Andrey Zvyagintsev
Il ritorno: lontano e vicino
di Lorenzo Corvino
E' stato detto molto sul carattere espressivamente religioso del film del regista russo Andrey Zvyagintsev, Il ritorno; anche solo dovendo partire dalle dichiarazioni medesime del suo autore, la matrice cristiana è palesabile abbastanza chiaramente. A ciò si aggiungono le scelte estetiche molto spirituali nel modo di contornare la figura del padre, sul quale aleggia l'alone misterico di un Cristo incerto, quasi fosse diretta scarnificazione della rappresentazione che viene fornita del Messia dai vangeli apocrifi. Ma pur sempre del Cristo si parla: anche nell'iconografia ripresa da Mantenga del Cristo morto, o nella frontalità da ultima cena leonardesca, prima della partenza con i figli. Ma non credo che sia il terreno esclusivamente religioso quello su cui insistere, non almeno dal punto di vista del sacro dogmaticamente accettato. Il terreno su cui muoversi sarebbe meglio definirlo politico-ereticale.
E' un film eretico se pensiamo al fatto che viene meno, nella parabola del padre-Cristo raccontataci dal film, il principio stesso che fonda la religione cristiana, che ha dato alla Chiesa istituzionale il potere pretestuoso di erigersi come unica vera religione per tanti secoli, ossia il più profondo atto di fede che mai sia stato richiesto ad essere umano: credere fermamente senza interpellare la ragione, ma solo come atto di fede, appunto, nella resurrezione del Cristo morto sulla Croce. Ebbene, il regista rinuncia a far resuscitare il Cristo-padre in ogni forma possibile, sia religiosamente, sia realisticamente, sia simbolicamente, sia surrealisticamente. Niente di niente.
Ora dal momento che il film manca di catarsi nel porre tremendamente lo spettatore dinanzi ad un atto compiuto così per caso, e nel negare irrimediabilmente ogni riscatto, tanto al padre per aver abbandonato i figli per più di dieci anni, tanto ai figli per aver colposamente scatenato l'irrimediabile, pare abbastanza chiaro il punto di vista ribelle di Zvyagintsev: raccontare a scansie il film, giorno per giorno, da domenica a sabato, disseminando il percorso di rimandi al Cristo, leggendo il Mistero della sua venuta con gli occhi di un duale Giuda, o di due Giuda come dir si voglia, ossia i due figli che lo accompagnano, uno che ne incarna l'aspetto del rifiuto tanto da causarne effettivamente la morte, e l'altro dal volto ruffiano e lusinghiero, e poi scegliere di fermarsi proprio nel momento in cui il miracolo deve compiersi, quei tre giorni in più che avrebbero funto da epifania del vero, epifania della resurrezione del padre-Cristo-che-è-Dio-quindi-Padre, significa allora, tutto questo, voler costringere lo spettatore, già profondamente turbato dall'epilogare catastroficamente lento del film, a rinunciare al Verbo, a denudarsi dalle illusioni che ogni Istituzione ha ingannevolmente portato avanti per lui, e indurlo a rifare daccapo il suo romanzo di formazione che pensava, lo spettatore, presuntuosamente di aver già compiuto con successo.
Infatti, tutta la vacanza col padre è disseminata, forse fin troppo schematicamente, di situazioni che non fanno altro che indurre chi guarda a convincersi che dopotutto le angherie del padre hanno lo scopo di temprare i due figli effeminati, con episodi che hanno la parvenza di prove da superare, al fine di compiere la loro formazione. Ed invece no: è falso; loro non sono maturi come ci viene fatto credere quando, pensando di essere ormai forgiati quali maschi adulti, i due ragazzini decidono di intraprendere da soli il viaggio in barca per andare a pescare, solo perché una volta hanno portato quella barca, solo perché per qualche ora hanno remato.
La vera formazione, pare dirci Zvyagintsev, comincia quando ti accorgi che il Cristo-padre non risorge e l'assenza del dio ti porta a capire che la vita non è un gioco ripartito tra premi e punizioni con un Giudice dall'alto che veglia, ma è nuda esperienza. Ecco la lezione dei grandi romanzieri del Novecento, rivissuta qui dall'autore nel suo racconto esistenziale: tutto non è che una nuda esperienza, senza determinismo alcuno. E il fatto che il film si svolga per lo più in lande desolate tra fanghiglia e mare ha lo scopo di suggerire nello spettatore lo spaesamento da ogni centro centripeto, da ogni Dio che prima o poi ci riconduce a sé anche se falliamo; si tratta nient'altro che della perdita di ogni riferimento tra lontano e vicino, perché viene a mancare l'oggetto nei confronti del quale percepiamo l'idea stessa di stare lontani o vicini.
Solo così vedo giustificato l'ultimo movimento di macchina del film, quello che lo sigilla: non appena i ragazzi vanno via per iniziare il ritorno, a cui il titolo fa riferimento (il loro dunque non quello del padre come è pensabile all'inizio), verso casa – che giustamente resterà fuoricampo, lì nella vita di tutti i giorni –, accade che la macchina da presa indietreggia e si alza.
E' quella l'unica resurrezione che ci viene concessa, l'assunzione in cielo dell'immagine filmica che in quel momento non narra, non descrive, non incarna nessuna soggettiva di qualsivoglia personaggio, ma è un atto di fede richiesto allo spettatore, quel che resta, un singulto di fede che l'istanza narrante stessa pretende da noi suoi fedeli spettatori; e che il regista-demiurgo rivolge verso se medesimo, per attestare una volta di più la sua presenza, la sua esistenza, il suo libero arbitrio.
E la matrice politica di cui sopra sta tutta nel dolore che i bambini provano per un perché a cui non si può dare risposta: perché il padre è arrivato all'improvviso nella loro vita? Come ai popoli e alle masse non si danno risposte complesse perché incapaci di elaborare sulla fiducia la problematicità delle scelte, così ai due bambini non si dà un perché, si lascia cadere ogni pretesa nel silenzio. La durata di tale assenza paterna è pressoché coincidente con il tempo trascorso dalla caduta del comunismo sovietico. E la riemersione incerta e indefinibile del padre dittatorialmente fuori dal tempo con le sue maniere dure e autoritarie fa molto pensare a retaggi privi di radici in questa di epoca, che improvvisi ricominciano ad esistere. E cosa c'è di peggio se non fingere che nessuna forbice temporale ci sia stata tra quel passato e l'oggi per poter così negare alla Storia la sua ossatura, ovvero la profondità, e provare a esercitare un potere assoluto come una volta era? Dopotutto è questo quello che il padre fa: nega col suo agire ad occhi bassi ma a testa alta ogni forbice temporale tra il presente e il momento dell'abbandono dei figli in fasce.
Quindi non vedo allegoria più chiara di questa di Zvyagintsev nell'ammonire il suo popolo, e non solo, dal facile confidare in vetuste ideologie, che celano il proprio intrinseco e malsano conservatorismo dietro un presunto e rinato vigore, il quale si pone a mo' di mezzo per risolvere l'infingardaggine di un'era senza guida e senza eroi.
L'altro russo, già grande, già da più anni sulla scena, che fa un cinema centrato, il suo, maggiormente sui versanti umanistico ed enigmatico, particolarmente portato per un rigore estetico meditabondo, Aleksandr Sokurov, ha realizzato un capolavoro qual è Arca Russa in cui, proprio mentre Il ritorno sceglieva la strada della parabola esistenziale e allegorica, lo stesso timore, in merito al possibile smarrimento dell'uomo contemporaneo circa le direttive da dare alla propria era, è tradotto da Sokurov attraverso un lungo sogno-soggettiva ininterrotta che illustra i grandi fasti di una Russia imperiale, filtrando tutto per mezzo dello sguardo disilluso di una guida vagamente virgiliana, ed incarnata da un uomo, un francese, del secolo dei Lumi. In Arca Russa la verticalità massimalista della Storia si riflette sullo spettatore come una nuda esperienza senza dio – come pure si è visto avviene per altre vie ne Il ritorno – nonostante i preziosi barocchismi di una messinscena inebriante. I quali, per quanto sfarzosi possano essere, resteranno pur sempre, oramai, interni di un'arca che non fa ritorno.