Speciale NUOVO CINEMA GIAPPONESE
Il nuovo horror: caratteri e deviazioni dal genere
di Luca Manfrin
Il genere horror durante gli Anni Novanta ha vissuto una felice stagione nel panorama della cinematografia giapponese. Una nuova generazione di cineasti si è inoltrata all'interno di questo territorio di confine esplorando nuove dimensioni del brivido. Durante il percorso essa ha mutato i propri orizzonti di riferimento: il gusto dominante della produzione horror nel decennio precedente era stato direttamente influenzato dal modello occidentale e, in particolar modo, dallo splatter.
La contemporanea ondata di registi ha imboccato una direzione diametralmente opposta. Nel tentativo di svecchiare gli schemi del genere per appropriarsene, ha, da una parte, rinunciato all'utilizzo degli effetti speciali e delle moderne tecnologie, concentrandosi nella creazione d'atmosfere cariche di tensione e nell'approfondimento delle psicologie dei personaggi, piuttosto che sull'effetto visivo sconvolgente e sensazionale. Dall'altra, la nuova leva di cineasti si è rivolta alla millenaria cultura giapponese per recuperare i temi e le strutture del kaidan, la tradizionale storia di fantasmi, un universo popolato da spettri, spesso femminili, furibondi ed in cerca di vendetta a causa di torti ricevuti. Cure [1997] di Kurosawa Kiyoshi, Ring [1998] e Ring 2 [1999] di Nakata Hideo, Gemini [1999] di Tsukamoto Shinyia mirano a sconvolgere lo spettatore adottando strategie narrative che agiscono nel profondo: funzioni quali la ripetizione, la circolarità degli eventi, l'ambiguità e lo straniamento concorrono ad interiorizzare il mostro come figura dell'inconscio.
Nell'horror classico tale mostro rappresentava il disordine, l'emergere dell'irrazionale cui si contrapponeva l'eroe simbolo di ragione ed ordine. Il pubblico era naturalmente portato ad identificarsi con quest'ultimo. L'originalità di queste pellicole sta nel confondere il meccanismo in modo che lo spettatore si trovi sovente a vestire i panni dell'antieroe. Cure è certamente il più radicale esempio della koinè nipponica, vi si possono ritrovare tutti i motivi del genere. In primis il rifiuto categorico degli effetti speciali e delle soluzioni visive spettacolari che hanno caratterizzato lo splatter. Kurosawa recupera la tradizione orientale puntando su un terrore del tutto psicologico, ad esempio con il largo utilizzo di piani sequenza che seguono ansiosamente i movimenti dei personaggi. Interessa sottolineare come il regista sia riuscito a ricreare la suspense servendosi essenzialmente del disorientamento e dello sconvolgimento delle regole auree del genere horror.
Mamiya è il criminale che ipnotizza le sue vittime conducendole ad uccidere senza alcun apparente motivo. La presentazione del personaggio ci colpisce subito: un campo medio lo mostra camminare circondato dalla spiaggia e dal mare. Le prime parole che pronuncia sono delle domande: «Dove siamo? Che giorno è? Chi sono?», mentre la desolazione attorno simboleggia il vuoto interiore; più avanti lo ritroveremo avvolto nel buio di una camera, quasi si trattasse di un'ombra. Attraverso la figura di Mamiya, smarrito nel tempo, nello spazio e nella propria mente, viene introdotta la tematica principale del film: la follia derivante dalla perdita di identità e di contatto con la realtà. Studente di psicologia e di pratiche occulte, egli possiede la capacità di manipolare la volontà delle sue vittime, inducendo una sorta di istinto di morte. Da ciò scaturisce l'ambiguità del personaggio, legata al concetto di colpevolezza: commentando gli omicidi, Sakuma, lo psichiatra che collabora alle indagini del detective Takabe, afferma: «Certe cose succedono e basta... a volte non si può spiegare perché avvenga un crimine...nessuno può capire». Mamiya non è totalmente colpevole delle morti poiché non è lui a commettere materialmente l'atto criminale. Per le spettatore si tratta di un primo effetto di straniamento nei confronti degli schemi del film.
Le strutture della ripetizione e della circolarità si inseriscono in questo discorso funzionando per diversi livelli del testo. Innanzitutto sono rappresentate dalla catena degli omicidi e dall'incessante atto del domandare, con cui il mostro si relaziona agli altri personaggi. Si tratta di un'ossessionante inchiesta che non può condurre a nulla di sensato se non ad un nuovo spaesamento. È possibile riscontrare tali funzioni in altre scene pregnanti che inseriscono i restanti personaggi nella tematica della pazzia. Takabe, l'ispettore della polizia che conduce le indagini e il cui compito è ricostruire razionalmente la realtà dei fatti e dare un senso alle morti, dirà: «Non importa che questi omicidi siano incomprensibili, io devo trovare le parole che li spieghino». Il personaggio, in quanto eroe classico della vicenda, si contrappone subito a Mamiya nella lotta fra ragione ed irrazionalità, fra senso e controsenso, fra ordine e disordine. Tuttavia l'autore sembra suggerirci, attraverso il ritorno di un'inquadratura importante e di un medesimo rapporto tra spazio e figura, che il povero Takabe sarà votato al fallimento.
Un piano sequenza lo mostra vagare perdutamente sul tetto di un grattacielo di Tokyo con Sakuma, il quale lo avverte in maniera profetica: «Tu stai andando troppo a fondo». Come già per Mamiya, anche in tale occasione un personaggio si aggira senza meta in uno spazio aperto e desolato. Poco dopo egli compare mentre fissa dallo stesso luogo il vuoto sopra la città. L'ispettore rappresenta il fallimento della ragione nell'interpretare la realtà: cercando di dare un significato al disordine egli perderà la propria identità impazzendo progressivamente. Takabe da eroe positivo diventerà a sua volta carnefice e mostro. In questo percorso il pubblico si allontana dalla sua prospettiva per assumere un punto di vista diverso.
Anche Sakuma vaga nell'incertezza assieme a Takabe, però egli, in quanto psichiatra, incarna la prospettiva scientifica, l'illuministica fiducia nella ragione. Il suo punto di vista non è adeguato a comprendere la natura dei fatti. Interpretando il caso e la mente di Mamiya - naturalmente in una maniera totalmente errata e fittizia - egli preferisce tenersi a distanza di sicurezza. Il timore di aprire veramente gli occhi non gli gioverà a sfuggire una fine meschina: il suicidio. La terza occasione in cui si ripete una scena che oppone un personaggio ad uno spazio aperto ed isolato, simbolo di vuoto interiore, si verifica per la moglie di Takabe, la quale, camminando sopra un ponte, viene colta da un attacco di panico e si smarrisce per la città. Già sappiamo dal film che il personaggio soffre di problemi mentali a causa dei quali è in cura da uno specialista. La follia è già la sua condizione esistenziale che la porterà all'internamento in una clinica psichiatrica. Nell'economia del film essa costituisce la causa primaria della sconfitta del detective. Mamiya, infatti, per indurre la pazzia nella mente del poliziotto farà leva sul risentimento inconscio che questi nutre nei riguardi della compagna.
Tsukamoto Shinyia, talento visionario conosciuto in Italia per la serie Tetsuo, offre con Gemini un modello eccellente della nuova strada imboccata dall'horror nipponico. L'esistenza serena di Yukio, uno stimato medico dell'esercito, è interrotta un giorno dall'inattesa comparsa del gemello Sutekichi., il quale, dopo aver provocato la morte di entrambi i genitori, prima lo rinchiude in un pozzo, poi lo sostituisce come medico e, cosa assai peggiore, come marito di Rin, la splendida moglie dal passato ignoto a causa di un'amnesia.
La ripetizione, attraverso il motivo del doppio rappresentato dal personaggio di Sutekichi, diventa la colonna portante del discorso sul riaffiorare del passato - leggi anche ritorno del rimosso - e sulla paura del diverso. L'autore dissemina indizi molto chiari in merito. Rivolgendosi alla moglie, Yukio dice: «È tutto nel passato... lascialo svanire, questa è la cosa più importante». Poco prima di incontrare il fratello, il medico si terrorizza incontrando per ben tre volte la propria immagine riflessa in uno specchio. Sutekichi ci viene mostrato per la prima volta come un'ombra che emerge lentamente dal buio di una stanza. Egli si presenta a Yukio in questi termini: «Io sono te...conosco i tuoi vizi, i tuoi gusti, tutto di te». Una volta rinchiuso nel pozzo, Yukio viene informato della triste vicenda del gemello. I genitori cercarono di annegarlo ancora in fasce a causa di un marchio, foriero di cattivi presagi, impresso su una gamba fin dalla nascita. Salvato da un vecchio egli condusse una vita scellerata all'interno di un gruppo di straccioni emarginati. Il racconto del fratello riguarda anche il passato di Rin, celato dietro la falsa amnesia. Compagna di Sutekichi, anch'ella apparteneva al gruppo di barboni reietti dal quale si allontanò dopo l'arresto dell'amante, ritrovando nel gemello medico l'amore provato per il primo. Dal riemergere del passato deriva l'ambiguità di Sutekichi e di Rin, vittime dei pregiudizi della società nei confronti del diverso. Il regista si diverte ad intrecciare le prospettive dei tre personaggi creando una labirintica confusione di ruoli attorno alla figura della moglie, la quale nel finale non sembra più in grado di riconoscere i due gemelli. Il protagonista sarà costretto a confrontarsi con il passato ponendo un limite alla dissociazione interiore che esso origina.
In questa pellicola non ritroviamo il gusto per l'abnorme visivo che aveva caratterizzato la serie Tetsuo, ma piuttosto un'attenta rilettura della storia e dell'iconografia tradizionali. Oltre a concentrarsi sulla caratterizzazione dei personaggi, Tsukamoto dà vita a suggestioni surreali e fantastiche ricorrendo solamente agli intensi contrasti cromatici dei trucchi e dei costumi, al lavoro sulle coreografie, all'uso massiccio della macchina a spalla, che destabilizza l'immagine creando ansia, alle musiche incalzanti di Ishikawa Chu.