La natura non performante del cinema di Takeshi Kitano
di Luca Bordoni
Nella cinematografia di Takeshi Kitano, a partire dal primo film (Violent cop), ci imbattiamo nell'assenza di qualsiasi istruzione performatrice nei confronti dello spettatore. In tutti i suoi film, infatti, abbiamo interminabili inquadrature su personaggi che camminano per strada verso direzioni a noi ignote, tempi morti, numerosi primi piani di volti impassibili e silenziosi che guardano spazi fuori campo, con un'espressione di vuoto, - uno sguardo "ottuso" lo potremmo definire, parafrasando Roland Barthes - lunghi piani sequenza frontali con persone come congelate che non interagiscono tra di loro.
A tutto questo si aggiungano le numerose ellissi, che hanno il compito di eliminare quasi del tutto le scene dinamiche, le azioni, e infine le inquadrature reiterative, vera e propria marca formale kitaniana. In esse i personaggi ripetono e dicono cose già dette in inquadrature pressoché identiche. Viene così frustrata, nelle sue attese abitudinarie di ritmo ed azione, la disponibilità percettiva dello spettatore. Egli, infatti, è costretto a concentrarsi sulle piccole variazioni presenti nell'inquadratura, lavoro che richiede un qualche sforzo. Quella che il cineasta mette in atto è una lotta, una battaglia contro il contenuto. Questo, al contrario di quello che accade nel cinema classico, viene continuamente occultato, spezzettato, spostato. Lo spazio e il tempo (ma anche la musica), che insieme sono la forma (intesa in quanto messinscena) del film, non lavorano più per rappresentare, per mettere in mostra e spiegarci i sentimenti dei personaggi. I dialoghi non saranno più creati ad hoc per farci capire che cosa un personaggio pensa o ha intenzione di fare. Saranno, invece, i gesti che pian piano ci riveleranno l'idea, il contenuto. La messa in scena prenderà il posto della diegesi, e sarà compito dello spettatore ricostruire gli avvenimenti e anche lo spazio in cui sono avvenuti. Egli sarà libero di ricostruire a suo piacimento quella realtà. La difficoltà per lo "spettatore occidentale" consiste proprio nell'alto grado di libertà di immaginazione e di interpretazione donata a colui che guarda. A ciò contribuisce, in un discorso linguistico non meno importante, il montaggio ("è questa lingua, non il giapponese, che bisogna imparare...": Jacques Rivette). Pure l'uso del montaggio (a volte inesistente e a volte volutamente sbagliato, falsato, a volte addirittura impercettibile perché la scena è proprio identica) più che indirizzare al racconto ci sposta all'astrazione, al puro guardare, senza farci partecipi dell'evoluzione di una storia.
Come per i film di Ozu, scanditi dalle lunghe pause prive di azioni, nel cinema di Kitano, insomma, non c'è spazio per lo spettatore passivo: uno spettatore che in qualche modo attende di essere guidato o meglio performato. Il problema per chi guarda non è tanto di ricostruire il film, ma di ricostruire il suo ruolo di spettatore (come attività percettiva che ricostruisce una serie di input preordinati lanciati da un determinato dispositivo). Se, secondo Daniel Dayan (1), nel cinema di John Ford, ogni oggetto è rappresentato come oggetto di uno sguardo di un personaggio, dove l'oggetto veduto diventa oggetto di azione, parte non più di un oggetto visibile ma di un oggetto diegetico, si potrà anche avere in alcuni autori, come aveva osservato Lorenzo Cuccu ne "Il discorso del film", uno sguardo straniato. Uno sguardo evasivo, che si sottrae al ruolo di stimolatore e conduttore del potenziale diegetico dell'immagine. Facendosi, quindi, portatore di un surplus che fuoriesce dalla storia, dal livello informativo, facendo dello spettatore un'entità priva di richiami e di stimoli che lo guidino nel racconto. L'iconico, infatti, adempie in minima parte alla funzione diegetica: se dalla rappresentazione dei gesti sarà assolto un compito chiarificatore-ordinatore, vi sarà comunque una forte presenza extra-diegetica nell'immagine difficile da gestire.
Forte presenza extra-diegetica che si distacca dal senso del racconto, non distrugge la narrazione ma la sovverte. Il significante privo di significato non produce senso ma lo elude. Quest'ultimo elemento ci riporta alla teoria di Roland Barthes e al terzo senso, o senso ottuso: senso di cui è possibile registrare la presenza in quanto significante, ma privo di significato e pertanto non situato strutturalmente, privo di alcun referente analogico. Le immagini di Kitano si fanno, infatti, portatrici di un supplemento "che si aggiunge a un gioco per sé sufficiente, a cui non di meno l'osservatore si appoggia per entrare in relazione a quanto sta osservando..." (2). Lo sguardo ottuso in Kitano si fa duplice: diventa da una parte lo sguardo straniato dei suoi personaggi, uno sguardo strabico, privo di espressione, addormentato, uno sguardo tutto racchiuso in se stesso perché privo di soggettive, ma ostinato, quasi fastidioso nel suo essere privo di vettori direzionali che guidino lo spettatore nella comprensione della diegesi. Lo sguardo ottuso, però, ha anche un riflesso nello sguardo evasivo del dispositivo e della sua messinscena: del suo fare cinema. Il terzo senso barthesiano, il surplus significativo che accompagnava timidamente alcune inquadrature dei film di Ejzenstejn, tant'è che l'autore de La camera chiara si limitava a ricercarle nei fotogrammi, diventa con Kitano più aggressivo e avvolge tutto il film scacciando in disparte i primi due sensi: quello informativo e quello simbolico.
L'ovvio (dal latino obvius: "che viene incontro") in Kitano viene messo in disparte, è lo spettatore che deve andare incontro al film. Se il terzo senso ha sempre rappresentato una parte dell'inquadratura, un punctum quasi invisibile, in Kitano questi arriva a ricoprire tutto il fotogramma: partendo dalle tute smaglianti da surf dei protagonisti de Il silenzio sul mare per spostarsi alle ultime immagini di Sonatine (la barca abbandonata sulla spiaggia e i fiori mossi dal vento), passando per le immagini dei fiori e del colore blu del cielo che legano con un filo invisibile la sorte dei due protagonisti in Hana-bi, dove l'ottuso occupa intere inquadrature, si giunge a L'estate di Kikujiro, nel quale lo ritroviamo nelle foto-cartolina (vi sono rappresentati i protagonisti dell'avventura estiva in pose come congelate) del quaderno di Masao. Quest'ultime, presenti lungo il corso di tutto il film, liberano il testo, la struttura fredda del profilmico, per diventare segni (ir)riconoscibili di un ricordo infantile. Segni autoreferenti di un emozione legati ai ricordi di una vacanza passata. Si pensi anche all'unica soggettiva del film appartenente a una libellula, oppure ai frequenti primi piani dedicati a lucciole, rane, fiori, piccoli esseri che popolano e disegnano il mondo di Kitano pur restandone ai margini.
Tutta la diegesi nel cinema di Kitano è occultata da una significanza sensibile, destinata a farsi conoscere tramite i (nostri) sensi, a pungerci, ma non collocabile in un contesto storico e tanto meno visuale. Tutto questo annoia lo spettatore che aspetta di essere guidato, aiutato. Legandosi a dei dettagli senza significati, che non dicono niente, le inquadrature kitaniane acquistano una libertà che opera al di fuori di ogni finalità, di ogni capitalizzazione.
Secondo Ejzenstejn, al cinema non è l'oggetto che contiene ed espone il significato ma è la sua messa in forma, la sua messa in inquadratura. Sarà il montaggio a determinare l'immagine (3). Per operare una rottura analogica tra il significante e il significato, il montaggio avrà un ruolo fondamentale. E in effetti il montaggio di Kitano è tutto proteso verso una perdita di senso, o meglio verso una sua rarefazione e dispersione. Proprio questa caratteristica ricollega l'autore alla pittura, portatrice di un surplus che la fotografia prima e il cinema poi (ma si potrebbe risalire per certi versi fino alla costruzione prospettica brunelleschiana), a causa del loro alto carattere analogico, avevano fatto quasi dimenticare, o meglio, occultato. Da qui la funzione del colore, che non ha più un valore rappresentativo di una realtà ma un valore evocativo. I colori, a partire dai suoi primi film, sono sempre pochi e a volte quasi del tutto assenti come in Violent cop e Il silenzio sul mare, ma proprio da questa mancanza, come ha sottolineato lo stesso autore, deriva la loro importanza, ed è il segno che Kitano ha imparato ad usarli (4). Il colore, dunque, ritrova un valore che forse non ha mai avuto nella storia del cinema: l'essere egli stesso portatore di senso che si allontana dall'immagine raccontata. Da qui il suo valore ottuso, il suo essere portatore di un qualcosa in più, destinato ad apparire un fuori-testo, o meglio a fare del testo stesso uno spazio di lettura infinita, interminabile. Ma in fondo il concetto stesso di colore non appartiene già alla sfera del meta-linguaggio? Non è proprio questo in fondo, il senso dell'ottuso indifferente alla storia raccontata? Non provoca un effetto di contro natura o di distanziamento nei confronti del presente teatralizzato? Come dice Ejzenstejn: "...il colore inizia là dove non corrisponde più al colore naturale (5)". Lo sguardo del cinema di Kitano non cerca nessun rapporto analogico con la realtà, quello che in maniera oggettiva viene ricercato è sicuramente il modo in cui si guarda, il rapporto che colui che guarda instaura con la cosa guardata. A questo punto non sarà più il colore oggettivo a determinare il colore del prato, ma sarà il rapporto di questo con colui che guarda che creerà quella sinfonia di tinte che sorge dai sentimenti e dai pensieri legati al tema. Sarà dunque la durata, la diacronia degli elementi e, volendo, dei colori a creare, come direbbe Deleuze, il supplemento. Il messaggio non verrà più dato dalla composizione diegetica dell'inquadratura ma da un melange cromatico-figurale. Questa concezione viene espressa molto bene dallo stesso autore quando, parlando degli elementi presenti all'interno dell'inquadratura, dice che "Non è che trovandosi nello stesso spazio e nella stessa scena ci debba essere per forza un legame" (6).
Questa sorta di ritorno a uno stato di pre-diegesi o, meglio, di una pre-costruzione della realtà (intesa nell'asse spazio-tempo) è anche uno dei punti chiave di Kitano, come anche la ricerca dell'errore di montaggio e della fotografia sbagliata. L'accettazione dell'imprevedibilità delle cose fa parte di questa sua timidezza nei confronti del reale, della vita: l'ossessione per l'immagine distante, per il campo lungo, per il plongée, per la soggettiva mancata (7), per l'immagine come sfiorata, non sono altro che il riflesso di questa sorta di attrazione-repulsione dello sguardo nei confronti della realtà, una specie di odio-amore, che pur anelando la pulsione scopica da essa viene ferito.
C'è quasi un'esasperazione dell'atto che ci rimanda a Christian Metz e all'enunciazione riflessiva, solo che qui non può esserci un'identificazione fra spettatore e personaggio ripreso nell'atto di guardare perché sono quasi del tutto assenti le soggettive. Come osservano Aumont, Bergala, Marie e Vernet in Estetica del film "gli sguardi sono sempre stati un vettore eminentemente privilegiato", un mezzo d'espressione fondamentale, come nei film di Hitchcock. Al contrario, in Kitano lo sguardo è impreciso, decentrato, indeterminabile oltre che sovente inespressivo.
Il protagonista di Boiling point, che passa tutto il tempo a guardare ma senza sapere cosa guarda, può rappresentare bene, nel gesto nichilistico, lo sguardo annoiato di Kitano di fronte al reale ( "...Cerco di immaginare una immagine inedita, una maniera mai vista"), ma proprio questo reale diventa la meta di un nuovo modo di vedere le cose, la ricerca uno sguardo insolito. Lo sguardo di questo regista è stato definito uno sguardo bambino perché riporta tutti gli oggetti alla stessa distanza, nel suo mondo non ci sono gerarchie: animali, fiori, oggetti, minerali, persone... sono tutte poste sullo stesso piano. Lo sguardo di un bambino che ancora viene punto a causa dell'immagine stessa: si pensi a quando in Hana-Bi Nishi, il protagonista, dopo essere stato coinvolto in una sparatoria, ricorda più volte in ralenti la scena del delitto come se l'orrore fosse tutto nel rappresentato; il ricordo-immagine, lo sguardo-apatia, diventa lo sguardo che uccide la realtà, sguardo-insistenza. Questo estremo, a volte immotivato uso-distorto del tempo, è un'altra delle innovazioni del cineasta giapponese. La scena vista più volte rallentata, infatti, non ha nessuno scopo, non ha valore spettacolare come nel cinema di Peckinpah, non ha un valore all'interno della diegesi per la comprensione dello spettatore: è, invece, un flusso di coscienza libero ed ossessivo che fa del montaggio uno strumento per libere associazioni, in cui le immagini affiorano liberamente una dopo l'altra. Questa trasformazione estatica non è altro che la volontà di una ribellione, la forte presenza di un idealismo e anche di un romanticismo che trasfigurano la realtà in una dimensione sognata. Tutta la forza del suo cinema consiste nell'essere, come lo ha definito Enrico Ghezzi, un cinema sognato, da guardare con gli occhi socchiusi.
Forse è proprio per questo che a 'Beat' Takeshi piace la spiaggia, luogo (fuori-tempo perché eterno) aperto a mille interpretazioni e costruzioni, che permette all'autore di disporre i colori e le figure in piena libertà come su una tela bianca. In fondo il mare è uno dei luoghi che contiene uno dei colori basilari per una successiva composizione cromatica: il blu. Interessante a riguardo è notare come la scelta dei luoghi in cui ambientare le scene dei suoi film avvenga esclusivamente in base a motivazioni coloristiche: "E se dovessi dire perché ho scelto quel posto, beh, perché la lamiera sudicia che ricopre la casa dietro è blu, tutta blu.... Per questo, visto che quel blu era bello, la scena l'ho girata lì. Se fosse stato un tetto di tegole o una casa di un altro colore, non sarebbe stato per niente interessante (8)". Dunque uno sguardo prematuro, preculturale, prediegetico, precostruito.
In questo senso il cinema di Kitano è una forma di regressione infantile ma contemporaneamente un nuovo sguardo sul mondo, un nuovo paradigma di conoscenza.
(1) Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati, Il discorso del film, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1987.
(2) Francesco Casetti, Teorie del cinema, Bompiani, Milano 1993.
(3) S. M. Ejzenstein, Teoria del montaggio, Marsilio, Venezia 1984.
(4) "Odio i quartieri affollati di notte. Ci sono troppi colori". Kitano'Beat' Takeshi, a cura di Michele Fadda e Rinaldo Censi. Supergrafica S.N.C., Parma 1998.
(5) S. M. Ejzenstejn, Il Colore, a cura di Pietro Montani, Marsilio Editori, Venezia 1982.
(6) Kitano 'Beat' Takeshi, op. cit.
(7) A riguardo Francesco Casetti (in Dentro lo sguardo, il film e il suo spettatore) definisce la soggettiva mancata (ovvero un'inquadratura che dà l'impressione di appartenere a qualcuno come in Fury di Fritz Lang ma che, in un secondo momento, nega questa promessa svelando la sua irrealtà) come un simbolo da parte del regista di "una sorta di tensione fra essere e un dover essere, fra il "voler essere" dell'intenzione e "l'essere" dello stato affettivo." La soggettiva mancata è dunque il segno di una chance negata: di un atteggiamento di curiosità, di interesse, anche di amore, come nel caso di Kitano, amore per le cose per la vita, ma anche la paura di un coinvolgimento in esse.
(8) Kitano ' Beat ' Takeshi.. Op. cit.