Il cinema di Nanni Moretti: l’inettitudine alla vita
di Alessio Gradogna
Nanni Moretti occupa da oltre venticinque anni un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema italiano. I suoi lavori, dagli esordi (La sconfitta e Paté de Bourgeois, 1973, Come Parli Frate?, 1974, Io Sono un Autarchico, 1976, Ecce Bombo, 1978) fino all'ultimo episodio (La Stanza del Figlio, 2001), hanno sempre provocato dibattiti e discussioni, analisi e controanalisi, apprezzamenti e polemiche, finendo comunque per ingigantire la figura di un autore (nel senso più completo del termine) che ha saputo modificare il vigente linguaggio cinematografico e ridare respiro ad una filmografia italiana che proprio negli anni '70 e '80 ha attraversato il suo momento di più acuta crisi. Molto è già stato detto, scritto e ripetuto riguardo alle accezioni sociologiche, socio-politiche e semifilosofiche delle sue opere, per cui non andremo qui a ribadire concetti già abbondantemente sviscerati nel campo critico del settore. Ci occuperemo invece di una caratteristica a nostro avviso ben presente e ben costante nel percorso artistico del regista di Brunico: l'inettitudine a vivere dei suoi personaggi.
Le opere di Moretti hanno costantemente avuto fra i dati dominanti nel campo dell'analisi un certo autobiografismo, spesso dichiarato dallo stesso autore e comunque raramente mascherato dietro a drammi semplicemente oggettivi, e soprattutto un filo intertestuale costante che lega Moretti stesso e il suo alter-ego Michele Apicella, soggetto dominante di larga parte della sua filmografia, un filo sottile ma ben visibile, portatore di un certo pessimismo non tanto cosmico quanto, letterariamente parlando, ipotattico.
Ci spieghiamo meglio: Michele Apicella è un individuo apparentemente innocuo e quasi compassionevole, (s)perduto in sogni irrealizzabili e contesti confusi, bimbo tremante di fronte ad una realtà in continua evoluzione che troppo velocemente muta i propri confini perché sia possibile rimanere legati ad essa. Nella discontinuità della sua esistenza, nei dubbi irrisolti che popolano ogni suo movimento e ogni sua parola, nell'incapacità di porre in essere una vita permeata da certezze e concretezza, Michele avvolge se stesso in un gorgo instabile di sentimenti e disillusioni, fallimenti e gesti inconsulti, finendo a subordinare in questo caotico vortice anche gli amici, i familiari, chiunque gli stia attorno.
L'ipotassi della baraonda morettiana è dunque da intendersi all'interno di un microcosmo variabile legato alle poche (spesso pochissime) anime che compartecipano alla vita del personaggio, figurine tratteggiate ora con sufficiente chiarezza (La Stanza del Figlio, Palombella Rossa, 1989), ora come oggetti nebulosamente sfocati ai margini delle inquadrature (Sogni d'Oro, 1981), ora come marionette pensanti pronte a finire inglobate nelle ire funeste di Michele e nella sua primigenia e inoffensiva impossibilità a vivere (in larga parte delle altre pellicole, tranne in Bianca, 1984, dove la cecità esistenziale del protagonista arriva a toccare i confini dell'omicidio seriale).

Michele Apicella pare così assumere i contorni del personaggio inetto tipico dei romanzi di Italo Svevo: come l'Alfonso Nitti di Una Vita egli è tipo debole, profondamente insicuro dal punto di vista psicologico, un antieroe incapace alla vita, afflitto e paralizzato da una diversità di aspirazioni ed atteggiamenti che vanno a scontrarsi con l'energia vitale della società borghese. Michele può così solamente rifugiarsi nei sogni (Aprile, 1998) o nelle allucinazioni (Sogni d'Oro, Palombella Rossa), per costruirsi una fittizia maschera consolatoria che lo risarcisca dalle privazioni fisiche e ideologiche della realtà che lo circonda e che tenta pleonasticamente di divorarlo. Allo stesso modo Michele Apicella racchiude in sé l'immaturità infantile dell'Emilio Brentani di Senilità (abbiamo sopra ricordato com'egli osservi spesso il mondo con occhi da bimbo spaurito), mentre Nanni Moretti regista esplica l'ironia narrativa dello Zeno Cosini del più famoso romanzo sveviano, pronto a ironizzare sulle proprie disgrazie e a fornirci un'immagine fasulla e inattendibile delle motivazioni che conducono i suoi personaggi a compiere atti talvolta inesplicabili.
Michele Apicella, pronto a polemizzare con chiunque, a sfogare la sua rabbia contro tutto e tutti (in Sogni d'Oro picchia perfino la madre), a giudicare se stesso come ultimo sopravvissuto di una stirpe di artisti sognatori che ormai non trovano più collocazione nel mondo automatizzato di oggi, reca inoltre nella propria figura stilemi non lontani dalla letteratura dell'assurdo di metà novecento. A nostro giudizio è pertinente ricordare l'Antoine Roquentin de La Nausea di Jean-Paul Sartre, che spinto da un malessere esistenziale fondato sull'inutilità profonda della razza umana inizia a spiare coloro che lo circondano (Bianca), le persone normali, nei loro gesti consuetudinari e banali, nelle loro vite piatte e sicure, nel loro bozzolo di certezze intoccabili e indistruttibili, venendo a concepire la rassegnazione di un'esistenza senza essenza, di un corpo senz'anima, di una società senza sogni. E' interessante poi riportare alla mente il Meursault de Lo Straniero, di Albert Camus, scheletro senza vita che non è in grado di partecipare attivamente ai sentimenti e agli eventi che governano gli altri uomini, che vede sfilare il tempo davanti a sé senza poterne cogliere il significato, e che infine viene giudicato mostro per aver finalmente concepito l'assurdità e l'inutilità dell'esistenza, condotta non da avvenimenti consequenziali e riconducibili alla logica, ma solo e soltanto dal caso beffardo.
Michele Apicella e gli altri comprimari della filmografia morettiana vengono così a costituirsi come esempi concreti e lampanti di perdenti senza speranza, in grado potenzialmente di essere salvati solo da una presenza o da una nascita che li sappia allontanare dal loro male di vivere (il primogenito di Aprile, la nuova famiglia che virtualmente rinasce nell'ultima sequenza de La Stanza del Figlio), uniche possibilità per sfuggire alla tempesta psichica che già abbiamo descritto. Michele è nelle sue storie una presenza concreta e tangibile, fisica e corporea, ma allo stesso tempo è una sorta di spirito che fluttua dentro e fuori dal nostro campo visivo quasi timoroso, per estremo paradosso, di esporsi troppo alla luce dei riflettori.
Moretti regista, infatti, compie nelle proprie scelte stilistiche un certo rinnovamento del concetto di pro-filmico (il contenuto dell'inquadratura, cioè tutto quanto viene collocato davanti alla macchina da presa e da essa mostrato), scegliendo spesso di raccontare intere sequenze lasciando fissa la m.d.p., e dando libertà a Michele, e ai suoi comprimari, di entrare e uscire dal nostro campo visivo, un po' come, metaforicamente parlando, se i personaggi entrassero e uscissero dalla vita stessa con assoluta incuria e senza soluzione di continuità. Ma non è solo la tecnica di ripresa a evidenziare il male di vivere dell'alter-ego Apicella: anche il linguaggio utilizzato, sottolineato e urlato in ogni sequenza viene a porsi come una discriminante non indifferente. Tendenza tipica del cinema sonoro, dagli albori ai giorni nostri, è infatti l'approdo al vococentrismo, che intendiamo come "precisa intenzione di costruire la storia a partire dalla centralità assegnata alla parola, come strumento principale di comunicazione e, di conseguenza, di relazione"(Stefano Ramella Benna, Piani intersoggettivi, Torino, Il Segnalibro, 2003, pag. 21), qualità che trova in Nanni Moretti uno dei suoi più notevoli adepti.
Il vococentrismo morettiano tuttavia svolge una funzione catartica che viene a ribaltare il significante stesso del termine, portando la funzione stessa del dialogo, per ossimoro, all'apoteosi del silenzio, e dell'incomunicabilità. La parola, i dialoghi, il non senso, riempiono i film dell'autore come soggetti forti e dominanti, ma scontrano se stessi con l'incapacità di comprendersi e di relazionarsi, come se ogni dialogo fosse strutturato e giocato tra persone che parlano idiomi diversi e vicendevolmente sconosciuti. Leggendari sono i "come parli?", i "chi le insegnato a parlare così?", che Michele sbraita disperatamente in faccia all'immodesta giornalista di Palombella Rossa, o il "ti prego, dì qualcosa di sinistra" che nel post elezioni il protagonista di Aprile rivolge agli idoli sconfitti proiettati da un quanto mai asettico e anticonsolatorio televisore...Sono tutti tentativi, falliti, di porre in essere una comunicazione interpersonale che permetta sia al Moretti regista che al Michele soggetto di comprendere: capire cosa sta accadendo intorno a lui, cosa si vuole affinché anch'egli possa venire accettato in questa società, e dove è sepolto il valore ultimo degli eventi. Egli, incapace di porsi sullo stesso livello dei suoi interlocutori, tenta di rivoluzionare il linguaggio, di renderlo puro, scevro dalle suggestioni pubblicitarie della comunicazione moderna come protesi artificiale dei sensi (per usare la celebre definizione di McLuhan), di nettarlo e renderlo pulito e universale.
Allo stesso tempo Michele azzarda più volte un tentativo di rottura sintattica delle consuetudini verbali (come la ripetizione continua di uno stesso termine o il suo proverbiale semi balbettio), e insiste, solo contro tutti, nell'operare una contaminazione dei linguaggi che rimanda per alcuni tratti alla simbologia Dadaista nella dissacrazione libera e anarchica dell'arte e soprattutto, in questo caso, nell'uso dello sberleffo e della provocazione dialettica. Ma è un tentativo destinato, una volta di più, a fallire: nell'insistenza sull'uso della parola pura, nello scavo sistematico verso una comprensione reciproca all'apparenza conoscibile ma in realtà impraticabile, Michele Apicella è destinato al silenzio, alla vita solitaria, ad una posizione di reietto e di diverso, che lo porterà ora ad un primo fallimento dei propri ideali politica (La sconfitta), ora all'abbandono definitivo da parte della moglie (Io sono un autarchico), ora a cercare invano tra i numeri della sua agendina una qualsiasi compagnia che lo salvi dall'isolamento (Ecce Bombo), ora a trasformarsi in licantropo quasi per affermare icasticamente la propria mostruosità (Sogni d'Oro), ora a uccidere come ultimo definitivo atto di incomunicabilità (Bianca), ora a ballare davanti alle immagini del Dottor Zivago per provare ad uscire dalla grigia realtà e a lasciarsi cullare dalle vivide acque del sogno (Palombella Rossa), ora a vagare in Vespa come anima perduta nell'infinita solitudine dell'estate romana (Caro Diario), ora a distruggere tazzine sbeccate per sfogare la sua rabbia apocalittica nei confronti della tragedia assoluta, non preventivabile e per questo ancor più insopportabile (La Stanza del Figlio).
Per concludere, una piccola considerazione che non nega quanto enunciato finora ma propone nuovi percorsi di analisi per il futuro.
In tutto questo marasma di delusioni e pessimistiche considerazioni sulla vita e le proprie regole, nel Moretti regista, ed in particolar modo nei suoi lavori più recenti, resta comunque, intessuto a margine dell'assurdità dell'esistenza, un soffio di speranza, una possibilità di realizzazione, una voglia di rincominciare, e di non lasciarsi andare: nella commozione sincera della visita al luogo dove fu ucciso Pasolini e nel sorriso abbozzato e rivolto alla m.d.p. nell'ultima inquadratura di Caro Diario, nelle maniacali e tenerissime attenzioni paterne di Aprile, nella camminata sulla spiaggia che segna la rinascita dopo l'Inferno al termine de La Stanza del Figlio, c'è un Moretti nuovo che, superata la dissoluta autarchia del periodo giovanile e l'approdo difficoltoso e irto di scogli all'età adulta, e oggi splendido cinquantenne arrivato nel mezzo nel cammin della sua vita, ha forse più voglia di sorridere, e di crederci ancora.