La topografia fantastica: montaggio e illusione nella città argentiana
di Pietro Izzo
Certes il y a des SUJETS fantastique admis depuis longtemps... Mais il y u aussi [...] des REGARDS fantastiques c'est d dire dee manieres de transformer dam nn sens fantastique tour ce qui est vu par l'oeil faussement objectif if de la caméra.
(Predal, Le cinéma fantastique)
Un dossier sull'immagine bugiarda può essere interpretato in molti modi differenti, a
seconda di cosa si intende per verità dell'immagine. In realtà l'immagine cinematografica è sempre bugiarda, senza alcuna possibilità di
redenzione. Non ha senso dire che l'immagine Lumiére è "più vera" dì una qualsiasi immagine-Meliès, tradizionalmente considerata "falsa". Tutte le inquadrature prodotte in un secolo di cinema sono costituzionalmente bugiarde in quanto non permettono
di conoscere "la realtà". Permettono, al massimo, di conoscere la realtà vista attraverso l'occhio dell'operatore, del regista. Anche il documentario più rigoroso offre della realtà solo un determinato punto di vista: quello della cinepresa, posizionata
secondo precise coordinate spaziali.
Un dossier sull'immagine bugiarda, dunque, ha senso solo se si considerano i vari livelli di menzogna di un'immagine. L'immagine-neorealista è comunemente accettata come vera, ma in realtà è falsa proprio in quanto "immagine di Rossellini" o "immagine di De Sica". Un'immagine tratta invece da un film completamente girato in studio, come un qualsiasi film di Corman tratto da Poe presenta una falsità dì grado zero (dovuta al fatto di essere appunto un' "immagine di Corman") e-al di làdi questa - una falsità di primo grado (quella del décor indefinibile e sempre uguale del castello di casa Usher). Un'immagine di Beetlejuice (per citare un caposaldo del nuovo "fantastico americano") è falsa perchè immagine burtoniana, falsa perchè girata in studio e falsa ad un terzo livello. Perché il décor in crisi muove Michale Keaton non è solo un quartiere ricostruito in studio ma è anche un modellino! E coli via: il cinema si dà come una continua stratificazione di bugie visive.
Un modo particolare di mettere in scena la menzogna è quello di operare sul montaggio, in modo da dare un'illusione di realtà e coesione là dove non ci può essere. E' la teoria di Kulesov della logica di implicazione: la contiguità di due immagini montate assieme viene percepita come causalità (in sequenze narrative) o comunque come spazialità realistica (in sequenze descrittive). Un tipo di bugia cinematografica molto particolare consiste infatti nel riprendere la città scelta durante i sopralluoghi e nello smontarne e stravolgerne la topografia in fase di montaggio.
Oppure, di inserire inquadrature riprese in un'altra città (per esigenze di produzione o per scelta autoriale). Una città come Torino, ad esempio, capitale del primo cinema italiano e in seguito poco ripresa dai nostri registi, è stata quasi sempre filmata in modo "realistico" (cfr. anche ultimamente Poliziotti di Base o La seconda volta di Calopresti).
Ma esistono alcune significative eccezioni, tra cui due famosi film di Dario Argento: Il gatto a nave code e Profondo rosso. In entrambi i film la topografia torinese è rimescolata e montata in modo verosimile, ma non veritiero. Inoltre Argento aggiunge alle sequenze di esterni girati a Torino una serie di inquadrature girate a Roma, montando assieme immagini diverse delle due città.
Nel primo film, la sequenza più indicativa è quella della corsa in macchina di Catherine Spaak e James Franciscus in una Torino scomposta e frammentaria, in cui si passa da piazza Castello a Portapalazzo, da via Santa Teresa al sottopassaggio del Lingotto solo grazie alla "magia" del montaggio. La città virtuale che Argento vuole rappresentare dà effettivamente una netta impressione di verosimiglianza. Ma non è una città reale. Nel film sono presenti altri topoi torinesi come la vecchia stazione dì Portanuova o il cimitero monumentale. Ma, spesso, si tratta di immagini della città rese in modo realistico Non a caso, Il gatto a nove cade è il film di Argento che più si rifà alla struttura del gialla classico, con indagini, moventi credibili, scoperta del colpevole. Ma all'interno del giallo, un genere estremamente positivista, Argento inserisce (pure in una sequenza di secondo piano) l'elemento di disturbo: l'indeterminatezza
In Profondo rosso, il discorso si fa più articolato, essendo il film intero più spostato verso l'irrazionale, sul versante della follia. Da una piazza CLN spettrale e metafisica (ma riconoscibilissima) alla famosa villa di corso Lanza (nel film "via Susa") che, isolata dal contesto e frammentata in diversi dettagli inquietanti (tra cui una classica "falsa soggettiva" della casa stessa), diventa non più "l'abitazione di corso Lanza
n. X", ma "la villa del bambino urlante" - tanto più efficace nell'economia narrativa
del film quanto più isolato da un contesto topografico riconoscibile.
La location assume qui anche una precisa funzionalità narrativa: torniamo ad esempio in piazza CLN, luogo dove abita l'eroe e dove inizia la "sfida della memoria". L'assenza totale di dettagli sonori, l'effetto di eco dato alle parole dì David Hemmings e Gabriele Lavia, la totale irrealtà delle luci e l'immobilità innaturale degli avventori del Blue Bar sospende la scena in un'atmosfera fantastica: l'esteno in questo caso, è stato trattato come un teatro di posa. Dopo l'assassinio della medium e l'arrivo della polizia, si torna a questa atmosfera rarefatta. E viene pronunciata la battuta chiave "Quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria...". In molti casi l'uso del sonoro e di false (vere?) soggettive del'assassino sospendono il giudizio dello spettatore, lasciandolo in dubbio se si tratti di un essere soprannaturale e ubiquo oppure di una persona normale. L'impressione che lo spettatore ricava da questo tipo di sequenze può essere duplice. Se lo spettatore non è mai stato a Torino, la città argentiana si presenta come una città immaginaria, fantastica, funzionale alla rappresentazione di una storia che "prende il via dal razionale per giungere all'iperrazionale e quindi approdare all'irrazionale e, come ultima spiaggia, al delirio". Se poi lo spettatore è torinese, la città viene avvertita come una continua vertigine, come un puzzle impazzito di luoghi familiari che diventano immediatamente Unheimlich. Obiettivo, questo, che Argento persegue in tutti i suoi film.
Lo spettatore di Profondo Rosso o de II gatto a nove code è in ogni caso aggredito da una bugia che e comunque verosimile. Questo montaggio, produttore di menzogne, è assolutamente funzionale (aggiungerei: elemento necessario) alla riuscita di un film "fantastico". Todorov definisce il fantastico come l'esitazione tra l'accettazione irrazionale di un fatto "impossibile e la sua spiegazione logica. Il fantastico "occupa il lasso di tempo di questa incertezza". Non si vuole dire che Argento fa del fantastico la sua bandiera. è certo che, comunque, il suo cinema oscilla visibilmente tra il fantastico-strano e il fantastico-meraviglioso (essendo lo strano il genere dell'irrazionale spiegato e quindi al limite del giallo classico; il meraviglioso il genere dell'irrazionale totalmente accettato – il cosiddetto film fantasy). Nella filmografia argentiana, lo stacco evidente tra un tipo di tematica e l'altro si osserva tra e l'altro si osserva tra Profondo rosso e Suspiria.
Il cinema di Argento infatti presenta molte marche del fantastico (anche se non tutte). Come per i racconti di Poe, anche per i film di Argento il fantastico si definisce piuttosto come "esperienza del limite" (della violenza, della morte). Il fantastico, peraltro, condivide con il giallo classico l'"inutilità" della seconda lettura/visione che diventa automaticamente metalettura. Non c'è più l'identificazione con il personaggio, e l'accento non è più posto sul tempo della percezione. Solo ad una prima osservazione, dunque, i film di Dario Argento rientrano nel genere "giallo". In realtà, "giallo" è, ad esmpio, La donna della domenica di Comencini (per citare un altro film girato a Torino). La città di Argento è inquietante, morbosa, spiazzante: si presenta inizialmente nella sua quotidianità per trasfigurarsi quasi subito in un topos – un labirinto fantastico in cui il protagonista (e con lui lo spettatore) si perde, da cui uscirà a fatica.
(tratto da Cinemah - nuova serie, anno 1, numero 1, marzo 1996, pagg. 17-19)