta, infatti, non il punto di vista di coloro che vivi si trasferiscono in una nuova e misteriosa abitazione per scoprirne poi gli inquietanti segreti, ma l'ottica di tre personaggi che avendo dimenticato la propria tragica fine e non sapendo quindi di appartenere alla schiera dei non-vivi, degli spettri si ritrovano degli intrusi (che essi stessi percepiscono come delle entità fantasmatiche) nella dimora in cui risiedono da lungo tempo. Sembra quasi che l'autore abbia applicato alla sceneggiatura una proprietà aritmetica: per ottenere un effetto-sorpresa, per ribaltare completamente il senso di un film nel finale è sufficiente partire da una qualunque trama (anche la più scontata e banale) e ribaltarne completamente il punto di vista spostando l'asse dei protagonisti. Nulla di più facile (a testimonianza che talvolta le idee geniali sono proprio quelle più semplici). E in effetti se durante il film non troviamo traccia di ciò che abbiamo definito "turning point" (esso inizia presentandoci una stato di cose che procederà più o meno linearmente e si preserverà sino allo svelamento finale), è solo perché il doppio binario della sceneggiatura si diparte prima ancora che la proiezione abbia inizio e precisamente nel suo stesso titolo: The Others.
Il doppiaggio italiano ha tradotto l'originale "los otros" in "gli intrusi"; la scelta di affiancare nell'edizione originale al titolo spagnolo quello inglese privilegia la traduzione "gli altri"; già ma coloro che stanno per visionare il film non si chiederanno chi siano gli intrusi? Chi siano questi altri? È molto probabile che non riuscendo, come è logico che sia, a decifrare a chi si riferisca quell'enigmatica intestazione, lo spettatore lasci galleggiare questi interrogativi in un cassetto della propria memoria per tirarli fuori prontamente non appena la trama gli avrà fornito qualche indicazione necessaria. Non appena Grace comincerà a sentire le prime voci ed i primi rumori strani, non appena la piccola Ann inizierà a spaventare il fratellino Nicholas svelandogli che non sono i soli ad abitare la casa, non appena insomma lo spettatore riuscirà a dare un minimo di senso alle oscure (in senso sia metaforico che letterale) scene dell'incipit della pellicola, sarà attivato il suo "turning point" che trova origine, come detto, ben prima dei titoli di testa. Le domande che lo spettatore si era posto e che aveva momentaneamente sotterrato trovano una risposta; ma, ed è qui che il meccanismo elaborato da Amenábar dimostra tutta la propria efficienza, egli viene pilotato verso la scelta sbagliata: se la domanda è "chi sono gli intrusi?", la risposta non è, come ciascuno di noi avrà pensato, Victor, i suoi genitori e la vecchia medium, ovvero le presenze che spaventano e agitano Grace e i suoi due bambini, bensì proprio i tre protagonisti che non memori di essere morti, fantasmi loro stessi, sono spaventati da ciò che credono essere spiriti, spettri, creature dell'al di là. Lo straordinario finale-shock di The Others è solo il logico proseguimento di ciò che è iniziato a partire dal bivio interpretativo messo in atto dal "turning point": a partire da esso lo spettatore "al grado zero" sceglierà una chiave di lettura opposta a quella giusta (che per il momento è solo nella mente dell'autore) per poi scoprire nella stupefacente sequenza finale della seduta spiritica di esser stato gabbato, ingannato, giocato e dopo qualche attimo di smarrimento egli capisce che la sua non-comprensione, il suo spaesamento deriva dalla scelta di una "reading key" sbagliata. Sorpresa. Shock. Ribaltamento. Sostituzione della "reading key". Comprensione. Fascinazione. Ammirazione per l'autore. Un ultimo cenno meritano le strategie (dis)velatrici utilizzate dall'autore.
L'intera pellicola è pervasa da numerosi anche se pressoché impercettibili indizi che se colti e compresi potrebbero portare lo spettatore a disvelare cosa si nasconda dietro la formidabile impalcatura di senso costruita da essa. Senza togliere il gusto a ciascun lettore di individuare personalmente queste piccole tracce, basterà proporre un piccolo esempio che significativamente troviamo proprio in una delle primissime sequenze. Quando in scena compaiono per la prima volta la signora Mills, il signor Tattle e Linda (la giovane ragazza muta), i primi due, prima di presentarsi alla bella padrona di casa per essere assunti come personale di servizio, hanno un breve scambio di battute. Berta Mills chiede dove sia finito il signor Simpson all'anziano giardiniere che le risponde con una frase che in prima lettura può sembrare senza importanza, ma ad una seconda visione del film acquista grande significato: "sarà morto – replica Tattle – come tutti gli altri". Superfluo spiegare cosa si celi dietro queste parole apparentemente senza alcuna rilevanza, in realtà indizio (seppur molto lieve e nascosto) di ciò che vedremo dopo circa 95 minuti.
Quanto agli elementi che dovrebbero esser funzionali alla dis-trazione dello spettatore e al velamento dell'esatta comprensione, essi sono rintracciabili in tutti quegli aspetti che arricchiscono The Others: innanzitutto la malattia di cui sono affetti Nicholas e Ann, i quali essendo fortemente fotosensibili sono costretti a vivere, insieme alla madre, in un regime di semi-oscurità; l'immensa ed arcana dimora circondata dalla nebbia resa ancor più terrificante dalla penombra da cui sono avvolti i tre protagonisti; l'affascinante personaggio di Grace, che man mano scopriamo esser poco equilibrata sino a quando non ci viene svelato che è proprio lei ad esser stata l'artefice della propria morte e di quella dei suoi due figli (dopo essere impazzita li ha, infatti soffocati per poi suicidarsi a sua volta); infine gli altri personaggi: Berta, Tattle e Linda (che evidentemente nascondono un segreto) e il marito di Grace (che in verità, con la sua fugace e poco funzionale apparizione/sparizione ci sembra l'unico piccolo neo del film).
E' di sicuro singolare che le due opere maggiormente significative per il nostro discorso, seppur nate dalla fantasia di due autori lontani e diversi e prodotte a distanza di due stagioni cinematografiche, ruotino intorno allo stesso asse (quello vita-morte) e scelgano come protagonisti dei personaggi che sono morti (sono quindi una sorta di fantasmi), ma che non sanno di esserlo (ed è proprio a partire da tale scelta che si originerà il finale-shock ).
Mentre in The Others la fine dei protagonisti non ci viene mostrata (ma solo svelata nelle scene conclusive), The Sixth Sense si apre proprio con la morte del suo personaggio principale, l'affermato psicologo infantile Malcolm Crowe. L'abilità del regista sta proprio nel non farcela percepire come tale: il dottor Crowe sorprende un estraneo in casa che si rivela esser un suo ex-paziente il quale, dopo aver accusato il personaggio interpretato da Bruce Willis di non essere riuscito ad aiutarlo, gli spara con un colpo di pistola allo stomaco per poi porre fine ai propri tormenti. Dopo questa sequenza (in cui troviamo il "turning point" del film), Shyamalan, presentandoci il dottor Crowe su una panchina intento ad osservare un bambino che presumibilmente diventerà suo paziente, ci induce a pensare che questi in quella tragica serata sia stato solo ferito e che si sia adesso completamente ripreso. Lo spettatore, quindi, assisterà al resto della pellicola non sospettando mai che il suo protagonista in realtà è morto e quello che entra nella vita del piccolo Cole è un non-vivo, un fantasma che non sa di esserlo (proprio come Grace, Ann e Nicholas nell'opera di Amenábar).
Il meccanismo messo in moto a partire dalla sequenza iniziale si regge su una serie di strategie (dis)velatrici che, se sono presenti in quantità minore rispetto a The Others, si caratterizzano per una fortissima qualità, nel senso che esse sono indizi fortissimi di ciò che verrà scoperto dallo spettatore nel finale. Se si riflette o meglio se si rivede Il sesto senso ci si accorge che il dottor Crowe non interagisce mai con gli altri personaggi del film, eccezion fatta che per il bambino tormentato da quelle che sembrano terrificanti allucinazioni: si pensi alla scena del ristorante in cui la moglie non gli rivolge mai la parola se non per salutarlo senza guardarlo neanche negli occhi. Lo spettatore non è per niente sorpreso da questo comportamento poiché Crowe appena arrivato si scusa per il ritardo: dunque siamo portati a pensare che ella sia semplicemente infuriata con il marito che peraltro appare chiaramente colpevole di trascurarla da quando si occupa di Cole. Il "buon anniversario" con cui ella abbandona il tavolo non è pronunciato con tono polemico (come tutti noi leggiamo), ma con forte rimpianto (ella ha voluto ricordare ancora una volta quella data sebbene il suo amato Malcolm non ci sia più).
Ma è soprattutto una sequenza (una delle più intense del film) a testimoniare quanto l'autore si diverta a giocare come il gatto con il topo nei confronti dello spettatore: quando il piccolo Cole in una stanza d'ospedale confessa il suo angosciante segreto al dottor Crowe, in realtà egli sta suggerendo a questi e a noi spettatori la verità. Non a caso il "vedo la gente morta…loro non sanno di essere morti…vedono solo quello che vogliono vedere" pronunciato dal bambino ritornerà come un'eco nell'emozionante scena finale in cui il protagonista si rende conto (e noi con lui) di essere morto, di appartenere alla schiera di quella sorta di spettri che chiedono ad un bambino con un dono speciale di aiutarli a trovar pace. Anche in questo caso l'effetto-shock dell'epilogo è notevole. Anche in The Sixth Sense lo spettatore si rende conto di esser stato dirottato da un bravissimo regista su una chiave interpretativa errata, non esatta, quasi opposta. Anche qui non si può non applaudire l'abile lavoro dell'autore.
The Others e The Sixth Sense sono, come già detto, le opere più significative ed esemplari per la nostra analisi (ed è per questo che essa occupano uno spazio di rilievo in questo saggio), ma non mancano negli ultimi anni altre pellicole che hanno saputo avvicinarsi ad esse, seppur con risultati leggermente diversi per intensità e natura.
Vanilla Sky (2001): l'opzione sogno lucido
Il thriller, sin dalla sua comparsa in quanto tale, è il genere che più di ogni altro si presta a finali a sorpresa. Paradossalmente proprio da questa sua attitudine oramai consolidata consegue la difficoltà per questo tipo di film di generare quell'effetto-shock che distingue e caratterizza la "chiusa" di quelle opere che abbiamo analizzato sino ad ora. La spiegazione di ciò che potrebbe sembrare una contraddizione in termini ruota ancora una volta intorno a quei meccanismi che vengono attivati ogni qualvolta ci apprestiamo a visionare una pellicola: quando lo spettatore si prepara a vedere un thriller-movie, infatti, in virtù della propria esperienza intertestuale, si aspetta in ogni momento del film e in particolar modo nelle sue fasi conclusive di veder confutate le proprie certezze, di esser sorpreso e di assistere al classico colpo di scena. Volendo semplificare, l'impossibilità, o quantomeno la forte difficoltà, per il thriller, di generare un finale-shock consta nel doversi relazionare con uno spettatore che non sarà mai "al grado zero". Quando ci si sposta nel territorio incerto e indefinito dei cosiddetti psycho-thriller, il discorso può cambiare radicalmente.
È quanto accade in Vanilla Sky, un'opera molto interessante dal nostro punto di vista, che l'americano Cameron Crowe ha liberamente adattato sulla base di Apri gli occhi di Amenábar (che seppur indirettamente rientra, quindi, nel nostro discorso). Tutto il film, così come il suo finale, è centrato sulla sottile linea che separa la realtà dal sogno, la percezione del reale e l'immaginazione. E se in alcuni isolati passaggi si può rintracciare una leggera mancanza di limpidezza e chiarezza del congegno narrativo, nelle parti principali e ancor più in quelle risolutive il cineasta americano si preoccupa di tracciare bene questo flebile confine, con dei veri e propri chiarimenti che più che diretti a David (il protagonista del film), sembrano indirizzati allo spettatore. Far rientrare la conclusione di Vanilla Sky nel novero dei finali-shock sembra una scelta giusta e sbagliata ad un tempo: giusta perché è presente quel totale ribaltamento di prospettiva di cui si è ampiamente discusso, ma sbagliata perché in definitiva lo spettatore quasi non avverte alcuno shock. Il disvelamento finale, infatti, è troppo dilazionato, frammentato a piccole dosi per provocare una reazione di questo tipo.
In effetti, quando iniziamo a scoprire cosa si celi dietro le assurde vicende che coinvolgono il giovane miliardario David Aames mancano ancora 30 minuti (la quarta parte del film) alla sua conclusione. Il protagonista in seguito ad un incidente rimane sfigurato in volto. Lo troviamo all'inizio del film, intento a rievocare in una seduta in carcere con uno psicanalista quanto gli è accaduto. Il trauma provocatogli dall'incidente e le visioni che lo perseguitano lo hanno spinto ad uccidere Sofia, la donna di cui è innamorato, scambiandola per Julie (la sua compagna di letto che proprio perché gelosa di Sofia, si lancia con un'auto nel vuoto con David per dare la morte ad entrambi). Il lungo finale ci svela che, in realtà, dopo l'incidente, addolorato dalla perdita della donna che ama e incapace di accettarsi, David decide di firmare un contratto con la società Life Extension, con il quale ottiene di essere criogenizzato sino a quando non sia possibile rimediare a ciò che lo affligge e non gli consente di vivere serenamente. Ma la scelta da parte del protagonista dell'opzione "sogno lucido", fa sì che egli creda di vivere eventi e situazioni che in realtà sono solo la proiezione del proprio inconscio. Vanilla Sky, in definitiva, presenta tutte le caratteristiche del film (dis)velamento (il "turning point" è collocato a metà film nella scena in cui David, ubriaco si addormenta per strada dopo essersi lasciato freddamente con Sofia; "le strategie disvelatrci" si manifestano ad esempio nelle continue apparizioni del cane Ben nella pubblicità della Life Extension o nel confuso sogno ricorrente del protagonista), tuttavia esso è caratterizzato da un finale il cui effetto è attenuato, stemperato e limato da una lunghezza insolitamente estesa.
Fight Club (1999): veder doppio
Il quarto film di David Fincher conferma la perizia narrativa e la perfetta padronanza del mezzo che il regista californiano aveva dimostrato con Seven (1995). Fight Club è un'opera alquanto complessa che nei suoi 135 minuti di durata presenta numerosi spunti che meriterebbero ciascuno un'analisi dettagliata. Anche per questa pellicola, così come per Vanilla Sky, è necessario chiedersi se in essa sia realmente presente un finale-shock. Ancora una volta bisognerà rispondere affermativamente ma segnalando una percepibile anomalia: lo shock provocato dal film di Fincher è intensissimo ma esso non si verifica di certo nelle sequenze conclusive. Dal momento che la "reading key" giusta viene consegnata nelle mani dello spettatore anche qui in largo anticipo rispetto ai titoli di coda, appare lecito accostare i lavori di Crowe e Fincher.
Ma se il primo sceglie di dilazionare l'effetto-shock in circa 30 minuti di immagini che giungono sino al "the end", il secondo ci offre il disvelamento in pochi minuti, in modo compatto ed unitario per poi spostare l'attenzione su quella che costituisce la "chiusa" in senso proprio del film. Ed è proprio per questo che in Fight Club l'effetto-shock riesce a far vibrare violentemente le corde emotive dello spettatore e a non perdere quell'intensità che in Vanilla Sky sembra fortemente ridimensionata. Il meccanismo (dis)velativo di questa pellicola si relaziona direttamente con il tema del "doppio". Jack, un giovane americano depresso e desideroso di appartenenza riesce a risolvere i suoi problemi d'insonnia frequentando dei gruppi di terapia. Durante un viaggio di lavoro conosce Tyler (siamo al "turning point"), un individuo affascinante e misterioso con il quale crea il "fight club" dove è possibile sfogare la propria inquietudine massacrandosi a pugni nudi con un avversario. Ben presto Tyler trasformerà il "fight club" in una sorta di rete terroristica che combatte contro il sistema per poi sparire nel nulla. Nel tentativo di ritrovare l'amico, il protagonista si trova a dover accettare che in realtà questi non è altri che il suo alter ego: Tyler non esiste, è solo la proiezione in negativo del suo inconscio angosciato.
E' questo il momento in cui si dispiega l'effetto-shock in tutta la sua forza: Tyler stesso ci svela che i personaggi interpretati superbamente da Edward Norton e Brad Pitt sono la stessa persona. È come se lo spettatore fosse affetto da un disturbo visivo per buona parte del film: vede doppio non avendo perfettamente inquadrato e messo a fuoco il protagonista. Ciò che si segnala in quest'opera è la massiccia e frequente presenza di strategie (dis)velatrici che iniziano a manifestarsi anche prima del "turning point": Fincher si diverte con una vera e propria "chicca" tecnica ad inserire in alcuni fotogrammi la sagoma di Tyler accanto al protagonista (quasi un messaggio subliminale) prima che i due si siano immaginariamente incontrati. Ma sono soprattutto i dialoghi a costituire elementi potenzialmente (dis)velatrici: le parole che Jack e Marla (una ragazza conosciuta in un gruppo di terapia) si scambiano non toccano mai Tyler anche quando sembrerebbe più che necessario; la stessa Marla accusando Jack di un comportamento assurdo sembra volerci suggerire che qualcosa non quadra; spesso Tyler suggerisce al protagonista letteralmente cosa dire in determinate situazioni; i membri del "fight club", infine, si rivolgono con lo stesso appellativo a Tyler e a Jack.
eXistenZ (1999): la struttura a scatole cinesi
Se dovessimo eleggere un'immagine ad emblema del finale-shock di certo la scelta cadrebbe sull'emozionante primo piano della statua della libertà che compare nelle ultimissime sequenze de Il pianeta delle scimmie(1968). La sua potenza disvelativa e il groviglio di emozioni contrastanti che essa riesce a suscitare la fissano indelebilmente nella memoria dello spettatore. È poi significativo che essa rientri nel territorio della fantascienza, un genere che ha nello spiazzamento, nel ribaltamento, nella volontà di sorprendere il proprio fruitore le sue principali vocazioni. A tal proposito è interessante notare che negli ultimi anni il tema della realtà ipertecnologizzata in cui i confini tra realtà/simulazione, vero/falso diventano sempre più incerti e labili si è trasferito dalla letteratura ad una serie di produzioni cinematografiche che, da Matrix a Dark City, da The Truman Show a Il tredicesimo piano, hanno giocato a creare una rappresentazione "falsa" della realtà "vera".
In eXistenZ David Cronenberg utilizza il meccanismo della struttura a scatole cinesi per dimostrare la pervasività della realtà artificiale e l'ibridazione uomo-macchina che interessano la società contemporanea. Allegra Geller ha ideato eXistenZ, un gioco di realtà virtuale che attraverso un dispositivo viene collegato al sistema nervoso. Durante una dimostrazione pubblica, Ted Pikul la salva da un attentato e i due, entrati nel gioco, attraversano una serie di esperienze fittizie al termine delle quali viene svelato allo spettatore che in realtà tutto ciò che ha visto appartiene alla "realtà" di un altro gioco virtuale. Nell'opera di Cronenberg il "turning point" non esiste o meglio coincide con l'inizio del film: la deviazione su una chiave interpretativa inesatta viene operata in questo momento. Persino la presenza di "strategie (dis)velatrici" può esser messa in dubbio e il finale-shock si presenta quanto mai inaspettato trasformando per qualche istante lo spettatore nel Thomas Anderson di Matrix (1999) che apprende dalle labbra di Morpheus la sconvolgente rivelazione di aver abitato sino a quel momento una realtà fittizia e inesistente.