La danza in Olympia: per una completa sospensione della realtà fisica del movimento
di Jessica Passerini
Diviso in due parti, Fest der völker e Fest der schönheit (letteralmente "La festa del popolo" e "La festa della bellezza") (1), costato alla regista Leni Riefenstahl diciotto mesi di estenuante lavoro in sala di montaggio, Olympia (id., 1938) è un documentario sportivo frutto di criteri artistici precisi, sintomatici di un'arte nella quale confluiscono molteplici e svariate influenze. L'intenzione dell'artista è quella di cogliere l'avvenimento sportivo non in quanto tale, come nel reportage d'attualità, quanto piuttosto dal punto di vista della sua forma, presentandolo agli occhi dello spettatore come una visione poetica e a-temporale in grado di trasformare le competizioni sportive, individuali o collettive, in folgoranti visioni di grande impatto emotivo.
Per poter far questo la Riefenstahl, guidata da una acuta sensibilità, maturata anche e soprattutto grazie allo stretto contatto con il mondo della danza, impara a sentire sulla propria pelle le forme e i suoni prodotti dai corpi in movimento nello spazio, il respiro affannato di un atleta allo stremo delle forze, l'incedere incalzante dei passi dei maratoneti ormai vicini al traguardo. Riprende e monta ogni azione in modo armonico, con l'obiettivo di dar vita ad uno stile di rappresentazione delle competizioni sportive che sia originale e in grado di rendere l'emozione, l'intensità e l'entusiasmo che si prova stando vicini agli sportivi in gara. O, se possibile, ancora maggiore.
E il mezzo di cui si serve è il ritmo, elemento che, secondo la regista tedesca, deve essere orchestrato attraverso un accurato montaggio delle immagini e della colonna sonora. L'idea è quella di una fusione che rispetti le giuste proporzioni fra i due elementi in gioco. Prendo ogni precauzione - afferma Leni Riefenstahl - affinché il suono e l'immagine non vengano a rappresentare più del cento per cento: l'immagine è forte? Allora il suono deve restare sullo sfondo. È il suono ad essere forte? Allora l'immagine deve attenuarsi rispetto ad esso (2).
Ma prima di poter "giocare" sul rapporto fra suono e immagine, la regista deve studiare il modo in cui rendere le azioni in movimento degli atleti, secondo un procedimento che, secondo il suo gusto estetico, possa "trasformare" quelli che sono semplici salti, corse, tuffi proprio in "folgoranti visioni". E allora ecco che il ritmo interviene in due modi: da una parte si manifesta nel modo in cui la Riefenstahl fotografa, riprende e registra l'avvenimento sportivo in ogni suo peculiare momento, dall'altra è dato dall'uso del montaggio, e quindi dall'alternanza di riprese e d'immagini più o meno dinamiche.
Per quanto riguarda il primo elemento, ovvero la scelta dell'inquadratura e della sua angolazione, Olympia, come è noto, rappresenta un enorme laboratorio di sperimentazione e di ricerca di nuovi modelli e punti di vista. C'è uno studio costante di punti di ripresa insoliti, di angolazioni inconsuete e d'effetto; nel film vengono saggiate per la prima volta molte novità tecniche. Per riprendere gli atleti in modo espressivo - sottolinea ancora la regista - bisognava inquadrarli su uno sfondo neutro, preferibilmente contro il cielo, la qual cosa si poteva ottenere soltanto piazzando le macchine da presa più in basso possibile (3), ovvero scavando delle aperture nel terreno. Buche, cineprese montate sulle selle dei cavalli o direttamente sul corpo degli sportivi, carrelli di scorrimento a velocità variabile, palloni aerostatici e addirittura mongolfiere e battelli: questi i mezzi - di fanckiana eredità - di cui si serve Leni Riefenstahl per le sue riprese. Grandi innovazioni tecnologiche le vengono inoltre in aiuto e compaiono per la prima volta sul set di un film. Si tratta, come lei stessa ricorda nel documentario girato da Ray Müller nel 1993 (4), di alcune m.d.p. molto particolari, come la Bell & Howell a doppia velocità (quella normale a 24 fotogrammi/secondo e quella a 48 fotogrammi/secondo, utilissima per rallentare i movimenti del corpo nelle situazioni più dinamiche, come i salti) o di ottiche innovative per l'epoca, come il teleobiettivo 600 Askania, necessario per cogliere da lontano ritratti e primi piani degli atleti. Il risultato è ammirevole nel creare quell'effetto di ritmo tanto cercato e voluto.
A donare movimento al film concorre, ovviamente, anche il secondo elemento: il montaggio. Per la cineasta tedesca si tratta di uno strumento fondamentale per la creazione e la definizione della propria opera. È necessario anzitutto definire l'architettura del film: quale sarà l'inizio, e quale la fine, dove saranno collocati i "picchi", ossia i momenti di maggiore tensione, e dove gli eventi meno emozionanti (le "valli"). Cruciali sono altresì la durata delle inquadrature che, brevi o lunghe, determinano il ritmo dell'opera, e la cadenza dei tagli, ossia dei passaggi da un'inquadratura all'altra: si può dire che sia un processo molto simile alla composizione musicale, e parimenti intuitivo (5). Nasce così un documentario in cui la componente ritmica del montaggio gioca fin da subito un ruolo fondamentale, e nel quale ritroviamo, a seconda delle situazioni rappresentate, momenti in cui esso è regolare alternati ad altri in cui diviene invece irregolare o accelerato.
Esempi di questo uso "espressivo" del montaggio, utili per comprendere appieno l'idea che la Riefenstahl ha di ritmo, risultano essere due momenti fondamentali del film, entrambi collocati nella seconda parte di Olympia: la sequenza dei ginnasti nel corpo libero e agli attrezzi e la famosa sequenza finale dei tuffi (in particolare quelli maschili).
La sequenza dei ginnasti, lunga più di sette minuti, fa affidamento ad un esteso uso del rallentatore e ad un'attenta sincronizzazione fra immagini e musica. Si tratta di riprese altamente liriche, opera di Guzzy Lantschner e del principale assistente alla camera di Neubert, Eberhardt von der Heyden, nelle quali viene evidenziata tutta la grazia e l'agilità degli atleti. Dopo un paio di esibizioni di corpo libero, iniziano, con una musica ritmica di sottofondo, gli esercizi al cavallo e successivamente agli anelli. La sensazione che si prova è subito quella di assistere ad una danza. Gli uomini, tutti vestiti di bianco, volteggiano ripresi dal basso e le loro figure si stagliano contro il cielo. Sembra che da un momento all'altro si debbano alzare in volo, come se non subissero le limitazioni della legge di gravità e il peso del proprio corpo. Non vengono mostrati né lo sforzo né la fatica, né tanto meno la preparazione agli esercizi dei ginnasti o la loro discesa finale a terra. Ad un certo punto la musica si fa più incalzante, aumenta di ritmo e crea un'atmosfera di tensione. Un atleta è sospeso in aria, fra i due anelli, con i muscoli delle braccia tesi e le gambe perfettamente unite in verticale sopra la sua testa. Rimane in questa posizione per circa venti secondi, ed è la musica, composta da Herbert Windt, a sottolineare tutta l'eccezionalità di questa posa. Poi inizia molto lentamente a scendere e, arrivato in fondo, riparte, con dolcezza, in una risalita che è sicuramente durissima, ma che sembra non costargli nessuno sforzo.
Alle parallele assistiamo poi ad uno spettacolo che non può non ricordare nuovamente i movimenti sinuosi di un balletto. Le inquadrature sono sempre riprese dal basso, con la m.d.p. proprio sotto gli atleti, e attraverso l'uso della slow motion gli esercizi appaiono in tutta la loro perfezione. Il ritmo inizialmente è lento, con inquadrature tese a fermare il movimento accompagnate da una musica che sottolinea la grazia delle evoluzioni in aria; dopo qualche minuto la sequenza subisce una brusca accelerazione sia nel ritmo, via via più spedito, sia nella musica, sempre più sferzante: assistiamo ad evoluzioni rapide e precise di ginnasti che volteggiano nell'aria, appesi con presa salda sull'asta delle parallele. È come se non fossero più uomini ma uccelli pronti a spiccare il volo. Una sensazione simile si prova ammirando i corpi sospesi nell'aria degli atleti nella sequenza unanimemente accreditata come la più bella di tutto il documentario: quella dei tuffi. Al pari della maratona (che chiude la prima parte Fest der völker), questa competizione, filmata in maniera comune, sarebbe potuta apparire tra le meno interessanti e coinvolgenti del film, ma la Riefenstahl decide invece di riprenderla e montarla in modo sorprendentemente efficace. La regista tedesca si rifiuta, infatti, di registrare banalmente l'evento sportivo e di mostrarlo così come esso appare ai suoi occhi, ma decide piuttosto di dar vita, utilizzando spezzoni di realtà fisica, ad una rappresentazione irreale della realtà sportiva. Attraverso il montaggio, l'evento si modifica ed è mostrato sotto altra forma, creando quella pura invenzione cinematografica che David Hinton definisce come una "sinfonia del movimento".
Attraverso una lunga serie d'inquadrature sapientemente orchestrate (atleta che sale le scale del trampolino, preparazione in pedana, salto e capriola in aria ecc.), assistiamo ad evoluzioni sempre più estemporanee e rallentate. Inizialmente i tuffatori si preparano, saltano nel vuoto ed entrano in acqua; dopo un paio di minuti queste immagini si attenuano fino a scomparire e l'accento è sempre di più sulla danza compiuta dagli atleti sospesi nell'aria. Si assiste ad una completa sospensione della realtà fisica del movimento, dello spazio e del tempo. Lo sportivo appare nel cielo come se sbucasse dal nulla, mentre effettua flessuose evoluzioni. Il ralenti diviene il mezzo fondamentale per evidenziare il ritmo dei corpi che volteggiano, si librano, diventano un tutt'uno col cielo di cui sembrano far parte. Questo inizia solo leggermente accennato e diventa sempre più evidente di tuffo in tuffo. Alcune riprese si presentano addirittura montate al contrario con tuffatori che emergono dall'acqua, si sollevano nell'aria e atterrano sul trampolino: l'impressione è quella di un volo arcuato dall'acqua al cielo, contro ogni possibile realtà.
Si aggiungono alla natura eroica delle riprese, le angolature della m.d.p., che arricchiscono lo sfondo con ondate di nuvole (6). Il movimento di questi corpi nudi e perfetti è reso ancora più evidente dal montaggio che, sul finale, alterna in rapida sequenza immagini di tuffi da sinistra ad immagini di tuffi da destra; è come se gli atleti si tuffassero uno verso l'altro, nel tentativo di fondersi in un unico movimento sinuoso e infinito. Si tratta in qualche modo di un raccordo, il cui fine è proprio quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l'altro in maniera che ogni mutamento d'inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile (7). Dal montaggio così costruito "sgorga" una danza, continua e armoniosa. Alla fine della sequenza gli atleti sono ormai solo sagome nere stagliate su uno sfondo di nubi bianche.
(1) Nella versione italiana i titoli sono stati tradotti rispettivamente con Olympia e con Apoteosi di Olympia.
(2) Cfr. Da intervista di Michel Delahaye, Leni et le loup, Entretien avec Leni Riefenstahl, in "Cahiers du Cinéma", n. 170, settembre 1965, p. 62.
(3) Da Leni Riefenstahl. Stretta nel tempo. Storia della mia vita, Milano, Ia ed. Tascabili Bompiani, 2000, p. 203 (titolo originale Memorien, pubblicato da Albrecht Knaus Verlag, Monaco e Amburgo, GmbH, 1987).
(4) Die macht der bilder (182') uscito in Germania nel 1993 e in Italia nel 1997 con il titolo La forza delle immagini, è un film-intervista che, ripercorrendo l'intera vita della cineasta attraverso immagini, spezzoni di film, incontri con collaboratori del passato e parole della stessa Riefenstahl, fa emergere la figura di una donna di grande levatura artistica ma umanamente di dubbia morale. Notevoli le immagini inedite girate presso una tribù Nuba, in Sudan, e quelle, più recenti, legate alle sue ultime esperienze fotografiche nei fondali sottomarini.
(5) Da Leni Riefenstahl. Stretta nel tempo, op. cit., p. 223.
(6) Cfr. David B. Hinton, The films of Leni Riefenstahl, Lanham-Maryland, The Scarecrow Press, 2000 (3a ed.), p. 57.
(7) Cfr. Gianni Rondolino, Dario Tomasi. Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, Torino, Utet, 1995, p. 163.