Il colore dei soldi: la controversia sulla colorizzazione e altre storie
di Francesco Paolo Di Salvia
If you're going to colorize
Casablanca, why not put arms
on the Venus de Milo?

(Stephen Bogart, figlio di Humphrey Bogart)
Il 14 aprile 1994, lungo l'intero territorio americano, hanno inizio le trasmissioni del canale via cavo TCM, Turner Classic Movies. Il proprietario del network è il magnate dell'editoria televisiva Ted Turner, detentore, all'epoca dei fatti, di un'enorme fetta di etere a stelle e strisce. Il motto del nuovo canale a pagamento è conciso e diretto: "uninterrupted, uncolorized and commercial-free!". Film senza intervalli pubblicitari, dunque, e "non colorizzati". Un annuncio, questo, che fa scandalo, considerando i trascorsi (nemmeno troppo lontani) di Ted Turner.
Ma prima di passare alla dietrologia, è importante spiegare in cosa consiste un film colorizzato. Un film colorizzato non è altro che un lungometraggio realizzato prima dell'avvento del Technicolor (o quando questo era ancora troppo costoso o, più semplicemente, girato per scelta personale senza l'apporto di tecnologie più moderne), la cui fotografia viene alterata con dei colori addizionati artificialmente. La pellicola in bianco e nero (b/n), utilizzata per girare il film, viene sottoposta a un procedimento, effettuato tramite uno speciale computer, capace di assegnare dei colori predeterminati a ogni sfumatura di grigio, sovrimponendo la nuova tonalità all'immagine monocromatica preesistente. Il progetto originale risale agli anni settanta (opera dei canadesi Wilson Markle e Brian Hunt, le cui istanze creative confluiranno nella società denominata Colorization Inc.), ma bisogna aspettare gli anni ottanta perché il sistema di colorizzazione via-computer dia i primi risultati accettabili. La prima volta che si sente parlare a gran voce della colorizzazione è nel 1985: Frank Capra contesta la scelta della Colorization Inc. di dare "nuova vita" al suo "La Vita è Meravigliosa" (1946), dimenticando che, proprio lui, aveva consegnato (nel 1984) la pellicola alla società.
Per spiegare a dovere, però, le connessioni tra Ted Turner e la colorizzazione delle pellicole, bisogna fare un secondo breve passo indietro, andando a spulciare con attenzione il background di Robert Edward Turner III (Cincinnati, 1938). Il suo curriculum è di quelli che fanno invidia; l'impressione che se ne ricava è quella di un imprenditore vecchiostile, baffuto uomo del Sud, geniale e un po' sfrontato, quasi machiavelliano nel calcolo delle amicizie e nella gestione degli interessi finanziari. Basta una frase per presentarlo: "Ted Turner, l'uomo che ha inventato la CNN". Un Charles Foster Kane dei nostri tempi, la cui avventura ha inizio a Atlanta, città dove rileva un canale locale in piena crisi (Channel 17), che più tardi ribattezza TBS, Turner Broadcasting Systems. Dieci anni dopo è la volta della CNN, lanciata sempre da Atlanta; è la materializzazione della profezia di Marshall McLuhan sul "Villaggio Globale": un network che trasmette soltanto notizie, 24/24 e in tutti i paesi del mondo. La doppia personalità dell'imprenditore è sublimata nel Ted Turner filantropo: nella Foundation che porta il suo nome (impegnata in cause ambientaliste), nella donazione di un miliardo di dollari alle Nazioni Unite (la più alta cifra mai devoluta da un privato a una qualsivoglia associazione), nel matrimonio con "Hanoi Jane" Fonda (ormai più nota per le sue apparizioni come benefattrice e attivista, che per i film realizzati in coppia con l'ex-marito Roger Vadim). E, proprio Jane Fonda, sembrava essere l'unico interesse che legava Turner al mondo dorato del cinema. A metà degli anni ottanta, però, la situazione subisce un drastico cambiamento. Invece di considerare una svolta alla Howard Hughes, il 25 marzo 1986, Ted Turner acquisisce la "collezione" della Metro-Goldwyn-Mayer (composta da oltre 3.700 titoli, tra cui: 2.200 della MGM, 700 della RKO e 75 della Warner Bros.), per una spesa totale di 1.200 miliardi di dollari. (Gary Edgerton, a proposito di Ted Turner e dell'acquisizione dei titoli MGM, dirà: "è la personificazione del trionfo simbolico, all'interno del mercato dell'intrattenimento, della televisione sull'industria cinematografica").
Turner, così facendo, non acquista soltanto il diritto a trasmettere i film sulle sue emittenti; Turner acquista i film come oggetti, diventando il legittimo proprietario dei "master" originali di ogni singola pellicola. (L'elenco dei film acquisiti include alcuni indiscussi macigni della storia del cinema come: "Casablanca" [1942], "Freaks" [1932], "Giungla d'Asfalto" [1950], "Il Mago di Oz" [1939], "Quarto Potere" [1941], "Scandalo a Filadelfia" [1940], "Viale del Tramonto" [1950], "Via col Vento" [1939]). A questo punto, Ted Turner ha un'idea geniale: colorizzare tutte le pellicole in b/n di sua proprietà, con un occhio particolare ai cosiddetti "classici", in modo da renderli più accessibili a un vasto pubblico di teledipendenti e "couch potatoes". "La gente è abituata a vedere i film a colori", tuona Turner per discolparsi. Come industria di riferimento, Ted Turner sceglie la CST, Color Systems Technology, che ha la sua sede vicino Los Angeles e che ha già avviato un contratto di collaborazione con la MGM per la colorizzazione di alcune pellicole (tra cui "Casablanca", per la quale la MGM ha sborsato 180mila dollari nel 1984). Nella "lista" di Turner finiscono centinaia di film da rieditare e ristampare. Alla fine dell'opera di "risanamento", Ted Turner si mostrerà talmente proud, orgoglioso, dell'opera di colorizzazione, da decidere di anteporre il suo stemma (cognome stilizzato su sfondo viola) alla scena iniziale di ogni singolo film di sua proprietà .
Da un altro punto di vista, irrimediabilmente contrapposto, la colorizzazione viene vista come il demonio in persona, un elemento sconquassatore, un terremoto artificiale che ha come epicentro la colonna portante della storia del cinema ("Casablanca", "Quarto Potere", "Il Mago di Oz", "Il Mistero del Falcone" [1941], su tutti, scatenano le ire dei puristi). La colorizzazione, difatti, non è un intervento "purificatorio" contro l'usura del tempo, come può essere il restauro di una tela o di una statua. Il procedimento della colorizzazione è ben differente dal risanamento di un affresco: interviene sul processo creativo, sulla proprietà intellettuale, interviene dove non si è potuto intervenire, a causa delle "basse tecnologie" con le quali si lavorava all'epoca della produzione del film. (Wassily Kandinskij, nel saggio "Lo Spirituale nell'Arte", attribuisce un'importanza cardinale alla scelta coloristica, espressione dell'emotività dell'artista. Al contempo, il colore serve per scatenare, in chi osserva, una reazione psichica ["Emerge allora la forza psichica del colore, che fa emozionare l'anima"], a seconda dell'associazione mentale che il dato colore crea nello spettatore).
Ha, dunque, inizio una campagna denigratoria nei confronti della colorizzazione. I suoi portabandiera sono celeberrimi protagonisti dello star-system hollywoodiano. Tra i più attivi si segnala Woody Allen (che, in passato, aveva già alzato un polverone sul cosiddetto "pan & scan"), critico nei confronti dell'immobilismo del Presidente Reagan (proprio un attore!). A ruota segue l'arzillo Jimmy Stewart, che definisce Ted Turner "un macellaio" e che si reca più volte a Capitol Hill, per contestare quanti avallano in silenzio le manovre della Turner Entertainment Company. Nel maggio del 1987, lo stesso Woody Allen, insieme a altri registi e esponenti del mondo del cinema, testimonia al Congresso contro la colorizzazione dei "classici". Iniziano vere e proprie crociate, con paladini e templari, protesi alla salvaguardia ora di "Quarto Potere", ora del "Mago di Oz", ora de "Il Mistero del Falcone". (E proprio "Quarto Potere" sarà uno dei pochi a salvarsi dall' "ecatombe" turneriana. Pare addirittura che Orson Welles, in punto di morte - durante, cioè, il suo "momento Rosebud" -, abbia posto un'unica richiesta all'amico e cineasta Henry Jaglom: "Tenete Ted Turner e i suoi dannati pastelli lontano dal mio film!").
Ma il vero terreno di sfida è situato in Marocco (un Marocco mai così metaforico), nell'assolata Casablanca. Le proteste, infatti, non hanno scalfito Ted Turner, che è sempre più deciso a convertire la "libreria" filmica da lui acquistata. Sembra, anzi, che la diatriba faccia proprio al caso suo, tanto che, durante una conferenza stampa, dichiara: "Ho colorizzato Casablanca soltanto per mandare a quel paese tutti quanti; volevo farlo e l'ho fatto, perché è di mia proprietà!". Risale al Luglio del 1988 l'intervista che lascia scoperto il suo reale punto di vista: "Casablanca fa parte di una rosa di film che non dovrebbero mai essere colorizzati. Io l'ho fatto perché l'ho ritenuto giusto. Tutto quello che sto cercando di fare è proteggere il mio investimento". La pubblicità è l'anima del commercio e "Casablanca Colorized" sta per essere mandato in onda, inframezzato da lunghe carrellate di inserzionisti pronti a intrufolarsi (a suon di quattrini) tra Rick Blaine, Victor Laszlo e il capitano Renault. "Da questa controversia abbiamo ricavato circa trenta milioni di dollari in pubblicità", affermerà Turner, a fronte di una spesa poco superiore ai 500mila dollari.
Ma non c'è nulla da fare per la crociata dei cinefili: la Libreria del Congresso, l'8 luglio 1988, sancisce la differenza tra "pellicola originale" e "pellicola colorizzata", riconoscendo un nuovo copyright alla Turner Entertainment Company. Si tratta del colpo di pistola che fa staccare Turner dai blocchi di partenza. Il 9 settembre va in onda la prima delle pellicole colorizzate: "Ribalta di Gloria" (1942), filmone patriottico di Michael Curtiz. "Play it Again Sam, This Time in Color!" diviene, in breve tempo, il nuovo motto della WTBS, che, il 9 novembre 1988, manda finalmente in onda il tanto atteso restyling di "Casablanca". Ne uscirà fuori un clamoroso insuccesso di pubblico. Nella nuova versione, il film ha perso quell'alone di romanticità che lo rendeva così magico: insieme al bianco e al nero è stata cancellata la melanconia di Rick, è stato sciacquato il volto di Ilsa e ogni ubriacone del bar sembra un Signore inguainato in un vestito di lino; il flashback parigino, poi, è trasformato in un coloratissimo "presente indefinito". La reazione dei critici è (incredibilmente) unanime: pare che abbiano visto, coi loro stessi occhi, "La Pietà" di Michelangelo venire presa a martellate da un folle. Ma l'importante era sollevare il polverone e speculare sulle interruzioni pubblicitarie (come candidamente ammesso), tanto che, appena un anno dopo, lo stesso Ted Turner affermerà: "La colorizzazione dei film è un'istanza superata".
Eppure, riguardo quel 9 novembre, Roger Ebert è lapidario: "uno dei giorni più tristi nella storia del cinema". Effettivamente si sta voltando, all'insaputa di tutti, una pagina molto importante della storia del cinema. I film della Turner (e non più i film di Capra, Curtiz e Huston) sono diventati prodotti destinati al mercato globale e, più genericamente, destinati a invadere l'immaginario collettivo occidentale, attraverso l'infinita serpe del tubo catodico. Non sono film destinati al mercato delle sale cinematografiche, bensì pellicole dedicate alle cineteche (sia televisive che pubbliche) e al circuito dell'home video. Attraverso le televisioni di mezzo mondo, dall'Italia al Giappone, che ne acquistano i diritti di ritrasmissione, si diffondono immagini falsificate, edulcorate, che restituiscono allo spettatore un'immagine storica quantomeno modificata, dissimile rispetto all'intento originario dell'artista e ai reali mezzi che l'epoca rendeva disponibili. (Joe Dante: "Cambiando [il bianco e nero], si trovano a interferire nella Storia").
E' quindi uno scontro tra due modi differenti di guardare all'oggetto filmico: l'America delle tante "paramount" contro l'Europa degli "autori" e della moralità artistica. Non a caso, i registi americani protagonisti della vicenda sono tutti personaggi molto amati nel Vecchio Continente: Woody Allen, Frank Capra, John Huston, Orson Welles. Proprio riguardo la proprietà intellettuale, Elliot Silverstein durante il suo intervento al Congresso, afferma: "Il nostro compenso non risiede soltanto nel denaro. Viene urtata fortemente la nostra sensibilità quando vediamo le "nostre creature" pubblicamente torturate e maciullate in televisione. La colorizzazione rappresenta la mutilazione della storia, vandalismo ai danni del nostro passato comune. Il denaro è la loro unica Bibbia; Turner, interrogato sul perché stesse colorizzando "Casablanca", ha candidamente risposto "perché amo le controversie". E rincara la dose Milos Forman: "Posso guardare un film colorizzato e non venirne offeso. Non è questo il punto. Il punto è la proprietà intellettuale. Colorare i film è come aggiungere dei rivestimenti in alluminio a un castello del Seicento". E Milos Forman annoda il Nodo Gordiano di tutta la questione: la proprietà intellettuale. Un film è chi ha "messo in scena" o chi ha cacciato i soldi? E' giusto che il regista regredisca allo stato di indicatore? Dev'essere un indice proteso come quelli delle figure rese famose dai teleri su Sant'Orsola del Carpaccio?
La regia non può ridursi a un "guarda di qua, guarda di là". Un regista non può esimersi dalla scelta dei colori del proprio set, della propria fotografia, dei propri costumi, del proprio montaggio. Un regista a cui viene sottratto il colore è un regista che viene privato di parte della sua personalità. Qualunque tipo di regista egli sia, piegato o meno alle leggi del mercato, vessato o meno dal vessillo della sua presunta autorialità. (Scriverà, argutamente, Aki Kaurismaki, nella nota stampa del suo "L'Uomo Senza Passato" [2002]: "Il mio ultimo film era muto e in bianco e nero ["Juha", 1999], cosa che dimostra chiaramente che sono un uomo d'affari. Il passo successivo se volessi procedere su quella strada, però, richiederebbe l'eliminazione stessa del film. Cosa rimarrebbe allora: un'ombra. Quindi, sempre pronto al compromesso, ho deciso di fare dietro front e realizzare questo film, pieno di dialoghi e in più ricco di una varietà di colori, per non parlare di altri valori commerciali").
L'arte (dando per scontato per il Cinema lo sia, almeno in parte) è un gesto puramente individuale, che ha però miliardi di possibili spettatori. Anche l'influenzabilità e la vigliaccheria, così come il talento e lo slancio creativo, fanno pienamente parte dell'individualità di chiunque. Ma l'influenzabilità e la vigliaccheria di un regista/pittore/scrittore non sono contingenti alle forzature che la produzione attua (soprattutto a sua insaputa) sul suo lavoro, una volta che dato lavoro è terminato. Calzante sembra, dunque, la metafora usata da Woody Allen in "Hollywood Ending" (2002), dove, un regista alle prese con una temporanea cecità, è costretto a guidare la sua "creatura" alla cieca, senza sapere dove muovere la macchina, senza vedere dove mettere le mani. Condizione che, oggi, condividono molti registi, "purtroppo" nel pieno delle loro capacità visive. Una condizione che va a pennello per un cinema artigiano, "alimentare", ma che lascia dietro di sé molti scompensi sul piano artistico. Un cinema che rischia di invecchiare precocemente, se non dovesse riuscire a ritrovare il giusto "bilanciamento degli opposti" (o sintesi, se preferite Hegel a Confucio) tra mercificazione e intellettualismo fine a se stesso. D'altronde, è un dato di fatto: le grandi rivoluzioni cinematografiche nascono tutte da questo ritrovato senso della misura.
Bibliografia:
Edgerton, G.R., "The Germans Wore Grey, You Wore Blue", Journal of Popular Film and Television, Winter 2000.
Kandinskij, W., "Lo Spirituale nell'Arte", SE s.r.l., Milano 1989.
Mathews, J., "Film Directors See Red Over Ted Turner's Movie Tinting", The Los Angeles Times, 12th September 1986.
McNally, J.V., "Congressional Limits on Technological Alterations to Film: the Public Interest and the Artists' Moral Right", Berkeley Technology Law Journal, Spring 1990.
The Columbia Electronic Encyclopedia, Columbia University Press, 2003.