La recita infinita: il mondo di David Mamet
di Aldo Spiniello
Sulla complessità della vicenda artistica di David Mamet si è detto molto: autore teatrale, attore, sceneggiatore, scrittore, regista cinematografico e chi più ne ha, più ne metta. Nato nel 1947, da genitori ebrei russi, si avvicina dapprima al teatro, dove esordisce come commediografo nel 1974 con Sexual Perversity in Chicago. Col tempo si afferma come uno dei maggiori autori teatrali americani contemporanei con testi come American Buffalo (1976), Glengarry Glen Ross (Premio Pulitzer nel 1984) e Oleanna. Il rapporto con il mondo del cinema inizia dalla sceneggiatura, dall'adattamento de Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, diretto da Bob Rafelson (1981). Segue lo script de Il verdetto (1982) di Sidney Lumet, che ottiene la nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura. E, ovviamente, al lavoro di scrittura Mamet non rinuncerà mai, neanche quando nel 1987 passerà dietro la macchina da presa con La casa dei giochi. In quasi trent'anni di attività, nove film da regista e una ventina di sceneggiature, tra cui Gli intoccabili di Brian De Palma, Americani di Foley, tratto dalla sua opera Glengarry Glen Ross, Ronin di Frankenheimer, l'ultimissimo Edmond di Stuart Gordon. Una produzione artistica imponente, in cui sono riconoscibili i segni di una personale cifra d'autore e di cui è difficile dar conto in poche linee essenziali.
Ma se si vuole trovare un punto di partenza, si può senz'altro affermare che uno dei temi centrali della poetica di Mamet è il dualismo verità-finzione, contrasto reso in infinite declinazioni, in un'ampia fenomenologia comportamentale che va dall'inganno alla truffa, dal doppio gioco al tradimento. Alla fine dei conti, vuol dimostrare Mamet, sia nei rapporti interpersonali che in quelli, per così dire, politici c'è sempre un margine ineludibile di falsità. Una tesi a cui si cerca di dare una spiegazione "razionale", attraverso l'analisi di dinamiche che sono proprie della società americana (e la sceneggiatura di Americani è esemplare in tal senso), ma che d'altro canto tendono all'universale. Il problema vero è nell'impossibilità della fedeltà. Da un lato non si può essere fedeli a un sistema di valori, a una morale continuamente messa alla prova dall'avidità e dal potere corruttore del danaro (The Spanish Prisoner, Spartan). Dall'altro non si può essere fedeli a se stessi, ai propri desideri e alle proprie pulsioni, apparentemente rimossi e sempre pronti a esplodere drammaticamente, aldilà della maschera di facciata, di uno schematismo comportamentale alienante e conformistico (La casa dei giochi, Edmond). Sono temi che tornano costantemente, ma che ci interessa far emergere soprattutto nelle prove registiche di Mamet. E il modo migliore per farlo, probabilmente, è quello di stabilire un confronto con un altro autore che fa della "falsificazione" uno dei motivi centrali del suo cinema: Atom Egoyan.
Il regista armeno-candese ha nel corso degli anni elaborato uno stile personale, in cui assumono rilievo emblematico i flashback e l'utilizzo di video e registrazioni. Stilemi che intervengono nel corso della narrazione a espandere il senso del racconto, a contraddire quanto già detto o a svelare ciò che si è taciuto. Egoyan dissemina i suoi film di false piste, per poi far emergere progressivamente la verità attraverso degli espedienti visivi o narrativi, in ogni caso prettamente cinematografici. In Mamet, invece, la falsificazione si presenta come cifra dei rapporti e non come metafora di uno stato esistenziale o di un percorso ermeneutico. Per questo la finzione, ricondotta al piano meramente umano, emerge soprattutto dal comportamento dei personaggi. Ecco: il nucleo del cinema di Mamet sta nell'idea della messinscena. Concetto che non si riferisce tanto all'attività del regista (il metteur en scène francese), quanto alla predisposizione "recitativa" dei personaggi, che si muovono sul palcoscenico della vita/fiction interpretando un ruolo diverso da quello "reale". È evidente già dal primo film di Mamet, La casa dei giochi, dove i colpi organizzati dal gruppo di truffatori capeggiati da Mike (Joe Mantegna) sono delle vere e proprie recite, la cui riuscita dipende dalla perfetta performance degli "attori". Ecco un altro punto fondamentale: attori interpretano dei personaggi che sono a loro volta attori. Si recita (e quindi si finge) continuamente: un doppio grado di falsità. Verrebbe da dire metacinema, ma in realtà non è esattamente così. Neppure di metateatro può parlarsi. I film di Mamet si pongono su una linea di confine, stanno a metà, sono teatro nel cinema o, forse meglio ancora, cinema sul teatro. Come è assolutamente evidente in Hollywood, Vermont (State and Main, 2000), cioè proprio nel film che più dovrebbe rispondere a un intento metacinematografico. Accanto al film che si sta girando nel paesino di Waterford, gli abitanti si dilettano in una compagnia di filodrammatici. E la finzione del teatro irrompe nel mondo del cinema (già di per sé finto) nella scena del falso processo in cui lo sceneggiatore imbranato (Philip Seymour Hoffman) rende testimonianza.

Non va poi dimenticata l'ambiguità dell'idea di recitazione, cioè del to play inglese. Recitare è giocare…ma giocare è rischiare, quindi far emergere un lato di sé che va oltre l'apparente, algido e perbenistico conformismo dei comportamenti. Di nuovo La casa dei giochi (non a caso) e il progressivo "svelarsi" della psicanalista interpretata da Linday Crouse. Oltre che mascheramento, la recitazione può essere liberazione delle pulsioni e degli istinti. In ogni caso il concetto di messinscena partecipa di questo dualismo fondamentale realtà-finzione. È chiaro che, seguendo queste premesse, generi come il thriller o il poliziesco diventano per Mamet terreni privilegiati di riflessione. Film come La formula di David Mamet (The Spanish Prisoner, 1998), Il colpo – Heist (2001), l'ultimo Spartan (2004) o anche la sceneggiatura di Ronin (1998), con il loro complesso di intrighi, cambi di campo e prospettiva, diventano la migliore esemplificazione di questa poetica del falso e dell'inganno.
Ma rimane un problema. Se, come detto, nei film di Egoyan il momento dello svelamento coincide con i flashback e con i "video nel video", dov'è questo momento nel cinema di Mamet? Semplice…la risposta è la più ovvia possibile. Sta nello svolgimento (rigorosamente diacronico) del plot. Tutto è scritto e, di conseguenza, fatto vedere. Come se prima si mostrasse la magia, l'artificio e poi si svelasse il trucco. Le cose cambiano (titolo geniale per una commedia alla Billy Wilder) davanti a noi con una velocità frastornante, con una logica implacabile e una chiarezza estrema. Il cinema di Mamet sancisce, senza possibilità di smentite, il predominio della sceneggiatura sullo stile e sulla visione. In altri termini, il predominio della parola sullo sguardo e degli attori sulla macchina da presa. Mamet in questo è assolutamente fedele alle sue origini. Il suo è cinema che, probabilmente, cessa di essere tale, per tornare (?) al teatro. Restano le atmosfere, sempre ammesso che il cinema possa vantare diritti di prelazione su situazioni, ambienti e umori. E si potrebbe dire, con buona pace dei puristi, che i film di Mamet, aldilà delle apparenze, sono sempre, in qualche modo, dei noir, appartengono cioè a un universo in cui è pressoché impossibile distinguere il vero dal falso e il confine tra realtà e illusione diventa più che mai precario.