Sulle tracce di Joseph Conrad: il Cuore di tenebra del folle Aguirre.
di Mattia Plazio
Heart of darkness, ovvero il "margine di tenebra" che si nasconde sotto le superfici dell'animo umano, volto oscuro della sua coscienza, discesa nei meandri di ciò che dentro di noi è ignoto a noi stessi. Ma anche allontanamento da un ordine razionale soltanto presunto, il quale procede ad interpretare la realtà e a darle significato attraverso categorie universali, dividendo con l'accetta Bene/Male, Giusto/Ingiusto, e ritorno ad uno stadio animale, selvaggio, pre-civile, a-morale. Cuore di tenebra è questo e molto altro. Si tratta senza dubbio di uno dei racconti che meglio testimoniano il passaggio verso ciò che comunemente viene definita la modernità, in quanto epoca della "confusione" e dell'affrancamento da un insieme di valori non più ritenuti come immutabili, e che con maggior vigore sottolinea l'innata propensione al Caos dell'essere umano, il fascino irresistibile che da sempre esso ha esercitato su di lui e che troverà poi la sua massima espressione nei due conflitti mondiali che da lì a breve insanguineranno tutto il mondo.
Racconto d'avventura, diario di viaggio, poema metafisico, il capolavoro di Conrad ha variamente esercitato un fascino irresistibile sul mondo della Settima Arte (1), la quale non ha quasi mai avuto il "coraggio" (fatta eccezione per il poco ispirato Cuore di tenebra di Nicolas Roeg del 1993) di confrontarsi direttamente con il tentacolare testo conradiano, ma che tuttavia di quel testo ha interiorizzato spesso atmosfere, temi e inquietudini arrivando - per vie traverse - a far comunque sua la "lezione" dell'autore polacco. Non si può prescindere, in questo contesto, dal ricordare quanto stretti siano infatti i legami che "vincolano" un'opera come Apocalypse now (id., 1979) al racconto di Joseph Conrad, un debito certamente innegabile sia da un punto di vista simbolico-tematico, sia da uno più strettamente narrativo, ma rispetto al quale tuttavia la critica si è spesso divisa, pur riconoscendone in parte la validità.
La vasta letteratura nata intorno al film del regista americano e ai suoi rapporti con Heart of darkness ci spinge tuttavia a "superare" il kolossal coppoliano per fare un passo indietro nel tempo e concentrare invece la nostra attenzione su un'opera per molti aspetti tanto distante dal testo di riferimento (soprattutto se confrontato, appunto, con Apocalypse now), quanto profondamente vicina al tessuto di senso che pervade il breve romanzo conradiano. Sto parlando di Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972) di Werner Herzog, opera nella quale è possibile riscontrare la presenza di tutta una serie di elementi tematici e figure di testo che rimandano più o meno esplicitamente al racconto dell'autore polacco, il quale proprio per questo può ancora una volta fungere da importante chiave di lettura.
È di nuovo all'universo squisitamente simbolico di Heart of darkness - in quanto rappresentazione di un uomo prigioniero di un proprio progetto ambizioso e folle, preda della contraddizione di voler imporre al mondo un nuovo ordine con i mezzi atroci che la civiltà da cui vorrebbe separarsi pure gli fornisce (2) - che è necessario guardare se si vogliono riportare alla luce gli aspetti principali che accomunano due "testi" i quali presentano invece a livello narratologico più differenze che analogie. Dalla discrepanza delle coordinate spazio-temporali, passando per la totale assenza, nel film herzoghiano, di una benché minima cornice narrativa e per la conseguente eliminazione di un personaggio che in qualche modo "faccia le veci" del narratore/Marlow (figura/cardine del romanzo di Conrad) per arrivare infine allo "slittamento" di ciò che potremmo definire l'oggetto del desiderio - il colonnello Kurtz da una parte, la mitica città di ElDorado dall'altra -, tutto sembra indicare che ci troviamo di fronte a due testi che apparentemente nulla hanno a che fare l'uno con l'altro. Tuttavia ciò che interessa qui non è esaminare il rapporto tra romanzo e film partendo dalla dimensione della narratività, ovvero dall'analisi di quei codici narrativi, appunto (la famosa dialettica storia/discorso), il cui modello analitico è stato proposto ai tempi dalla scuola strutturalista di Roland Barthes, Gérard Genette e Tzvetan Todorov.
La prospettiva da cui ci si pone è quella che mira piuttosto alla struttura di senso dell'opera, ad individuare cioè quegli elementi profondi (o simboli se vogliamo) che soggiacciono alla superficie del testo e la cui analisi permette di ravvisare un denominatore comune alle due opere. Già, perché Aguirre, furore di Dio e Cuore di tenebra sono figli di un medesimo discorso sulla realtà, di una stessa condanna, seppur ambigua e piena di contraddizioni, nei confronti dell'agire umano osservato in un contesto-limite quale la guerra di colonizzazione. E non è un caso allora che i due testi siano in qualche modo "attraversati" dagli stessi simboli, dalle stesse immagini e figure le quali rimandano univocamente alla rappresentazione ideale di una sconfitta prima di tutto individuale, ma che si fa poi inevitabilmente universale nel suo coinvolgere un intero sistema di valori.
Il "folle" viaggio del conquistatore Aguirre sul fiume Urubamba - nel cuore della foresta amazzonica (allora regno dell'ignoto) - e la progressiva "fascinazione" esercitata su di lui dal contatto con la potenza della wilderness - è in un certo senso assimilabile al percorso compiuto da Marlow/Kurtz (3) nelle terre ancora "vergini" del Congo belga, su un fiume "molto grande, somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare, il corpo in riposo e la coda perduta nelle profondità del territorio"(4). Si tratta in entrambi i casi di un'avventura reale che si configura però come viaggio iniziatico, di allontanamento progressivo dall'ambiguità della morale costituita. Un percorso che, attraverso l'imbarbarimento di coloro che avrebbero dovuto portare la luce della civiltà nel cuore della tenebra, finisce per svelare la contraddittorietà di un sistema che se da un lato non si fa scrupoli nel far uso di mezzi atroci e violenti per raggiungere i propri scopi, dall'altro non esita a condannare chi oltrepassa i limiti consentiti senza nascondersi dietro il paravento della "civilizzazione illuminata".
Sì perché l'avventura di Don Lope de Aguirre, tanto quanto quella di Marlow/Kurtz, diventa non solo il simbolo della caduta dell'impero di una ragione contraddittoria che tutto regola e definisce in modo assoluto (imperialismo e razzismo vengono qui sublimati nell'abito razionale), ma assurge anche a rappresentazione concreta e ideale della sconfitta dell'uomo bianco al cospetto di una Natura (regno del caos) silenziosa, ma sinistramente violenta nei confronti di coloro che ne infrangono le leggi più intime e profonde.
Da un esame più attento delle due opere emerge, infatti, il ruolo centrale che proprio la Natura, nelle sue forme più eterogenee, viene inevitabilmente ad assumere. Una Natura viva, animata, che "pulsa" sprigionando tutta la sua potenza e la cui azione disturbatrice ostacola quella dei due protagonisti che finiscono per esserne inghiottiti, trasformandosi di fatto in un suo prodotto, in "selvaggi". La foresta, nella sua inquietante impenetrabilità, e il fiume, con le sue acque torbide, scure, e il suo incedere lento e sinuoso, sono entrambe figure che invadono a più riprese la scena, contribuendo a creare quell'atmosfera cupa e incerta che è poi la cifra stilistica del racconto di Conrad e del film di Herzog. La morte sembra essere dietro ogni singola ansa dell'immenso fiume che le due imbarcazioni percorrono con grande lentezza, materializzandosi poi come per magia nelle frecce che misteriosamente "sconfinano" dal buio della foresta o nella malattia che colpisce e inquina la mente dei conquistatori a contatto con ciò che non riescono a comprendere e a controllare, ma di cui scorgono l'immensità, rimanendone affascinati.
Si tratta insomma di una discesa agli inferi, di un doppio percorso, individuale e universale, che condurrà i due diversi protagonisti dal sogno di onnipotenza e di dominio alla follia e poi alla morte, e la moderna civiltà occidentale a specchiarsi nelle storture e nelle aberrazioni del proprio sistema di leggi e valori, della propria ideologia, di un sapere e una morale che si impongono come assoluti, ma che sono costretti a piegarsi di fronte al silenzio e alla tenacia di una terra primigenia, brutale e selvaggia. Una discesa agli inferi che lo scrittore Conrad e il cineasta Herzog rappresentano per mezzo di uno stile che sembra richiamarsi vicendevolmente. Contrariamente a quelle che, sette anni più tardi, saranno le scelte formali adottate da un Francis Ford Coppola, il quale tradurrà la violenza della guerra tecnologica attraverso un ritmo concitato e un efficace - quanto coinvolgente - "barocchismo" fatto di suoni e immagini caratterizzate da una forte tendenza al superamento spettacolare della realtà, Werner Herzog, più come frutto di scelte personali che non come reale volontà di aderenza al testo (peraltro mai citato come fonte in alcuna intervista), sembra invece riuscire nel difficile intento di tradurre idealmente dalla pagina scritta allo schermo quello stile "pacato" così facilmente riconoscibile nel racconto conradiano. In Aguirre, furore di dio, tanto quanto in Cuore di tenebra, le azioni dei conquistatori bianchi sono azioni stanche, indebolite dal caldo e dall'umidità: tutto è avvolto da un misterioso torpore, da una calma piatta, dal silenzio di una natura immobile e perversa che è poi il silenzio e il muto dolore che accompagna la morte dei conquistati.

La crociata contro la Kultur occidentale e la "razionale" violenza della sua politica coloniale (qui quella della corona spagnola nelle Americhe, là quella del governo belga in Congo), il viaggio attraverso un fiume immenso che investe la "scena", ipnotizzando l'uomo con il suo fragore ininterrotto e furente, l'incontro/scontro dell'uomo bianco con la wilderness e la sua conseguente regressione ad uno stato primigenio, animale e selvaggio, la foresta sinistra e silenziosa, simbolo della darkness, ovvero di una Natura mortifera e labirintica, la quale avvolge e inghiotte tutti coloro che hanno osato violare le sue leggi. Tutto sembra confermare l'esistenza di un affascinante filo rosso che unisce queste due opere così distanti fra loro nel tempo e soprattutto due autori che, nonostante l'intrinseca diversità, presentano una sensibilità e un carattere sorprendentemente affini.
(1) Basti pensare all'affascinante progetto di una trasposizione del racconto conradiano, purtroppo mai concretizzatasi, ad opera del grande Orson Welles, il quale nel 1939 - agli albori della sua carriera di cineasta - decise che il suo primo confronto con il cinema sarebbe stato giocato proprio sui materiali strettamente letterari di Cuore di tenebra, romanzo che su di lui esercitò sempre una fortissima attrazione. Per ogni riferimento si rimanda a: Marco Salotti, Orson Welles, Le Mani Editore, 1995, pp. 17-22
(2) Paolo Sirianni, Il cinema di Werner Herzog, Libero Scambio Editore, 1980, pp. 48-49
(3) Il personaggio herzoghiano di Don Lope de Aguirre rappresenta, nonostante le ovvie e dovute differenze, una sorta di "sintesi" delle due figure conradiane, le quali anche nel romanzo finiscono per incarnare l'uno il "doppio" dell'altro. Il viaggio che Marlow compie sul fiume, la "penetrazione" all'interno di un mondo sconosciuto e terribile, ma ricco di fascino, la sua progressiva presa di coscienza che in realtà è una graduale perdita di sé, non sono che la riproposizione differita dell'esperienza di cui il colonnello Kurtz è stato protagonista poco tempo prima.
(4) Joseph Conrad, Heart of darkness, Ugo Mursia Editore, 1978, p. 35