Ultimi fuochi della nostalgia: intorno a Open Range di Kevin Costner
di Fabio Pezzetti Tonion
Il cinema è l'arte del presente. E se la nostalgia quasi non lo sfiora, è la malinconia la sua immediata controfigura.
(Serge Daney)
Ci rendemmo improvvisamente conto che ormai non vi era più frontiera.
(Frank Norris)
Lo sguardo e la visione sono i due poli – apparentemente la stessa faccia di quella medaglia chiamata cinema – tra cui Open Range si muove, sollevando la questione che bisogna avere il coraggio di porsi: ha ancora un senso, oggi, il western? Franco La Polla, nell'ormai classico Il nuovo cinema americano 1967-1975 (1), individua alcuni dei caratteri più rappresentativi di quella che la storiografia cinematografica identifica comunemente con la New Hollywood. Senza addentrarci in un discorso specifico che altro non farebbe che ripetere in maniera sterile e poco produttiva le tesi sostenute da La Polla, vogliamo sottolineare come in quello studio vengano individuate, isolate ed analizzate componenti di quel modo di fare cinema ( e di quello sguardo sul mondo e sul cinema) che, nella volontà di rilevare delle costanti di ispirazione, si definiscono poetiche: termine che, per meglio definire gli sbocchi di un cinema che si muoveva lungo traiettorie differenti e divergenti, viene declinato in una varietà di modi che portano a parlare di poetiche dell'iperrealismo, della violenza e della nostalgia.
È proprio attraverso queste ultime che possiamo – in buona sostanza – leggere gran parte dell'evoluzione del cinema hollywoodiano a partire dal tramonto dei grandi studios, ovvero dal momento in cui la crisi rivela la necessità di ritrovare un collegamento non fittizio con il passato. Se la nostalgia diventa lo strumento con cui è possibile penetrare la cultura di un Paese non è semplicemente in virtù di uno sguardo che, scosso dall'attualità, si volge indietro per riconquistare una condizione edenica rappresentata dalla "civiltà che ci si è lasciati alle spalle" (2), quanto piuttosto perché la nostalgia rappresenta lo statuto fondativo della cultura americana e "viene a prendere il posto che non vi ha mai occupato, per ovvie ragioni, la tradizione" (3).
La nostalgia diventa allora il mezzo con cui osservare il presente tenendo a mente il portato storico, culturale (e cinematografico) del passato (4), il mezzo che attraverso una radicale "fuga retrospettiva sguardo" permette di fare fronte alle inevitabili crisi della fine di un'epoca: in questo senso, se il cinema hollywoodiano ha accettato il portato di una nuova generazione di registi formatisi attraverso l'entusiastica riflessione sul passato (del cinema) e ha trovato nuova linfa per rinnovare apparentemente le proprie strutture (5), nella (ri)definizione dei generi classici ha visto – inevitabilmente – lo specchio della propria decadenza.
Il western (che ancor prima di essere genere è forma di pensiero) diviene lo spazio (6) in cui si manifesta la tangibile epifania di un declino che – da sempre – era cronaca annunciata: l'inquietudine di un senso incombente di fine (o almeno di un cambiamento talmente radicale da apparire come una morte senza possibilità di rinascita) trova il suo calco nella fine del mito della frontiera, attraverso la ridefinizione dei canoni e dei topoi di un genere che già si era trasformato in maniera evidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Infatti, se il western pre-bellico è un genere canonizzante che, attraverso un processo mitopoietico, definisce ed attualizza i valori di un Paese, dopo la guerra – quando omai le sue strutture sono fortemente consolidate – diventa mezzo attraverso il quale fare anche un discorso altro: cifra metafisica di una condizione umana segnata dalla fragilità e dalla consapevolezza angosciosa di un senso di finitudine, amplificato nello scenario immenso di una natura che si fa specchio selvaggio in cui l'uomo riconosce l'inevitabilità del proprio annullamento (7).
I western che sono venuti dopo la grande epoca aurea del genere – senza raggiungere la profondità della riflessione di Anthony Mann, che forse è l'autore che più di ogni altro con incisività e forza ridefinisce le regole dello sguardo su un orizzonte perduto – si costruiscono sulla messa in scena della fine del mondo che descrivono (8), fino ad arrivare all'esempio estremo di Don Siegel che con The Shootist (Il pistolero, 1976) appone il sigillo definitivo ad un'epoca (e ad un'epopea) irripetibile.
E proprio il film di Siegel può essere il punto di partenza per Open Range (Terra di confine, 2003): la parentela che si instaura tra i due film è forte e non nasce tanto da questioni stilistiche, quanto piuttosto dalla necessità di uno sguardo disincantato ma partecipe su un'epoca ormai passata.
Alla sua terza regia (9) Kevin Costner prosegue in solitaria il recupero della forma-western all'interno di un contesto produttivo che sembra ormai non offrire molto più credito a quello che un tempo André Bazin poteva definire "il cinema americano per eccellenza": dopo la riflessione crepuscolare sul genere avvenuta negli anni Settanta, il decennio successivo ha tentato di ravvivare il western, puntando alla ridefinizione di canoni spettacolari e di fondamenta solide e nuove.
L'esperimento – nonostante alcuni film interessanti come Silverado (Id., 1985) – è sostanzialmente fallito, trascinando il genere nell'archeologia filmica, a cui appellarsi per ibridazioni modaiole di taglio post-moderno. Costner, fin dall'esordio di Dances With Wolves (Balla coi lupi, 1990) ha cercato una strada altra, meno battuta e più rischiosa (10). Ora, tredici anni dopo il film che lo ha lanciato e che ancora incombe come una spada di Damocle sulla sua carriera di regista, Costner entra di diritto in quella zona del cinema americano a cui (ormai da anni) solo registi come Eastwood e Penn osano avvicinarsi, precipitando nel nero di contraddizioni di cui hanno il coraggio di mostrare il cuore pulsante. Costner non lavora sulla contemporaneità, ma legge nel passato le condizioni di discrepanza rispetto all'orizzonte etico odierno: Boss Spierman e Charley Waite – silenziosi amici in cui risuona l'eco di un legame padre-figlio – sono ciò che rimane di un mondo di valori disgregati dalla penetrazione della civiltà (la città, i confini del ranch in opposizione agli spazi aperti e, in ultima analisi, tutto ciò che definisce una chiusura rispetto ad un orizzonte di apertura). Se il finale sembra positivo – per soddisfare convenzioni narrative, ma anche perché non poteva essere altrimenti – in filigrana contiene tutta l'amarezza di una conciliazione che non lenisce una perdita, un vuoto: la frontiera ed i suoi valori sono finiti, così come gli uomini che hanno fatto e superato quella frontiera. Ciò che resta è solo estrema solitudine.
La riflessione sul linguaggio classico ereditata da padri nobili come Hawks e Ford si stempera in una pura visione abbandonata dal cinismo, in cui la ricerca e l'affermazione della propria di dignità diventa l'architrave di un cinema profondamente umano: un cinema di compassione, nel senso migliore del termine, mosso dalla volontà di sentire i personaggi, di patire con loro. L'inquadratura di apertura del film – che con un fluido movimento di macchina passa da un totale su una mandria di bovini in marcia in una verde vallata su cui incombono le ombre di un temporale alle figure a cavallo di Boss Spearman e di Charley Waite – ci riempie gli occhi dell'Hawks di Red River (Il fiume rosso, 1948); anche la lunga, splendida sequenza della sfida nella "città morta" (ovvero una città che ha deciso di arrendersi senza combattere allo strapotere del cattle king, per avere – alla fine – un guizzo di dignità che le fa rialzare la testa) rievoca, nell'asciuttezza di una mise en scène di rara incisività drammatica, i momenti migliori di un altro grande duello western, quello di Rio Bravo (Un dollaro d'onore, 1959). Si tratta indubbiamente di un altro omaggio a Hawks – che è il referente principale anche per ciò che concerne la tematica dell'amicizia virile e dell'onestà – che non mette però in ombra il riferimento a John Ford, che rimane il rimando obbligato vuoi per il lavoro sugli spazi (sia quelli aperti, sia quelli chiusi della città) vuoi per la dimensione morale (11) che permea ogni istante di questo film che cerca con coraggio la rifondazione di un'etica della visione a scapito di quella – senz'altro più lucrativa – dello spettacolo.
Visione e non spettacolo, perché è la visione ad essere spettacolo e tutto il resto è imbarazzante orpello ed appendice che nulla aggiunge alla volontà di recupero delle forme classiche, che è volontà di confrontarsi con una narrazione che si srotola piana nell'evidenza logica del susseguirsi delle situazioni, definendosi nella forza strutturale del plot ma, al tempo stesso, lavorando sugli spazi del tempo. Di più, lavorando all'interno di questi spazi: creando, quasi fosse una prima volta, in uno statuto di (ri)fondazione dell'immagine-tempo, il momento in cui l'occhio non diventa solo strumento principe dello sguardo, ma si fa organo capace di percepire ed apprezzare il tempo.
Il tempo dilatato e sospeso (12), lontano da quello frenetico che gioca subdolamente sulla distorsione della percezione spettatoriale che nel flusso ininterrotto di immagini veloci ed ubriacanti si perde in un'ebbrezza che smarrisce lo sguardo sulla superficie delle immagini e dei sentimenti, è la cifra stilistica di questo film; è il lavoro sull'istante-emozione che si amplifica nel suo perdurare, in un tempo che osa manifestare la sua durata (la durezza della sua durata): l'emozione della temporalità finalmente riconquistata dal cinema, la possibilità infine data di percorrere lo spazio ed i corpi che in quello spazio si riflettono, che dagli spazi sono vissuti, sferzati (l'acqua, la tanta acqua, il temporale che spazza tutta la prima parte del film) e che, infine, si confondono in essi. Open Range allora diventa un film non di attori, ma di spazi inglobanti il tutto: spazi che si sporgono dallo schermo per manifestare la propria tangibile presenza, per affermare, nel qui ed ora della visione, la materialità del cinema: Open Range è corpo cinematografico che vede, che è sguardo.
Lo sguardo sul passato si attualizza allora nella riproposizione di una temporalità altra, differente ed opposta rispetto a quella declinata dal cinema contemporaneo: la visione passa attraverso il tempo, si dà nel tempo, esiste nel tempo. La nostalgia non sta nel fare un film di genere quando questo ha ormai sparato tutte le sue cartucce. Non sta nemmeno nella citazione consapevole di autori e pietre miliari del western. La nostalgia è la possibilità di usare il tempo del film/cinema come salto all'indietro che si attualizza nel presente della visione: la nostalgia in ultima analisi è il vedere ora, con gli occhi di ieri, quello che è stato.
Il cinema di Costner è cinema dello sguardo (cinema che rifonda lo statuto primigenio meravigliato/meraviglioso della visione) perché accetta in toto la necessità di vincolare quest'ultima ad una temporalità vitale: la macchina da presa ha una dignità umana ed umanizza il suo sguardo sul mondo e, nella nostalgia sempre evidente ma mai gridata che stempera un dolce/amaro furore, afferma che il cinema, dopo il passato che vive nel presente, ha ancora un futuro.
(1) Franco La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975, Venezia, Marsilio, 1985.
(2) Franco La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975… cit., p. 134.
(3) Ivi, p. 135.
(4) Non si può non notare come, in questo senso, ogni epoca sia stata nostalgica. Il cercare di leggere i fenomeni del presente utilizzando gli strumenti del passato rappresenta – se non una distorsione della realtà – almeno l'incapacità di adeguarsi alla realtà.
(5) Lavorando in una prospettiva di adeguamento dei vecchi canoni che, se cambiano esteriormente, rimangono profondamente identici nella sostanza.
(6) Non solo metaforicamente. Lo spazio del western è per sua natura legato al cambiamento portato dalla penetrazione della civiltà: il confronto/scontro wilderness-civilisation (fondativo per la cultura statunitense) trova naturalmente nell'affermarsi della civiltà il suo punto di arrivo. Un punto di arrivo che diviene problematico nel momento stesso in cui viene raggiunto, ovvero nel momento stesso in cui i valori "tradizionali" che hanno permesso di pervenire a quel traguardo diventano superati e vengono sostituiti da nuovi bisogni.
(7) Si veda ad esempio The Naked Spur (Lo sperone nudo, 1953) di Anthony Mann: l'estrema sintesi della messa in scena, l'uso degli spazi che diventano un luogo mentale prima ancora che fisico, fanno di questo film una delle espressioni più evidenti del mutato clima in cui si muove un genere estremamente codificato come il western. Oppure si consideri un regista come Budd Boetticher, il quale propone nei suoi film una stereotipizzazione delle soluzioni canoniche del genere che, lontano dall'esaurirsi in se stesse, diventano stasi, momento di "congelamento" di un'epica ormai svuotata di senso in cui gli uomini nient'altro sono che burattini animati da una volontà fittizia.
(8) Da questo punto di vista appare decisivo il portato di Sam Peckinpah, forse il massimo teorico della revisione del western, che nelle sue mani diventa l'emblema di un crepuscolo storico, umano e morale.
(9) Si tratterebbe in realtà della quarta volta che l'attore passa dietro la macchina da presa se si tiene conto – oltre che di Dances With Wolves (Balla coi lupi, 1990) e di The Postman (L'uomo del giorno dopo, 1997) – anche della co-regia non accreditata di Waterworld (Id., 1995).
(10) Si tenga presente come il film non riuscisse a trovare finanziamenti: per la politica degli studios il western aveva ormai fatto il suo tempo ed era inconcepibile la realizzazione di un film parlato in una delle lingue della nazione Sioux.
(11) Morale e non moralista. Anche in questo senso Costner si oppone in maniera piuttosto radicale ad una pratica ideologica che permea il cinema mainstream americano.
(12) Una sospensione del tempo – si noti bene – ben diversa dalla dilatazione parossistica operata da Leone nelle sequenze di gunsfight.