Mel Gibson
La Passione di Cristo: il film (dell’assenza) del giudizio
di Lorenzo Corvino
Con quasi assoluta certezza si può asserire che questo di Mel Gibson sia l'unico film della storia che può permettersi il lusso di non dover spiegare nulla, di non dover scendere nei dettagli della vicenda narrata, di non doversi porre alcuna questione relativa alla necessità di offrire allo spettatore un antefatto. Al punto che la Maddalena è onnipresente ma mai chiamata per nome senza che ciò risulti enigmatico per lo spettatore. Ma è anche, ovvio, un film in cui non si può per nulla sperare di racimolare consenso e interesse attraverso il finale, giocando le carte di un crescendo con climax che lasci basito chi guarda.
Ovviamente la figura del Cristo è qualcosa che ci appartiene in senso universale, poiché tutti, anche i non cristiani, la conoscono, se non altro perché vi è un calendario dominante su tutti gli altri che misura il tempo a partire proprio dalla nascita del Dio incarnato. E se di calendari ne esistono vari, nessuno obietterà almeno sul fatto che le ore del giorno sono misurate in numero di 24 in ogni parte del mondo, ossia due volte il numero cristico 12: secondo l'uso antico, prima ancora della misurazione cadenzata degli orologi, in 12 parti uguali si dividevano le tenebre così pure in 12 parti uguali il dì, al punto che le ore secondo tale regola variavano la loro durata effettiva di stagione in stagione, pur di rispettare il numero 12. Dinanzi a questo film, provinciale nella misura in cui solo una cultura extraterrestre non ne capirebbe la ragion d'essere cinematografica, lo spettatore – perlomeno quello che è nato negli ultimi quarant'anni – si trova, a ben vedere, per la prima volta al cinema (dopo L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese, che più che l'immedesimazione sfida chi guarda in termini di riflessione esistenziale), a pensare continuativamente per due ore piene all'uomo Gesù, a quel che Lui rappresenta, a quello che su di Lui gli hanno insegnato, a quello che si è giunti a opinare sul medesimo. Per 120 minuti, senza dunque soluzione di continuità, come appunto mai ci è capitato di fare, con molta probabilità.
I Messia visti in tv non contano poiché la visione casalinga non offre la stessa concentrazione del buio di una sala di fronte ad un grande schermo. Ciascuno di noi ha, sì, il suo modo di dialogare col Mistero supremo, di isolarsi in un'intima spiritualità, ma quanti di noi, laici, cristiani nella maggioranza e non praticanti, effettivamente hanno avuto prima del film di Gibson la costanza fortuita di stare due ore nette consecutive a pensare e ad immedesimarsi nell'unico uomo risorto, scaturigine di tutto un ripensamento occidentale della definizione/distinzione del Male e del Bene? Una funzione liturgica non dura che 50 minuti, o al massimo un'ora e trenta a Natale e a Pasqua.
Con questo – senza cadere, per carità, in blasfemie fuori luogo – si vuol notare che quanti hanno trovato coinvolgente e spiritualmente intenso il film di Gibson devono congratularsi con sé medesimi, poiché si sono accorti, o forse persino scoperti, più legati ed affezionati alla figura di Cristo di quanto essi stessi potevano supporre. E' l'apporto culturale sociologico e psicologico che ciascuno spettatore ha inconsapevolmente addizionato alle immagini ad aver fatto sì che uscendo si sentisse contrito e turbato. Infatti Gibson non ha alcun merito artistico, tanto più registico; tutt'al più produttivo: poiché, signori, questa Passione di Cristo non è un film, ma una sacra rappresentazione sotto le poco celate spoglie di un'operazione del tutto commerciale che addirittura potrebbe autorizzare chiunque a considerare, senza tema, quanto visto finanche immorale sul piano delle intenzioni. Di sicuro immorale sul piano estetico.
Trattare Cristo come un qualsiasi eroe da Gladiatore o da Signore degli anelli, o addirittura da Terminator (finale degno di T2: il giorno del giudizio) significa non idealizzarlo secondo una concezione evangelica, bensì distruggere secoli di spiritualità iconografica, di quanti tra pittori e scultori hanno cercato di rendere la bellezza morale e spirituale di Gesù, uomo e Dio, comunicabile ai più tramite un'immagine, un'icona, una statua o un bassorilievo, dovendo lottare contro quanti erano pronti ad avanzare pretese di feticismo e idolatria, sempre in bilico tra rivoluzionaria visione del Sacro e condanna istituzionale per eresia. E' molto più impressionante la scelta di Michelangelo di rappresentare la Vergine della Pietà come una giovane donna, anziché come la madre di un trentenne, per rendere l'idea di bellezza assoluta in cui si incarna la santità, e anche per esternare la perfezione di un paradosso inumano in cui la madre è al contempo genitrice e figlia del suo stesso sangue; …piuttosto che i tanti slow motion di Gibson esibiti in occasione di passi celebri, di fatto così rilevati come vere e proprie didascalie delle Sacre Scritture. E non credo che basti invertire i termini "michelangioleschi" giovane/vecchio, neppure fossero fattori intercambiabili, per ottenere lo stesso risultato: come ad esempio scegliere di raffigurare il diavolo quale una giovane donna che regge in braccio un bambino dal volto di vecchio.
E' proprio da questa secolare disputa sul rapporto tra Arte e Religione che siamo arrivati ad elaborare l'idea di indipendenza dell'artista nell'offrire il suo punto di vista sulle cose, la sua personale visione del mondo, come affermazione innanzitutto di libertà di pensiero, proprio come Cristo insegnava ai suoi contemporanei incoraggiando la disponibilità alla diatriba critica, alla ridiscussione di quanto si è imparato, scegliendo di amare se è questo quel che si sente dentro, e messaggi rivoluzionari consimili. Ebbene, tale acutezza di spirito critico viene azzerata paradossalmente all'interno di un film che affronta, con una disinvoltura imbarazzante, il rivoluzionario solitario e disarmato per eccellenza, come se fosse l'ultimo eroe da fumetto arrivato sugli schermi. Non direi male di tale prospettiva fumettistica se essa scaturisse da una scelta, e come tale, per l'appunto, d'autore: si vuole trattare Cristo come un Superman ante litteram poiché solo così gli adolescenti statunitensi mediocremente incolti saprebbero percepire i di lui precetti.
Ma siccome il film è evidentemente e intenzionalmente concepito per essere Alto, Colossale, Imperativo e Rigoroso come chi vuol fare un film che raggiunge certi apici e poi ammazza il genere, allora ecco che il tonfo è altrettanto clamoroso. Dunque è l'assenza di un punto di vista che fa sì che questo Cristo diventi una marionetta in mano agli imponenti mezzi produttivi imbastiti. Indubbiamente non mancano i lati positivi quali l'intensa espressività della Madonna, inversamente proporzionale all'artificiosità della Bellucci-Maddalena (scandalosamente inserita per prima nei titoli di coda, seconda solo al nome dell'attore che interpreta Cristo – Jim Caviezel, già protagonista de La sottile linea rossa nel ruolo del soldato pacifista Witt), o la scelta originale ed interessante – ma che in questo contesto/contenitore scade nell'effetto promozionale – di scegliere le lingue antiche per una rappresentazione che ha i parametri della tragedia greca nelle unità di tempo, luogo e azione.
Un film, in definitiva, che nasce dall'insieme delle risposte a certe domande che in una sala riunioni alcuni produttori si sono dati: cosa non è stato ancora mostrato di Cristo? (…le torture subite…); quali momenti per carenze di mezzi sono stati sino ad ora relegati nel fuoricampo? (…ancora le torture…e la crocifissione…la mano bucata dal chiodo al punto da potervi vedere attraverso…); quale altro elemento realistico è stato tralasciato? (…la parlata in latino dei Romani…).
Dunque è proprio cinematograficamente che il film è carente, benché faccia discutere su tanti altri aspetti. A mio parere risulta interessante la prospettiva che emerge di un Cristo condotto alla morte da poco più di qualche centinaio di ebrei, i quali in una normale mattina come tante altre in Galilea disturbano la quiete del governatore e degli altri Romani perché convinti che il Nazareno sia una minaccia se continua a dirsi figlio di Dio. Se condannarlo a morte serve a riportare la quiete in quella mattinata in Galilea, perché non accontentarli?
…Quando invece guardando film come Ben-Hur si vede una folla sterminata incitare alla crocifissione, neanche fosse l'intera regione a mobilitare tale evento. Proprio le tappe del processo sono le più dialettiche e interessanti, tali da indurre il pubblico a pensare che ci fossero addirittura gli spiragli perché Cristo non fosse condannato a morte, e a sperare che ci sia ancora un'alternativa possibile….
Tuttavia forse un punto di vista nel film emerge: probabilmente esso non è voluto, pare capitato lì per puro caso di sceneggiatura: ha a che vedere col personaggio di Giuda, il quale viene ad essere trattato con più comprensione del solito da Gibson&Co. Infatti, Giuda dalla sera alla mattina è ossessionato dal rimorso tramite visioni ultramondane da incubo. Ora accade che il suo suicidio viene, per come il film sceglie di motivarlo, a consumarsi non soltanto a causa dell'incapacità di sopportare il rimorso, ma anche perché vicino all'albero al quale s'impiccherà egli trova una belva in putrefazione con una corda avviluppata intorno.
La corda la userà per il cappio, ma è quella visione terrena, e non diabolica, di un pezzo di carne lasciato solo a decomporsi, pochi istanti prima ancora vivo e respirante, che si offre agli occhi di Giuda come una metafora di Gesù, a commuoverlo, e dunque a farlo pentire per il tradimento. Quindi il suicidio come espiazione. Nei Vangeli non viene data questa lettura psicologica dell'episodio, tanto che la Chiesa ancora oggi non perdona Giuda proprio perché teologicamente Giuda è un suicida per rimorso e non per pentimento. Il film di Gibson sembra vertere per il pentimento. Dunque attraverso un espediente di sceneggiatura (…come dare l'occasione a Giuda perché impulsivamente opti per la morte da sé indotta?...), teso a giustificare in chiave realistica la circostanza di un gesto, viene davvero offertoci nel film un punto di vista.
Ma questa fortuita autorialità non fa che comprovare ulteriormente l'assenza di essa per tutto il resto della rappresentazione. Anche Cristo è oggetto di un'abbozzata indagine psicologica: i suoi flashback svolgono la funzione di un Cristo umanissimo che come ogni uomo vive gli attimi di solitudine con se stesso rintanandosi nelle associazioni di idee offerte da spunti contingenti, i quali aprono istanti di passato al solo richiamo di un dettaglio.
Insomma sprazzi di lucidità registica e orchestrale che si perdono purtroppo nel cattivo gusto di sequenze roboanti e intuitivamente scontate. Quello che poteva essere un film del giudizio, peccato!, non è stato. Matera può star serena: un giorno tornerà lì un regista che tra quelle rocce girerà ancora, cercando di Cristo le tracce. Poiché, di grazia, il genere non è affatto morto, anzi, dopo tale occasion persa, viene di più la voglia di farlo risorgere.