Il cinema randagio di Sergio Citti
di Livio Marchese
Per chi le borgate romane le ha sempre
e solo viste sullo schermo o immaginate attraverso le pagine
dei romanzi pasoliniani, fa una certa impressione passeggiare
per le strade di Pietralata, Torpignattara o della Marranella.
Significa toccare con mano gli effetti della mutazione antropologica
e dell'omologazione degli strati sociali e degli ambienti urbani
profetizzati da Pasolini sin dai lontani anni '50, poi sanciti
dalla "lettera luterana" sulla prima televisiva di
Accattone. Non mi aspettavo quindi di rinvenire intatti
quegli ambienti e quei volti, ma produce inevitabilmente un
effetto straniante trovarsi, nelle strade del suburbio romano,
di fronte a negozi di computer e di telefonia mobile e poi,
a distanza di pochi passi, presso vaste aree cespugliose dalle
quali, sforzando la vista, emergono le ultime, ormai disabitate,
baracche.
I Citti sono proprio come quelle baracche.
Ultimi baluardi della resistenza alla massificazione della società,
solide roccaforti sotto stato d'assedio della cultura sottoproletaria
romana e, risalendo di qualche generazione, immarcescibili residui
di una civiltà contadina consapevole ed orgogliosa della
propria identità, che ostinatamente tarda ad adeguarsi
e ad accettare il triste scorrere del tempo.
Qualche tempo fa, su "Fuori orario",
è andato in onda un ciclo di proiezioni
dedicato a Miklos Jancsò. Apriva la puntata un breve
estratto dalla conferenza Per conoscere Pasolini (1978),
nella quale il regista de I disperati di Sandòr,
visibilmente commosso e dopo essersi scusato per il suo italiano
zoppicante, ricordava il massimo intellettuale italiano del
secondo dopoguerra con delle splendide, traballanti, parole
che volavano dritte al cuore. Se Pasolini, stando all'ateo Jancsò,
è stato uno dei pochi figli di Dio che la Storia ha generato,
Sergio Citti, che in quell'occasione spalleggiava il regista
ungherese, è stato l'apostolo che ha sì saputo
proseguire sulla strada tracciata dal Maestro, ma in piena autonomia
e indipendenza, e coltivando un'idea di cinema assolutamente
unica e irripetibile perché fortemente intrisa fino al
midollo delle proprie uniche e irripetibili esperienze personali.
Non si vogliono mettere qui a confronto
due esperienze così diverse. È evidente che Sergio
Citti, da un paragone sul piano culturale o ideologico con Pasolini,
ne esce schiacciato (bisognerebbe, in ogni caso, chiarire su
quale metro vada misurato il concetto di "cultura",
a quali canoni risponda). Ma è anche vero che studiandone
a fondo l'opera, si nota come i prestiti corrano in entrambe
le direzioni e che non è assolutamente vero che Sergio
Citti è un "prodotto" pasoliniano. Per certi
versi, anzi, vale il contrario. Oggi non è più
un mistero che la materia "bruta" di Ragazzi di
vita e Una vita violenta, ma soprattutto di Accattone
sia da attribuire al Pittoretto della Maranella. Che poi si
tratti di opere pienamente pasoliniane, questo è fuor
di dubbio, ma ciò che importa è che l'ispirazione
che a loro soggiace è per buona parte cittiana.
Nei tardi anni '60, Sergio Citti riuscirà
finalmente a mettersi in proprio ma, dagli esordi fino alle
ultime prove, il suo cinema sarà bersagliato da una serie
di pregiudizi che lo porranno in una situazione di marginalità
obbligata, tanto che, al giorno d'oggi, a oltre trent'anni dal
debutto, non esiste in commercio una sola monografia che affronti
sistematicamente la sua opera. Di pregiudizi si diceva. Ma anche
di ignoranza e di razzismo. Quando Pasolini era ancora in vita,
si spacciavano addirittura per suoi, film ai quali l'intellettuale
bolognese aveva contribuito esclusivamente in fase di scrittura.
Nel 1970, all'epoca della prima comparsa nelle sale, Ostia
dovette soccombere a razzistiche e spietate logiche di mercato:
si escogitò addirittura un espediente grafico, sulla
locandina, affinché il film apparisse agli occhi del
pubblico come un nuovo parto pasoliniano. In realtà,
di pasoliniano Ostia ha ben poco. Alla semplice lettura
della sceneggiatura, la mano dell'amico intellettuale si intravede
con una certa facilità, con quelle descrizioni liricheggianti
e quei continui riferimenti alla pittura medievale e rinascimentale,
ma il suo contributo si ferma lì. D'altra parte anche
in futuro Citti si servirà spesso dell'apporto degli
amici -Pasolini prima, Vincenzo Cerami e David Grieco poi -
in sede di sceneggiatura. Nel caso di Ostia si era trattato
di un aiuto in fase di scrittura (anche tecnico: Citti non sa
scrivere a macchina), del resto prestato dalla persona più
indicata proprio perché era l'unica a conoscere davvero
a fondo la personalità del regista. La prova che spazza
definitivamente via ogni dubbio sulla paternità dell'opera
è il fatto che nella fase precedente la realizzazione,
Pasolini era impegnato nella post-produzione di Porcile,
mentre, nel corso delle riprese, egli non poteva essere presente
sul set, trovandosi in Turchia per Medea.
Ritengo siano rari i casi in cui, negli
ultimi trentacinque anni di cinema italiano, si possa parlare
di "film d'autore" in senso stretto. Se con l'espressione
"film d'autore" s'intende un'opera che affondi profondamente
nelle viscere del suo creatore, mettendone a nudo i lati più
oscuri della personalità, che si faccia carico delle
esperienze di vita più intime, riuscendo a sublimarle
in forma poetica, Ostia è certamente del gruppo.
Per Citti sarà il film della vita, il capolavoro tante
altre volte inseguito e, forse, mai più raggiunto. Pasolini
stesso lo definisce "un'affabulazione nata da esperienze
profonde e atroci dell'autore". Eppure, nonostante ciò,
Citti veniva considerato un epigono pasoliniano fuori tempo
massimo, l'inutile cantore di un mondo ormai scomparso. Quello
che sfuggiva ai critici dell'epoca, distratti nel migliore dei
casi, insopportabilmente snob nel peggiore, è che, come
scriveva Pasolini, "l'amore di due fratelli, insidiato
dal diavolo, è un fatto poetico che poteva svolgersi
benissimo anche nella Milano bene". Per intenderci, Ostia
è molto più vicino a una tragedia greca che ad
Accattone. Uno stupro, un incesto, un parricidio, un
fratricidio: non ci vuole molto per capire che a muovere Citti
non è certamente l'intento sociologico-linguistico che
animava Pasolini, ma la volontà di rendere in maniera
poetica, sublimare e trasporre ad un livello metafisico la propria
filosofia "di vita" e le esperienze più intime,
dal rapporto simbiotico col fratello Franco, a quello tormentato,
fatto nello stesso tempo di attrazione e repulsione per il sesso
femminile, all'amicizia pura e disinteressata fra individui
dello stesso sesso, alla convinzione che il destino dell'uomo
è già segnato ed è impossibile cambiarlo.
A parte pochi illuminati, la maggior parte
della critica italiana storceva il naso, considerando il Nostro,
al più, un naïf, senza accorgersi che dietro
il film c'era un problema estetico rilevante quale la conversione
delle tecniche del racconto orale nel linguaggio delle immagini.
Da sempre Citti ha un innato talento nell'arte del racconto
- è proprio quello che colpì Pasolini ai tempi
del loro primo incontro - ed è capace di esercitarla
indifferentemente con gli amici pescatori, così come
col pubblico borghese e intellettuale. Il problema che il regista
si poneva agli albori della sua carriera era quello di sopperire
alla presenza invasiva della macchina da presa. Nel corso degli
anni avrebbe ribadito più volte il sogno della sua vita:
affittare una sala cinematografica e intrattenere gli spettatori
servendosi esclusivamente della propria capacità affabulatoria,
come un moderno cantastorie. Sin dai tempi di Ostia,
Citti è quindi riuscito a trovare un compromesso fra
l'uso di una forma espressiva che non lo ha mai convinto in
pieno - il cinema mostra delle immagini prestabilite e toglie
spazio alla fantasia dello spettatore - e la ricerca di uno
stile che possa ovviare a questo inconveniente, facendo avvertire
il meno possibile la presenza "castrante" della macchina
da presa. Dai suoi film sono banditi movimenti di macchina sinuosi
o lunghi ed elaborati piani-sequenza. Le inquadrature sono sempre
brevi, quasi fulminee e generalmente a macchina fissa. Non si
creda però che uno stile così sobrio ed essenziale
sia sinonimo di sciatteria: ci sarebbe parecchio da scrivere
sulla sensibilità "pittorica" e sullo straordinario
gusto nella composizione dell'immagine (valgano per tutti gli
interni caravaggeschi di Ostia).
Nel '73 Citti torna dietro la macchina
da presa per Storie scellerate. Il film venne sbrigativamente
inserito nel calderone delle filiazioni degeneri del Decameron,
quando in realtà esso aveva poco da spartire anche col
fratello maggiore pasoliniano. Storie scellerate è
un oggetto alieno nel panorama cinematografico nazionale: è
il parto di un regista sottoproletario ma di ascendenza contadina
che si propone di fare i conti con il mondo da cui proviene.
Per Citti rappresenta un notevole sforzo culturale dal momento
che, per trarre ispirazione, gli fu consigliata la lettura del
Bandello e dei novellieri del '500. Ma se il progetto originario
era quello di rendere cinematograficamente alcune novelle dei
suddetti autori affiancandole a due episodi già girati
da Pasolini per il Decameron, poi rimasti fuori dal montaggio
definitivo, Citti, come sempre, fa di testa sua. Tralascia il
materiale già pronto ed elabora una struttura composita,
quattro racconti più uno come cornice. È uno schema
con cui dimostra di trovarsi parecchio a suo agio e che gli
permette di sfruttare al meglio le proprie doti di affabulatore.
In Storie scellerate il legame con la tradizione tipicamente
popolare del racconto orale è fortissimo: le storie non
sono altro che racconti dei protagonisti della cornice e alcune
di esse, il regista, da piccolo, le aveva ascoltate nelle osterie
delle borgate romane.
Abbandonata l'ambientazione cinquecentesca,
Citti colloca le proprie storie ai primi dell'Ottocento, nella
Roma papalina dei sonetti belliani. Le cinque novelle presentano
nel loro svolgimento delle costanti. I protagonisti, siano essi
pastori, aristocratici, papi o popolane, sono mossi esclusivamente
dagli appetiti più bassi - sesso e fame in primo luogo
- che Er Mozzone filma senza quei falsi pudori che potrebbe
mostrare un regista borghese alle prese con una materia così
"sconveniente". Al di sopra di tutti gli eventi narrati
si colloca la morte, la vera protagonista. Di fronte ad essa
Citti mostra un atteggiamento ambiguo. Nelle quattro storie
raccontate dai due picari la morte è nient'altro che
il normale corso degli eventi, un momento transitorio del processo
ciclico di distruzione-rigenerazione del corpo-cosmo che il
regista imperturbabile contempla con stoico distacco. La rappresentazione
della morte convive quindi con quella del sesso o del banchetto
senza che il regista adoperi un registro diverso per l'una o
per gli altri. Nel finale, con l'impiccagione dei due picari,
emerge l'altra faccia della filosofia "di vita" cittiana,
l'epicureismo. Bernardino e Mammone sono due "morti de
fame" che dalla vita non hanno ottenuto niente, ma che
non hanno esitato a spassarsela quel poco che è stato
loro concesso. E possono quindi morire col sorriso sulle labbra,
proprio come il gaudente Piuccio che nell'ultima storia scellerata
era stato destinato al Paradiso da un Padreterno rozzo e contadino.
Storie scellerate è l'ultimo
film che Citti gira potendo contare sull'apporto pasoliniano.
La notte del 2 novembre 1975, all'Idroscalo di Ostia, l'Italietta
clerico-fascista post-mutazione antropologica si purga della
propria cattiva coscienza. Da allora in poi il regista dovrà
vedersela da solo con un mondo in cui non si riconosce più.
Le opere successive, Casotto e Due pezzi di pane,
saranno quindi fortemente imbevute delle riflessioni pasoliniane
sul "genocidio" e sulla "scomparsa della lucciole".
La prima di esse, Casotto, nasce più per necessità
produttive che per esigenze artistiche, ma conferma Citti regista
dalla mano sicura, capace di far funzionare come un orologio
svizzero un cast ben poco omogeneo. Scambiato sbadatamente per
l'ennesimo film sull'Italietta alla spiaggia, Casotto
radicalizzava la peculiare lotta dei sessi tipicamente cittiana
e metteva in scena un'umanità ormai incapace di dare
sfogo agli impulsi primari. Se il film si apriva con una panoramica
a 360° gradi sullo spazio arioso delimitato dal mare e dalla
spiaggia, alla quale faceva seguito, dopo qualche inquadratura,
un identico movimento di macchina, ma questa volta all'interno
del casotto vuoto, era proprio perché la natura selvaggia,
il mondo incontaminato-spazio vitale per lo spiritello Ninetto
Davoli, si è imbastardito ed è degenerato nello
spazio chiuso-repressivo del casotto-prigione. I protagonisti
del film non sono altro che i discendenti dei personaggi di
Storie scellerate, ma antropologicamente mutati e spogliati
del flatus vitae necessario per concretizzare le proprie
pulsioni. Geniale, poi, l'idea di girare l'intero film all'interno
di una cabina balneare, il palcoscenico sul quale l'umana commedia
si mette a nudo, letteralmente e metaforicamente. Due pezzi
di pane (1979) affronta gli stessi argomenti, ma con un
tono più lieve e una messinscena a metà strada
fra la favola surreale e il musical popolare. Protagonisti del
film sono due suonatori ambulanti, Pippo e Peppe, in cui si
ritrovano condensate tutte le componenti dell'ideale etico cittiano:
l'amicizia-solidarietà fra esseri dello stesso sesso,
la purezza dei sentimenti, l'anarchia e la filosofia del "sapersela
gode". Citti seguiva la loro vicenda dai felici e sognanti
anni '50 agli squallidi e disumanizzati anni '70. Chiudeva il
film, ancora una volta, il binomio morte-risata, ma mentre in
Storie scellerate si trattava del riso beffardo di chi muore
soddisfatto per aver succhiato fino al midollo quel poco che
la vita gli ha concesso, in Due pezzi di pane l'estremo
atto di Pippo e Peppe assume l'aspetto inquietante dell'ultima
risata del mondo, amara e disincantata come prodotta da chi
possiede ormai la consapevolezza che si è giunti al capolinea.
Due pezzi di pane è un film profondamente pessimista
sul futuro dell'esistenza umana, ma in esso la muta tragedia
di Ostia e il ghigno beffardo di Storie scellerate
si stemperano in un'atmosfera nostalgica e incantata. La degradazione
dell'umanità non è urlata, ma malinconicamente
rappresentata tramite i delicati ricordi del bel tempo che fu
e la dolorosa constatazione dell'irreversibile precipitare degli
eventi verso il baratro.
Sorvolando sulle traversie produttive che
da allora in poi intralceranno puntualmente il cammino del Pittoretto
della Maranella, è da rilevare come con il film successivo,
Il minestrone (1981), Citti realizzi il suo antico sogno
di incentrare un film su un tema - la fame - che un regista
tradizionale fuggirebbe come la peste. Fra i film cittiani è
certamente uno dei più "filosofici" e il termine
non è da prendere con le pinze, perché quella
che il regista propone è, nel suo piccolo, una "visione
del mondo", una lettura delle cose. Certo non organica
e sistematica, ma estremamente coerente e pregna di esperienze
personali che affondano in secoli e secoli di sofferenza, povertà,
miserie e privazioni. Editato in due diverse versioni (quella
destinata alle sale, decurtata di un'ora, sarà disconosciuta
dallo stesso regista), Il minestrone racconta le surreali
peripezie di una comitiva di "morti de fame" attraverso
un mondo sempre più ostile, alla ricerca dell'impossibile
soddisfazione dell'impulso primario dell'essere umano. Si è
già visto come l'amicizia fraterna e la solidarietà
siano i sentimenti "forti" dell'etica cittiana. Ne
Il minestrone, film di deriva antropologica, esse conservano
la loro validità solo in quanto dettate da necessità
e da calcolo opportunistico. È efficacissimo il modo
in cui Citti rende cinematograficamente questo senso di solidarietà
per necessità. Se in Due pezzi di pane Pippo e
Peppe, in cella, potevano ancora entrare in immediata sintonia
con i "coinquilini" semplicemente unendosi al loro
canto, ne Il minestrone questo non è più
possibile. Francesco e Giovannino, in carcere, fanno conoscenza
col Maestro, ma ciascuno cantando la propria canzone. Questo
accorgimento ritorna più volte nel film, man mano che
la compagnia dei morti di fame si ingrossa, finché si
giunge alla situazione paradossale di una gran folla di gente
che marcia in fila indiana, ciascuno impegnato in una canzone
diversa da quella degli altri. Il risultato è un'assordante
e cacofonica sovrapposizione di voci individuali, culminante
nell'unico grido distinguibile: "C'ho faaame!!!".
Questo perché dal momento in cui gli uomini hanno rotto
il patto di solidarietà originario, alcuni di essi hanno
sopravanzato gli altri. Sono così nate le differenze
di classe - che per Citti si riducono a "padroni-affamatori"
(chi mangia e caca) e "sfruttati-affamati" (chi non
mangia e non caca) - e il mondo è degenerato, trasformandosi
in un "cesso". Che il mondo sia diventato un cesso,
Citti lo rende cinematograficamente in maniera manifesta estremizzando
le soluzioni paesaggistiche già accennate nella seconda
parte - il "post-mutazione" - di Due pezzi di pane.
Si può leggere Il minestrone anche solo prestando
attenzione al puro e semplice scorrere dei paesaggi sullo schermo
che offrono un significativo contrappunto alle avventure dei
protagonisti. Il film si apre dipingendo uno scenario di tipico
degrado urbano - al cielo, deturpato da enormi e squallidi palazzoni,
fa da contrappunto la terra, insozzata da cumuli di immondizia
- e si chiude sulle immense distese gelate, prive di qualsiasi
forma di vita, delle Alpi. Fra questi due estremi, i morti di
fame, residui antropologici alla deriva, si trovano ad attraversare
luoghi che risentono fortemente del contrasto fra "natura"
e "modernità". Nella filosofia cittiana non
c'è posto per la speranza. Per questo il film ha una
struttura circolare e chiusa in se stessa. Il personaggio a
cui dovrebbe essere affidata la salvezza, Lui, è una
sorta di Messia in vestaglia da ospedale e armato di flebo invece
che di pastorale. Lui guida con fare profetico la processione
dei morti di fame, attraverso territori sempre più aspri
e brulli, dicendo che "bisogna andare di là, all'estero!".
Ma "di là" non c'è nulla - la comitiva
di affamati ne incontra una analoga che procede in senso inverso
-, solo freddo, neve ed una surreale banda di ottoni che intona
una marcia funebre.
Nel 1985, dopo anni di difficoltà
e incomprensioni di ogni sorta, Citti può finalmente
tornare dietro la mdp per Sogni e bisogni, film-fiume
televisivo di circa 6 ore, organizzato in undici racconti e
una cornice. Sogni e bisogni è il compendio della
filosofia "di vita" cittiana. Per certi versi si tratta
di un film "sperimentale", ma il termine è
da intendere non in riferimento al linguaggio cinematografico,
bensì in relazione alla materia narrativa, al puro e
semplice gusto per l'intreccio, per le situazioni paradossali,
per i colpi di coda inaspettati. Con Sogni e bisogni
Citti può finalmente dare pieno sfogo al suo estro di
contastorie. Gli undici episodi sono come altrettante tessere
di un mosaico che, insieme, compongono la peculiare visione
del mondo del regista romano. Il viaggio dei personaggi-guida
- il Destino, il Padreterno e il Diavolo - alla ricerca del
"libricino" sul quale sono scritti il passato, il
presente e il futuro di tutti gli uomini, diventa quindi il
pretesto per inanellare una serie di storie dalle tematiche
e dai toni più disparati. Forse non tutte ugualmente
riuscite, ma ciascuna, a suo modo, rappresentativa del modo
cittiano di guardare la realtà. Si va quindi da Amore
cieco a Cuore nero, fisicamente e contenutisticamente
agli antipodi, attraverso una serie di casi umani osservati
sempre con stoico distacco.
Mortacci (1989) è l'ennesima
zampata cittiana. Pressoché interamente girato in un
credibilissimo cimitero costruito a Cinecittà, il film
è ancora una volta una raccolta di novelle con cornice:
l'arrivo al cimitero del soldato costretto ad "allontanarsi"
dal paesino in cui è tornato dopo quattro anni di assenza,
apre le danze ad uno show in cui i morti, a turno, raccontano
la storia della propria dipartita. Una piccola Spoon River
nostrana quindi, in cui i racconti dei morti sono le uniche
occasioni per la macchina da presa di varcare le soglie del
palcoscenico principale. Nella cornice si narra invece della
vita quotidiana nel piccolo cimitero, del custode Domenico,
rapace predatore di cadaveri, di Edmondo, l'attore cane che
ogni notte scavalca le mura per recitare sulla tomba della propria
amata, di grotteschi commerci di scheletri ed ossa, delle ipocrite
visite di parenti, amici e congiunti. Citti rovescia il tema
della fama produttrice di immortalità che tanto successo
ha avuto nella poesia cimiteriale pre-romantica: la gloria,
gli onori, il successo, che per i vivi rappresentano la speranza
dell'immortalità, per i morti sono solo una palla al
piede che li costringe a "vivere" in questa sorta
di limbo dantesco. Geniale la conclusione: morto il custode,
il cimitero viene preso d'assalto dai vivi che tentano di introdurvisi
per continuare a onorare ipocritamente i loro defunti. Dietro
il cancello, quindi, i vivi, con i loro affanni quotidiani,
le loro miserie e le loro meschinità; davanti a loro,
i morti guardano sornionamente il teatrino della vita e, con
un ghigno beffardo, si accingono a deporre una spiga di grano
sui loro cari che non hanno ancora oltrepassato la soglia. Non
bisogna aver paura della morte, ci dice Citti, perché
la morte non è altro che un passaggio da una morte -
la vita con tutti i suoi inutili affanni - ad un'altra, e in
fin dei conti ci può essere più vita nella seconda
che nella prima. "Mortacci nostri!!!", sogghignano
in conclusione i morti e lo schermo, gradualmente, si ricopre
di spighe di grano, simbolo evangelico-paolino della rigenerazione.
Nei primi anni '90 si diffonde la notizia
che Sergio Citti sta per mettere mano al Porno-teo-kolossal
pasoliniano, ma il film che ne ricaverà, I Magi randagi,
erediterà dal soggetto originario soltanto l'idea narrativa
di fondo - il viaggio dei Magi al seguito della cometa - e il
tono del racconto, fra il comico e il surreale. Nessuna traccia
delle implicazioni ideologiche che appesantivano il progetto
del Maestro: se per Pasolini la Cometa rappresentava la falsità
delle ideologie, per Citti essa diventa il bisogno strettamente
radicato nell'essere umano di credere in qualcosa. I Magi
randagi (1996) racconta le peripezie di tre artisti di un
circo scalcinato incaricati dal Padreterno in persona di annunciare
all'umanità allo sbando la venuta del nuovo Messia per
la redenzione. Operando un'interessante contaminazione fra sacro
e profano, Citti cala i tre disgraziati in situazioni sempre
più paradossali, alle prese con un mondo che ha reciso
ogni legame con l'"etica umana". Alla fine di questa
peregrinazione i re Magi non troveranno il nuovo Figlio di Dio,
ma acquisteranno una coscienza e scopriranno che ogni bambino
che nasce, forse, è il nuovo Redentore. Insieme a Ostia
e a Il minestrone, I Magi randagi è uno
dei vertici di tutto il cinema cittiano. Alla sua visione si
piange, si ride, ci si stupisce, ci si indigna e ci si commuove
come da troppo tempo non capitava per un film italiano. Tullio
Kezich, per trovare dei precedenti nella cinematografia italiana
che fossero vagamente accostabili alle atmosfere de I Magi
randagi, faceva riferimento a Francesco giullare di Dio
di Rossellini e a La strada di Fellini. Il Padreterno
definisce i Magi come "tre scemi", ma Citti riesce
a scolpirli nell'immaginario cinematografico nazionale caricandoli
della purezza sacrale del Francesco rosselliniano e dell'ingenuità
salvifica della Gelsomina felliniana. Con un occhio di riguardo,
ovviamente, all'umorismo stralunato dei Totò e Ninetto
pasoliniani.
Due anni dopo, con Cartoni animati,
il rapporto del regista col pubblico delle sale tocca il suo
punto più basso, visto che al film non viene neanche
concessa l'opportunità di un riscontro in tal senso.
Accreditato alla "regia di Franco Citti con la fraterna
collaborazione di Sergio Citti", Cartoni animati,
a conti fatti, non aggiunge nulla di nuovo alla filosofia cittiana.
Libere variazioni sulle solite ossessioni, è vero, ma
con Citti non ci si annoia mai. E non è poco in tempi
in cui nel cinema italiano pare sia in corso un preoccupantissimo
fenomeno di omologazione. Lo spunto narrativo deriva da uno
dei film più amati dal regista, Miracolo a Milano.
Il protagonista del film di De Sica, Totò, era un ingenuo,
un puro di cuore innamorato della vita che grazie al buonumore
e alla capacità di sognare riusciva a salvare un'intera
comunità di diseredati dalle ingerenze di un perfido
imprenditore. Cartoni animati racconta una situazione
molto simile. Il nipote di Totò, Salvatore, è
un allegro ragazzone che circola sul suo sidecar regalando sogni
alla povera gente accampata in una fabbrica dismessa. Con Cartoni
animati Citti ci dice che l'unica possibilità per
l'uomo di sollevarsi dalle miserie, dalla tragedia del vivere
quotidiano, risiede nella capacità di sognare. Ancora
una volta un suo film si regge sulle antinomie: da una parte
il destino, la necessità, i "bisogni" della
vita quotidiana, dall'altra i "sogni", uniche possibili
vie di fuga. Ma i due piani si confondono. Dove sta la vera
vita? Negli affanni e nelle necessità di ogni giorno
o nella libertà, nella felicità, ma anche nell'inafferrabilità
del sogno? Quando un'impresa giapponese acquisterà il
terreno sul quale sorge la fabbrica per raderla al suolo e costruire
al suo posto degli impianti nuovi di zecca, al povero Salvatore
non resterà altro da fare che assistere coi propri occhi
al trasferimento degli ex-occupanti in un anonimo palazzone
e alla conseguente rottura dell'armonia che fino ad allora aveva
regolato la vita della piccola comunità. Il progresso
causa perversa della degradazione umana: è questa l'attualizzazione
cittiana del modello desichiano. Come Il minestrone,
anche Cartoni animati è un film di deriva antropologica.
Entrambi terminano con finali aperti e quelli che avrebbero
dovuto rappresentare i personaggi salvifici - Lui ne Il minestrone,
Salvatore in Cartoni animati -, hanno ben poco da opporre
a questo irreversibile processo di degradazione. Identica la
domanda degli adepti: "Dove ci porti?", simili le
risposte dei rispettivi profeti: "Che cazzo ne so!",
diceva Lui; "A quel paese!", risponde Salvatore.
Nonostante lo sfortunato esito di Cartoni
animati e il grave stato di salute del fratello Franco,
Sergio non si perde d'animo e si rimette al lavoro. Vipera
è ancora una volta la storia di una tragedia familiare.
In un paesino siciliano, negli anni della seconda guerra mondiale,
la piccola Rosetta vive con il padre perennemente sbronzo dopo
l'abbandono della moglie. Rosetta è una delle figure
più poetiche create da Citti: abbandonata dalla madre,
violentata e messa incinta dal federale Guastamacchia, la ragazzina
assisterà impotente alla morte del padre e perderà
il frutto del suo grembo, rinchiuso in orfanotrofio a causa
delle infondate dicerie di incesto messe in giro dal fascista-stupratore.
Peccato che a delle premesse così stimolanti non faccia
da appendice un seguito all'altezza, tant'è vero che
la seconda parte del film, che stranamente non rispetta il soggetto
originario, appare decisamente disorganica. Vipera avrebbe
dovuto essere, dopo Ostia, l'opera cittiana più
marcatamente autobiografica. Purtroppo le cose andranno diversamente
e quello che avrebbe potuto essere, con Ostia, il film
della sua vita, diventerà, paradossalmente, l'episodio
meno riuscito. Da sublimazione di atroci esperienze personali,
il film si trasforma in una riflessione sulla natura femminile
e sul tema della maternità. Rosetta e Vipera, la figlia
e la madre, non sono altro che due facce della stessa medaglia.
Se Rosetta è la Santa, la vittima apparentemente destinata
al martirio ma che alla fine troverà la felicità
rincontrandosi col figlioletto prematuramente strappatole, Vipera
è la Puttana, la mangiatrice di uomini che non può
soddisfare in pieno la prerogativa del femminile perché
la maternità rappresenta la maturità, l'incombere
della vecchiaia, il timore di non risultare più appetibile
all'altro sesso e di non potere esercitare più su di
esso il suo potere prevaricatore. Dopo Vipera Citti gira
ancora un altro film, Fratella sorello, ma a causa dei
soliti problemi di distribuzione, il film è rimasto a
tutt'oggi nel cassetto.
Sergio Citti, da più di un anno,
si trova in condizioni di salute decisamente preoccupanti. Chiacchierando
con Roberto Simmi, oste a Trastevere, amico d'infanzia di Sergio
e interprete di alcuni suoi film, ci siamo trovati d'accordo
sul fatto che, probabilmente, la grandezza di questo regista,
ingiustamente bistrattato, verrà apprezzata solamente
post mortem. I detrattori hanno spesso insistito sulla
scarsa attinenza del cinema cittiano alla realtà sociale,
politica ed economica del nostro Paese. Niente di più
sbagliato. Perché ciò che non lo interessa a livello
sociale o ideologico, Citti, osservatore attento, lo "sente"
a livello personale. Tant'è vero che la sua filmografia
registra in filigrana tutto il dramma che la società
italiana ha attraversato dal boom economico dei primi anni '60
ai giorni nostri, in maniera probabilmente ben più efficace
di quei film che se lo ponevano come obiettivo primario.
Forse per Sergio è un bene che la
sua opera sia praticamente sconosciuta (se è vero che
il ricordo dei vivi impedisce a chi ha oltrepassato la soglia
di godere in santa pace della vera morte), ma è anche
vero che in quest'inferno che è la vita odierna c'è
ancora un bisogno viscerale delle sue storie. Perché
quando Sergio Citti, l'ultimo dei custodi della Terra, tornerà
polvere come lo scheletro de Il minestrone, per chi resta
saranno davvero guai.