panoramica
IX Napoli Film Festival – concorso Lungometraggi
di Piervittorio Vitori
"La regia esplora i luoghi poetici eppure amari di un microcosmo arcaico, all'interno del quale si rivela problematica l'integrazione dello straniero. Giorgio Diritti al suo primo lungometraggio dimostra originalità narrativa e una notevole maturità tecnica attraverso l'utilizzo particolarmente espressivo della fotografia e la scelta efficace delle inquadrature". Questa la motivazione ufficiale che ha incoronato (con il Vesuvio Award alla regia e il Premio Technicolor alla produzione) l'italiano Il vento fa il suo giro all'interno del concorso Europa-Mediterraneo. Una decisione che, nonostante il film di Diritti - l'unico tra i dodici in concorso che ad oggi ha una pur minima distribuzione sul nostro territorio - vanti già un discreto palmares, appare contestabile. Non che le citate qualità della pellicola, storia pastoral-occitana di una fallita integrazione ed originale nella misura in cui tradizione e conservazione non sono sinonimi ma opposti, siano in discussione; ma a fianco degli atout andrebbe citata una serie di difetti su cui si fa davvero fatica a sorvolare: un impianto pesantemente "a tesi", una sceneggiatura che si appesantisce quando i personaggi aprono bocca, alcuni interpreti decisamente non all'altezza (e il fatto che il regista abbia appositamente scelto dei non professionisti non è una scusante), un certo eccesso di simbolismi verso la fine.
Tra le altre undici pellicole selezionate dal direttore artistico Mario Violini ve ne sono allora almeno tre che avrei decisamente preferito, ma il mio voto è rimasto in minoranza. Perché sì, per la prima volta anche il sottoscritto si è trovato ad un festival dall'altra parte della barricata, inserito nella giuria dei lungometraggi insieme ad altri diciannove "colleghi" studenti di cinema, dei quali metà provenienti dagli atenei napoletani, metà selezionati tra quelli del resto d'Italia. A moderarci, in veste di presidente di giuria, Pappi Corsicato. Una bella esperienza, anche se probabilmente più per l'aspetto umano che per quello cinematografico in senso stretto: prova ne sia, al di là delle ore di turismo collettivo ritagliate nell'arco della settimana tra l'una e l'altra proiezione, il fatto che se la giuria si è trovata nettamente divisa al momento di individuare il miglior film, saremmo stati probabilmente più concordi nell'additare il peggiore. In questo la scelta sarebbe probabilmente ricaduta sul greco Sirens in the Aegean, sorta di ruffianissimo spot sulle bellezze (non solo paesaggistiche) dell'Egeo che pretende di analizzare il tema delle tensioni tra Grecia e Turchia mettendo in scena le vicissitudini di un drappello di soldatini su un'isola e declinandole con toni da commedia che possono far pensare ad una versione peggiorata di Mediterraneo.
Meglio allora ritornare alla metà sinistra della classifica: secondo posto a Trešeta (Tressette) dei croati Dražen Žarkovic e Pavo Marinkovic, personalmente la mia seconda scelta. Anche qui c'è un'isola sperduta, ma stavolta siamo al largo del litorale dalmato e alle prese con una comunità di marginali isolati dal resto del mondo. In un microcosmo apparentemente immutabile acquisisce rilevanza la riflessione sul tempo: tempo che viene ingannato giocando a carte, manipolato ritoccando fotografie, indagato alla ricerca di verità destinate a cambiare i rapporti tra i personaggi. Tra questi, nessuno si staglia al centro della scena al punto da poter assurgere al ruolo di protagonista principale, ma proprio nella struttura dell'affresco polifonico sta la riuscita del film. I due registi se la prendono infatti comoda nel delineare i caratteri, a rischio di indisporre lo spettatore che si perdesse tra la rete, all'inizio poco chiara, di personaggi e relazioni; poi però si rivelano bravi a dare polpa alla struttura, mettendo in scena fatti ed elementi forse non essenziali allo sviluppo narrativo ma in grado di descrivere la vita anche nei suoi aspetti apparentemente meno significativi, ma non per questo banali. Da notare, a mo' di curiosità, come il secondo posto, corrispondente al premio Music Feel, sia andato ad un film che si fa notare anche per la colonna sonora, dominata da un brano il cui testo ripete ossessivamente i nomi dei semi delle carte, in un continuum, a seconda dei gusti, divertente o irritante.
E la musica è stato tra i tratti salienti anche del tedesco Grave Decisions, il mio favorito in assoluto ed uno dei due titoli che hanno contrastato i premiati nella volata ai riconoscimenti. La pellicola di Marcus H. Rosenmüller ha in comune con l'altro contendente rimasto a bocca asciutta - Zozo di Josef Fares, già pluripremiato l'anno scorso al Giffoni - un protagonista bambino e l'accuratezza (forse eccessiva) della confezione. Ma se nel primo caso vengono messi in scena con toni da commedia i turbamenti di un orfano che tenta di superare il trauma della morte della madre e nel contempo di sistemare il padre con un'altra donna, ciò che quindi giustifica qualche scivolone kitsch-favolistico ed un tono un po' da "fratello minore" di Amélie, diverso è il caso del film svedese. L'ultimo lavoro del regista di Jalla! Jalla! e Kops si presenta infatti con ambizioni più alte, proponendo la vicenda vagamente autobiografica di un bambino libanese che, in una Beirut bombardata, perde la famiglia proprio alla vigilia del viaggio che avrebbe dovuto portare tutti in salvo in Svezia, dove già risiedono i nonni. Secco ed apprezzabile dal punto di vista registico all'inizio, il film comincia però a perdere la rotta già prima della metà (con un personaggio, quello della bambina di cui Zozo si innamora, che non trova una sua chiara ragion d'essere) e si smarrisce definitivamente quando il protagonista giunge effettivamente in Svezia. Lì inizia una nuova vita, ma - e non è un bene - anche un altro film, con Fares che pare perdere di vista quanto raccontato prima e finisce con il descrivere una vicenda di immigrazione tratteggiandola in maniera, quando non banale, fastidiosa (nelle scene oniriche).
Sempre nella metà sinistra della classifica si troverebbe probabilmente il titolo che completa il mio personale podio: il bulgaro Stolen Eyes, premiato l'anno scorso al MedFilm Festival di Roma con il premio Eurimages Italia e al Bergamo Film Meeting con la Rosa Camusa d'Argento (mentre quella d'Oro andò a, guarda un po', Il vento fa il suo giro). La pellicola di Radoslav Spassov ha quanto meno un merito di ordine contenutistico, giacché svela una porzione di Storia ignota al grosso pubblico occidentale: il rimodellamento identitario cui, alla metà degli anni '80, fu costretta da parte del regime comunista la minoranza nazionale di religione musulmana. Di fronte alla minaccia di dover cambiare nome, rinunciare agli usi tradizionali, non poter celebrare le festività islamiche, c'è chi sceglie la via della resistenza: tra questi la protagonista, Ayten, giovane insegnante che tenta di rubare i sigilli ufficiali da apporre sui nuovi documenti. Il tentativo, fallito, farà incrociare la sua strada con quella del giovane soldato Ivan: tra i due nascerà una relazione improbabile, venata di tragedia ma anche di una surreale follia in grado di stemperare i drammi di cui i protagonisti saranno vittime. Agli sbandamenti dei personaggi si accompagnano quelli di una sceneggiatura non lineare ma efficace, anche in un finale di cui qualcuno ha stigmatizzato la lunghezza, necessaria tuttavia a riprendere e sciogliere il nodo del rapporto tra Ayten ed Ivan.
Gioco delle coppie anche in altri quattro film. Cowboy Angels, della statunitense ma ormai parigina d'adozione Kim Massee, ha trovato qualche padrino in giuria grazie all'abile messa in scena della regista; ma, al netto di questo e del protagonista Thierry Levaret (faccia azzeccatissima, la sua), l'on the road tra Francia e Spagna di Louis, giocatore allo sbando, e del piccolo Pablo, trascurato dalla madre e alla ricerca del padre, non evita i clichè del genere e un senso di dejà-vu. Ha avuto i suoi estimatori anche l'israeliano Close to Home, problematica amicizia al femminile tra due soldatesse di leva: peccato che l'altro duo femminile, quello delle registe Vidi Bilu e Dalia Hager, sacrifichi le potenzialità drammatiche fornite dalla realtà di Gerusalemme al confronto caratteriale tra due personaggi definiti troppo superficialmente dalla loro opposizione. In Fragile, dello svizzero Laurent Nègre, la figura della madre morta di Catherine e Sam è invece la cartina di tornasole utile a definire un rapporto più sfaccettato tra fratello e sorella, nei limiti però di un film psicologico e quasi da camera, nonostante alcune interessanti intuizioni registiche (come la mdp che ondeggia e sbanda sui titoli di testa). Inferiore a questi tre, purtroppo, il secondo titolo italiano in competizione, Cover boy: l'ultima rivoluzione; i film sull'immigrazione e sul disagio sociale, benché non particolarmente frequentati dal nostro cinema, in genere paiono faticare a trovare strade che esulino da intrecci narrativi già visti, e l'opera di Carmine Amoroso, pur senza eccedere in manicheismi, non fa eccezione. E se si possono apprezzare le prove di Luca Lionello e dell'esordiente rumeno Eduard Gabia, risulta fastidiosamente macchiettistico l'inutile cameo di Luciana Littizzetto.
Infine, citazione volante per All For Free di Antonio Nuic e Sin Ti di Raimon Masllorens, senza per questo voler unire i due titoli nel giudizio. La prima pellicola, di produzione bosniaca, è almeno accattivante nella prima parte, quando mette in moto la vicenda del trentenne Goran: il protagonista, sconvolto dalla morte dei suoi tre migliori amici, decide di girare il Paese su uno scalcinato furgone-bar, con l'intenzione di offrire da bere a chiunque fino all'esaurimento dei suoi beni e di non fermarsi più di un giorno nello stesso posto. Peccato che, come accade più volte nel film al bar ambulante, anche il motore della narrazione s'inceppi quando Goran conosce e s'innamora di una ragazza, con il risultato che la pellicola diventa una scarna storia d'amore patendo, come Zozo, uno scarto eccessivo tra la prima e la seconda metà. Peggiore la riuscita del titolo catalano, con il regista che vorrebbe spiegarci come l'incidente e la conseguente cecità di cui è vittima Lucia vengono vissuti da lei e da chi le sta intorno (il marito ed i figli); purtroppo Masllorens lo fa infilando una traiettoria di luoghi comuni - il figlio che parteggia per lei e la figlia che la rifiuta, l'amico cieco e la fine che fa... - e chiudendola con un finale tanto inverosimile nel suo essere zuccheroso che non basta la bella prova di Ana Fernández a salvare l'operazione.