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La
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ha compiuto 35 anni ed
ha cambiato alcuni dettagli della sua organizzazione interna. Adriano Aprà,
pur restando nel comitato ordinatore, non è più il direttore
del Festival, che ora ha a capo Andrea Martini. Questo cambio non ha prodotto
alcun mutamento di indirizzo nella filosofia della Mostra, sempre attenta
a tutti i fermenti cinematografici mondiali, soprattutto quelli meno conosciuti,
in modo da riuscire a considerare e catalogare le varie tendenze mondiali,
permettendo, al contempo, di recuperare tutta una serie di produzioni che
altrimenti si perderebbe nei meandri del non distribuito perché non
remunerativo. Come il cinema di Joao Cesar Monteiro, ad esempio.
Già lo scorso anno Pesaro aveva proposto Le bassin de J.W.,
ennesimo delirio filosofico/esistenzial/cinefilo del singolarissimo regista
portoghese, ed aveva mostrato una pellicola ricchissima, densa di sapienza
cinematografica e di capacità organizzativa davanti all'obiettivo
della macchina da presa. Inutile dire che il film non è mai stato
distribuito in Italia, sorte che potrebbe seguire anche il lavoro di Monteiro
presentato nella rassegna pesarese di quest'anno, As bodas de Deus,
terza parte della trilogia che ha il suo protagonista in Joao de Deus
(lo stesso Monteiro), iniziata con Ricordi della casa gialla (1989)
e continuata con La commedia di Dio.
Ancora una volta l'estroso cineasta offre la sua particolare visione
del mondo e la singolare, e tutta portoghese, concezione del cinema fatta
di lunghissimi piani fissi dove lo spazio si anima internamente all'inquadratura,
la quale si trasforma in un vero e proprio contenitore in cui il dinamismo
e la fluidità dei corpi sono al servizio dell'assurda maschera
tragica del regista-attore-personaggio, vero motore della narrazione con
i suoi atti strampalati (salva una donna dall'annegamento spingendola
davanti a sé sulla superficie dell'acqua perché troppo pesante
per il suo povero corpo sempre più consunto; stacca una grossa
fronde da un albero solo per poter orinare senza che la macchina da presa
turbi la sua privacy), le sue battute sagaci, sarcastiche (dona cento
escudos ad un tizio dicendogli: "...e non li spendere tutti con
le suore!"; dopo aver copulato per errore con un grosso cuscino,
fa seguire la battuta "tutti possono sbagliare", disse
il porcospino dopo essere sceso da una spazzola") e blasfeme (risponde
"meglio soli che mal accompagnati" ad una monaca che
gli aveva augurato "che Dio ti accompagni!"). As bodas
de Deus (la cui traduzione è "le nozze di Dio") è
un percorso di formazione cialtronesco, in cui un vagabondo (Joao de Deus)
si arricchisce grazie ad un cospicuo lascito donatogli da un inviato di
Dio. A questo punto il clochard fa parte di un'altra categoria sociale
e comincia ad industriarsi per trovare moglie. Dopo varie peripezie e
differenti tentativi ed aver conosciuto l'onta della prigione, il povero
Joao prenderà coscienza della donna che fa per lui citando la frase
finale ("Che strano cammino che ho dovuto fare per arrivare fino
a te!") proferita da Martin Lassalle a Marika Green in Pickpocket
di Robert Bresson.
Gusto per la citazione (anche Mallarmé e Straub-Huillet sono presenti
nel film, solo per fare due tra gli esempi possibili), squisiti quadretti
surreali (un pazzesco balletto al suono di E lucevan le stelle
- con Joao abbarbicato alle grate della finestra della cella - che sottolinea,
oltre al sapido gusto per il paradosso, anche la portata culturale dell'opera,
con il puntuale e simbolico parallelismo con la dolorosa prigionia di
Mario Cavaradossi a Castel S. Angelo, nella Tosca di Puccini),
grotteschi contrasti che generano disagio (il rapporto sessuale tra l'esageratamente
scheletrico personaggio e la muliebre e soda bellezza dell'attrice portoghese
Joana Azevedo) e ricercato equilibrio nella composizione dell'inquadratura
(grazie ad una meditata simmetria della messa in quadro e alla sublime
fotografia di Mario Barroso, in grado di esaltare toni e colori per una
sovradeterminazione del significato) sono i caratteri fondamentali di
una poetica complessa, estrosa e duttile che potrà non essere apprezzata
appieno nel nostro paese, abituato ad altri sviluppi narrativi e a differenti
modalità realizzative, ma che indubbiamente rappresenta una delle
punte più alte e suggestive raggiunte dal cinema europeo degli
ultimi anni.
Oltre a Sicilia! di Straub e Huillet, tratto da Conversazione in Sicilia
di Elio Vittorini, L'autre di Youssef Chahine e Juha di
Aki Kaurismaki, ha colpito l'attenzione del pubblico anche Trois ponts
sur la rivière del regista francese, nonché caporedattore
della rivista "Trafic", Jean-Claude Biette. Film che
si dipana attraverso luoghi differenti (Parigi, Lisbona e soprattutto
Oporto), secondo un criterio di narrazione che perde la sua forza d'azione
a vantaggio della pervasività dei luoghi (che incidono al punto
da caratterizzare gli stessi comportamenti e le personalità dei
personaggi) e delle psicologie, pressanti ed ingombranti a scapito di
un minimalismo del racconto che si alimenta di sensazioni, gesti, dubbi,
ambiguità e paure delle figure che si muovono sullo schermo.
Una storia d'amore, anzi di re-mariage (visto che i due protagonisti
hanno già vissuto insieme nel passato diegetico ma non mostrato
dal film), come la ha definita lo stesso Biette, che sottolinea l'impossibilità
e la difficoltà nel tendere verso un ideale illusorio che non garantisce
risposte ma solo patimento e afflizione.
A George Franju, regista e fondatore nel 1936, insieme a Langlois, della
"Cinématheque française", ad Arthur Penn e ad
Ernie Gher, cineasta sperimentale molto vicino alle posizioni strutturaliste
di Michael Snow, erano invece dedicate le consuete retrospettive della
Mostra. Se film come Le sang des bêtes, Hôtel des
Invalides, Les yeux sans visage (Franju), Bonny and Clyde,
Little Big Man e Alice's Restaurant (Penn) sono patrimonio
di qualunque cinefilo, lo stesso non si può dire per i lavori del
newyorchese Gehr, autore di Serene Velocity, Side/Walk/Shuttle,
Rear Window, pellicole dove l'attenzione si sposta sulle modalità
della visione, sulle caratteristiche attraverso cui il film si crea e
si mostra.
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