Torino Film Festival 1999 - Portogallo 1970/1999
di Gianluca Moro
Trovare l'archetipo di un'entità così leggera come il cinema equivale alle possibilità di un cilindro infinito: si può tirare fuori di tutto. Il cinema portoghese è un cilindro più piccolo, ma un infinito più piccolo resta sempre un infinito. Vertigine, perdizione, surrealismo non sono che alcune delle sue direzioni; Oliveira, Rocha, Monteiro, Reis, Botelho non sono che i principali conduttori del filo che diventa cavo, da tanto spessore è costretto a sostenere.
Il cinema portoghese - generalizzazione necessaria quanto pericolosa - specie dopo la Rivoluzione del 1974, non va certo per il sottile. Dalle tematiche alle forme esso si muove in un territorio di avanscoperta incerto e ambiguo, forse per questo affascinante e pregno. Difficile come la vita, tremendo come il dolore, magico come il senso, è un flusso di immagini emotive, "accorate", lontane dalla geometria e dalla fredda lucidità di altro cinema (ugualmente importante). Il fascino di questa "realtà latina" risiede forse nell'attrazione ravvicinata, nel darsi completamente in primi piani caldi, per introdurre le varie gamme del sentimento e dell'emozione, dal tiepido fino all'eccesso: il dramma della policromia, della vastità della scelta si esprime tanto nell'angoscia della totale solitudine dell'uomo di fronte a sè, quanto nella più vasta angoscia del non senso, dell'allontanamento dalla redenzione verso l'approdo al nulla.
Rappresentare tutto ciò attraverso la narrazione è un ulteriore dilemma dell'anima, un nuovo cilindro di scelte, ognuna delle quali sorride di un colore indistinto che si scioglie nella sfumatura vicina: il realismo si fonde con il surrealismo, la violenza con il lirico, la volgarità con il poetico: forse sta in questo mescolamento di registri e generi lo specifico della "portoghesità". Il problema dell'ambiguità e dell'ironia risiede anche nella capacità dello spettatore di riconoscerli e di seguirli; quando questo meccanismo si inceppa il discorso cade, il colore narrativo si presenta per quello che non è fino a diventare cattiva retorica, elemento kitsch, effetto preconfezionato. Il modo della narrazione è una risorsa centrale per non cadere in questo vizio, ma paradossalmente ne è l'artefice principale: la differenza nell'uso del registro, nei segnali inviati allo spettatore può chiarire la natura del linguaggio ed il suo intento: critico o viceversa aderente. Nel primo caso il distanziamento sottolinea uno scarto tra la realtà mostrata e chi la mostra; nel secondo caso l'istanza narrante aderisce come un guanto al rappresentato.
Molti film portoghesi presentano il coraggio e insieme il limite dell'eccessiva ambiguità, per cui a volte lo spettatore rischia di restare sospeso tra il sospetto della falsa emozione e quello della critica alla sua rappresentazione. La bellezza dell'ironico rimane tale se affascina ed esorta l'intelligenza critica, se il sospetto della banalità non assale continuamente lo spettatore, come avviene invece nell'ultimo film di Oliveira (La lettera): qui la bellezza dell'ambiguo annichilisce e lascia il posto a una chiara mancanza di profondità e alla noia della storia. Il giudizio soggettivo appena espresso esemplifica questo rischio che altrove si regge meglio, come in Trafico di Botelho, che si palesa come una lucida ed ironica scultura dell'uomo moderno, tattile come molti film portoghesi: scolpisce i personaggi, gli ambienti e, nello spettatore, tempera l'emozione dello sguardo e della condivisione. Spesso questa scultura è più tragicomica che comica, più straniante che armoniosa.
Dallo straniamento-spaesamento nasce il senso del "nostos", il tentativo di ritorno al perduto (o a quel che non si è mai avuto, a quello che non si è mai stato...), il senso dell'irrealizzabile, del superamento che porta a un identica condizione. Il respiro di questo cinema, al di là delle rare esaltazioni rivoluzionarie, è il respiro di un'aria tagliente, disincantata, coraggiosa ma scettica, battagliera ma stanca. Ossimori che si perdono e riprendono nella strana magia del cappello che amano scambiarsi gli stregoni dell'Oceano atlantico.