Torino Film Festival 2000 - Vertigo on Coney Island
Il cinema di Darren Aronofsky è una fitta rappresentazione spiraliforme che si avvolge inesorabilmente su se stessa annullando lo spettatore in un complesso gioco di impulsi, ritmi dati dalla giustapposizione agogica dei quadri, reiterazione di inserti e dettagli, lampi visivi e sovrapposizione di differenti linearità narrative. Aronofsky è soltanto al suo secondo film (Requiem for a dream ha fatto seguito allo scintillante Π, Il teorema del delirio), ma ha già mostrato di possedere grande talento visivo e narrativo, crismi di spiccata autorialità e quelle particolarità stilistiche che permeano un'opera e la inscrivono direttamente nella categoria delle personali idiosincrasie di un regista che fa della coerenza della sua rappresentazione (seppur in un breve corpus) uno dei punti di forza più marcati. Aronofsky, infatti, nell'arco di due pellicole non ha fatto altro che mettere in scena stati progressivi di alterazione che, sfruttando le singolari peculiarità della denotazione filmica, intendono significare un ben determinato stato mentale e le relative conseguenze sul piano delle percezioni distorte che si vengono a creare.
La rappresentazione di Aronofsky diventa così interna alla coscienza della narrazione, si insinua tra le righe del tessuto del racconto e lo fa vivificare riportando alla luce della raffigurazione iconica la visione distorta di una realtà pronta a deformarsi, a plasmarsi in relazione ai personali fantasmi inconsci, agli incubi e alle paure che diventano oggetti plastici, sensibili, oggettivi. La forza di Aronofsky è l'innata capacità di traslare ininterrottamente dal piano soggettivo del personaggio a quello oggettivo della percezione svisata, trasferita a livello onirico e allucinatorio: l'individualità visionaria mostrata attraverso interpolazioni sintagmatiche si pone subito a livello del significante, il quale rende concreto e tangibile il non visto, la materia, cioè, che solitamente è pertinente ai sogni, all'immaginazione, alla fantasticheria, all'assente. L'assenza diventa la sostanza del girato, l'essenza di un filmare che oggettiva il delirio e l'allucinazione, inasprisce e sperimenta la forma, ma non determina un gap incolmabile con il contenuto: anche le scelte più virtuosistiche ed estrose non sono mai finalizzate esclusivamente all'impatto devastante nei confronti dello spettatore, ma puntano a shockarlo da un doppio punto di vista che non disgiunge la componente emotiva da quella razionale. Le invenzioni visive non sono mai gratuite, bensì si inscrivono sempre in un rapporto strettissimo con la componente connotativa che non si limitano ad accompagnare (come in molti casi di cinema contemporaneo), ma che inverano, rendendola concreta e perfettamente dotata di significato. Ellen Burstyn che osserva in soggettiva il suo parco cibo consumarsi senza che essa lo tocchi oppure la stessa attrice che si muove per la stanza in un vorticoso acelerated action (dovuto alla cura anfetaminica a cui si sta sottoponendo) mentre la realtà esistenziale rappresentata dalla macchina da presa carrella lentamente (in Requiem for a dream), oppure ancora le frequenti esplosioni di chiarore abbacinante che puntellano Π, Il teorema del delirio (con diretto riferimento al peccato di hybris compiuto dal matematico Max Cohen / Sean Gullette, simbolicamente rappresentato dall'ardito atteggiamento infantile di osservare a lungo il sole), non sono puri quanto vuoti pezzi di bravura autoriale, ma ben determinati accenti visivi che intendono sostanziare e chiarire il motivo fondante della materia tematica trattata. Di conseguenza opera anche l'organizzazione della struttura narrativa, ipostatizzata sulla cifra stilistica della spirale, quasi si trattasse di un'impalcatura che sorregge completamente la dimensione del racconto facendo in modo che il fluttuare di quest'ultimo si avvii progressivamente, ed in modo via via più marcato, verso una soluzione di tipo catastrofico e non riconciliabile. La spirale come cifra, come unità di contenuto strutturale, non è solo ricavata da una constatazione narrativa, ma è addirittura evocata e spiegata dalla voice over di Max Cohen nel primo lungometraggio di Aronofsky. Se si tiene conto che il dialogo è stato scritto dallo stesso Aronofsky (in collaborazione con Gullette), e che la frase è rivolta direttamente allo spettatore, quasi fosse un tipo particolare di interpellazione, si comprende come le parole dello scomposto matematico altro non sono che una sorta di manifesto programmatico della concezione della realtà aronofskiana: «Ricordate Leonardo Da Vinci, pittore, inventore, scultore, naturalista? Italia, XV secolo. Riscoprì la perfezione assoluta del rettangolo pitagorico, e lo utilizzò nelle sue opere. Tracciando una curva all'interno dei rettangoli si genera la mitica spirale. Pitagora amava questa forma, che secondo lui era ovunque in natura: la conchiglia del nautilo, le corna dell'ariete, le trombe d'aria, le impronte digitali e perfino la via lattea. [...] Ecco la mia nuova teoria: se noi siamo delle spirali e viviamo in una gigantesca spirale, allora tutto ciò che ci circonda si fonde in quella spirale. [...] La definizione giusta di questo momento è che sono sull'orlo di un precipizio...ed è lì che succede tutto».
E le due pellicole di Aronofsky ribadiscono nel loro ritmico svolgimento avvolgente l'assunto proposto dalle parole del problematico Cohen, in questo caso figura vicaria dell'autore: sia P greco sia Requiem for a dream non iniziano con una situazione di perfetto equilibrio pronto a spezzarsi, ma entrambi presentano condizioni estreme prima che la storia abbia inizio (Max Cohen convive già con le sue nevrosi, Sara Goldfarb / Ellen Burstyn è già agganciata alla sua dipendenza televisiva - il televisore è legato con una catena -, mentre Harry / Jared Leto cerca di prelevare il succitato televisore per garantirsi i soldi per una dose); successivamente, in maniera progressiva e avviluppante, in modo da riproporre ciclicamente situazioni uguali ma mai identiche, la narrazione sviluppa la sua reiterazione iconografica e simbolica attraverso frastornanti effetti visivi e sonori (split screen, accelerazioni, ralenti, costruzioni iconiche digitali, auricolarizzazioni slegate che ancorano la fonte sonora al piano mentale) e il puntello di puntuali microconfigurazioni sintattiche (l'assunzione cadenzata di pillole da parte di Max Cohen in P greco, il consumo di droga riassunto con un sintagma formato da brevi dettagli debitori di Van Sant, attraverso il filtro di Tarantino, in Requiem for a Dream) che trasportano letteralmente il racconto verso l'apice narrativo coincidente con il baratro ineluttabile in cui sono destinati a cadere i personaggi (Jared Leto / Harry vi cade materialmente nel momento in cui si accorge della vanità del suo luminoso sogno). Il tutto ottenuto attraverso l'acme di una rappresentazione che in Requiem for a Dream conquista il suo punto più alto e parossistico tramite un vorticoso (non a caso) e a tratti insostenibile montaggio alternato, organizzato su quattro differenti livelli di esibizione: immagini dilatate cronologicamente, lancinanti nella loro silente crudezza e messe in serie grazie alla ritmica continuità degli effetti sonori, si rincorrono fino al raggiungimento del punto culminante in cui il personaggio si annulla e si dissolve, passando dall'incubo della soggettività all'inconsistenza della virtualità. Il vortice si chiude, la spirale si condensa in un unico punto. E svanisce.