Alfred Hitchcock: il cinema della falsificazione
di Aldo Spiniello
È impossibile, in poco tempo e in
poco spazio, racchiudere la complessità del genio di
un autore come Alfred Hitchcock. La sua opera (quasi sessanta
film in oltre quaranta anni di carriera) è talmente vasta
da non permettere l'utilizzo di facili formule semplificatrici.
Del resto i suoi film sono stati sottoposti ad analisi e interpretazioni
svariate e illuminanti, per cui sarebbe presuntuoso cercare
definizioni totalizzanti. Meglio concentrarsi su singoli aspetti,
seguire percorsi all'apparenza contorti - piccoli détournements
se si vuole -, ma forse più stimolanti. Poiché
ci è stato affidato il compito di scrivere di Hitchcock
in occasione della terza edizione del premio di critica "Giovane
e Innocente", sarebbe interessante capire il rapporto del
maestro del brivido con la critica e individuare, per quanto
possibile, una funzione critica nelle sue opere.
Si sa che, per lungo tempo, Hitchcock,
non è stato amato dalla critica cinematografica. Per
tutta la prima parte della sua carriera, è stato considerato
un bravo e onesto artigiano, capace di dar vita a film spettacolari
che attirassero l'attenzione del pubblico, puntando su aspetti
superficiali e sentimenti primari (la paura, la tensione, la
facile immedesimazione con i protagonisti). La parola "autore"
era bandita non appena si faceva il suo nome. Quand'ecco che,
negli anni '50, i giovani turchi, mai domi, dei "Cahiers
du cinéma" diedero vita ad una delle battaglie critiche
più famose della storia del cinema. Furono dapprima Godard
e Rohmer a dar fuoco alle polveri, il primo, nel 1952, con una
recensione entusiasta de L'altro uomo, il secondo affermando
che Hitchcock, oltre ad essere un grande tecnico, era anche
un grande "autore". Ma furono Chabrol e Truffaut a
condurre la battaglia vera e propria, cercando a più
riprese di avvicinare e carpire i segreti di colui che, a tutti
gli effetti, consideravano un maestro. Si sa che Bazin non era
convinto delle affermazioni dei suoi giovani allievi. Avendo
avuto l'occasione di incontrare Hitchcock un paio di volte,
riteneva che il regista inglese fosse completamente inconsapevole
dei temi cha andava svolgendo nella sua opera, ignaro di quella
profondità metafisica che i giovani turchi le attribuivano.
Naturalmente Truffaut, testardo, non concordava con il suo amato
maestro: "Mio caro André, mentre taceva, Hitchcock
rifletteva soltanto sul modo di farle credere che le stava svelando
un segreto da lui ignorato...Hitchcock le ha mentito".
E sulla scorta di queste convinzioni, sarà proprio Truffaut
a decretare la consacrazione definitiva di Hitchcock, con lo
splendido libro intervista "Il cinema secondo Hitchcock"
(la prima edizione è del 1967), in cui, a poco a poco,
il maestro del brivido scioglie il suo riserbo, rivela i suoi
segreti, il significato delle sue trovate tecniche, confessa
parte del suo mondo interiore. Ma sono interessanti soprattutto
le parole di Truffaut a Bazin, in quanto rivelano un lato del
carattere e dell'arte di Hitchcock che ci sembrano fondamentali:
la menzogna, la falsificazione.
Partiamo da un presupposto. Hitchcock non è un regista
"realista". Non registra la realtà, per riportarla
intatta sullo schermo. Modifica il reale, per piegarlo alle
proprie esigenze espressive. Tutto, dalla messinscena, alla
fotografia, agli spostamenti di macchina, è finalizzato
a ottenere un discorso cinematografico compiuto, implacabile,
senza sbavature, a ri-creare una realtà, sorretta dal
caso e dall'imponderabile, da sentimenti di tensione, paura,
angoscia. Per Hitchcock tutto deve essere sacrificato all'inesorabile
chiarezza del racconto cinematografico, alla costruzione della
macchina-cinema, che diviene una sorta di dimensione superiore,
in cui ogni manipolazione e falsificazione del dato reale trova
la sua superiore giustificazione. E Hitchcock è il regista
della falsificazione. Già nel modo di girare. Le sue
"invenzioni" visive non troverebbero alcuna giustificazione
realistica, se non quello della pregnanza narrativo-cinematografica.
Si pensi a The Lodger (1926) e alla scena del soffitto
di vetro, attraverso il quale si vede il protagonista camminare
nervosamente. O, ancora, alla celebre luce nel bicchiere di
latte de Il sospetto (1941), allo zoom sulla chiave di
Notorius (1946), alle inquadrature in rilievo de Il
delitto perfetto (1954), all'effetto vertigine de La
donna che visse due volte (1958). Ma a ben vedere la falsificazione
è presente anche nella complessa architettura tematica
dell'immensa opera del regista inglese. Da The Lodger
e Giovane e innocente (1937), su su sino ad arrivare
a Intrigo internazionale (1959), è infatti noto
l'interesse di Hitchcock per il tema dell'innocente perseguitato.
Io sembro ciò che non sono. Sono accusato di un delitto
che non ho commesso. Vengo coinvolto in un intrigo a cui sono
estraneo. Che cos'è tutto questo, se non la rappresentazione
di una falsificazione della realtà che congiura contro
il protagonista? "In effetti il motivo dell'uomo accusato
ingiustamente procura allo spettatore una sensazione di pericolo
più forte, perché ci si immedesima più
facilmente con quest'uomo che non con un colpevole in procinto
di evadere": è quanto Hitchcock rivela a Truffaut.
Ma, come si è detto, anche nel parlare Hitchcock falsifica,
si copre, si nasconde. In realtà non si tratta di semplice
tecnica narrativa, ma di una vera e propria ossessione personale,
come dirà poi: "...sono molto pauroso. Ho fatto
il possibile per evitare ogni genere di difficoltà e
di complicazioni. Mi piace che attorno a me tutto sia limpido,
senza nubi, perfettamente calmo". La perfezione del racconto
cinematografico come mezzo per esorcizzare la paura. La precisione
maniacale di Hitchcock, tanto famosa, altro non è che
il riflesso delle sue insicurezze e ansie. In questo senso,
il cinema diventa il mondo in cui le paure, il caos, gli elementi
di disordine vengono ricomposti nell'implacabilità della
forma. Come dice Ferrand ad Alphonse in Effetto notte:
"...I film sono più armoniosi della vita, non ci
sono intoppi, non ci sono rallentamenti nei film. I film vanno
avanti come treni...come treni nella notte".
Eppure questa falsificazione, questo ordine
superiore (illusorio) del cinema è anche strumento di
comprensione del reale. È innegabile che con i suoi film
così ordinati, stilizzati, "semplici", Hitchcock
arrivi a svelarci qualcosa in più della vita, a introdursi
nella nostra psiche, a parlarci di angosce esistenziali e metafisiche,
dell'impossibilità di un controllo razionale dell'esistente.
In fondo siamo tutti come Roger Thornhill ( Intrigo internazionale)
o Richard Hanney ( Il club dei 39): presi in meccanismi
più grandi di noi, dai quali dobbiamo difenderci lottando.
L'Arte modifica il reale, per ricomporlo in un'unità
superiore che gli conferisce un senso. È questa la grande
lezione di Hitchcock, quella di conferire al cinema il potere
di svelare un significato ulteriore. Per poi arrivare a riflettere
sui meccanismi del cinema stesso, come ne La finestra sul
cortile (1954), dove l'occhio dello spettatore/James Stewart
scruta, avido, i suoi vicini, osserva, scompone il complesso
degli elementi, per dar loro un'altra chiave di lettura, ricomporli
in una verità nuova e più profonda. È su
questo punto che bisogna soffermarsi, per porre in luce la funzione
critica dell'opera di Hitchcock.
Anche il critico, in fondo, mette in atto una falsificazione.
Sovrappone il proprio sguardo a quello del regista, offrendo
la propria lettura. Scompone l'opera, inseguendo il filo del
proprio discorso e del proprio sogno. In un certo senso è
un "tradimento". Perchè il suo sguardo non
può fare a meno di essere soggettivo e quindi diverso
da quello di qualsiasi altro. La sua lettura è, quindi,
falsa, in quanto non coincidente con le intenzioni dell'autore,
ma sempre e comunque vera, in quanto personale. Alla fine, si
tratta comunque di raccogliere gli stimoli sparsi, le folgorazioni,
le intuizioni in un ordine superiore, che produce un senso ulteriore
e nuovo. Non si tratta di un semplice servizio all'opera di
riferimento, un commento, una chiosa, ma un'opera del tutto
nuova, un'opera alla seconda potenza, che si nutre di vita e
di cinema. È proprio perchè mette in gioco se
stesso che il critico si mette al riparo da ogni accusa ingiusta.
Egli non può che essere "giovane e innocente".
Appunto.
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