Venezia 1999 - Mundo Grua
Vincitore della sezione della Settimana della Critica, l'opera prima del regista argentino Paolo Trapero narra la storia di Rulo (Luis Margani), un uomo di mezza età, che è costretto a fronteggiare una vita di sacrifici e di stenti in cui la mancanza di denaro e la ricerca di un'occupazione diventano le costanti che la muovono. Da subito si possono distinguere due universi completamente separati e antitetici: da una parte il mondo lavorativo dall'altra quello degli affetti e della famiglia.
Il primo è caratterizzato da una completa alienazione dei rapporti, in una dimensione totalmente disgregante dove le gru diventano l'espressione di un processo di costruzione capitalistica la cui mole soverchia in modo radicale quella dell'uomo. Nulla conta all'infuori della capacità produttiva dell'individuo, e anche quando questi compie il proprio dovere possono intervenire elementi esterni a vanificare ogni fatica. Infatti il protagonista dopo un lungo periodo di prova viene rimpiazzato improvvisamente da uno sconosciuto. Questo avvenimento lo porta ad abbandonare tutto per recarsi a 2000 chilometri dalla sua città alla ricerca di un posto ritenuto sicuro (e che invece, come il precedente, si risolverà in niente).
Rulo raggiunge così un luogo talmente desolante da essere quasi surreale, il cui simbolismo è palese sin dalle prime scene. Un luogo solitario e dimenticato; una "postazione" dedicata al lavoro in cui il lavoro stesso sembra privo di significato.
In questo contesto anche i due amici Walter e Torres, che compiono quel lunghissimo viaggio per incontrare il terzo compagno di avventure, sembrano esseri provenienti da un altro mondo che si muovono su un mezzo estraneo alla nostra realtà. E i lunghi silenzi che caratterizzano la loro visita sono commenti fin troppo eloquenti sulla condizione disperata e di solitudine vissuta dall'amico.
A tutto questo Rulo oppone, come abbiamo già detto, un mondo fatto di amicizia e di affetti. E questi spiccano in maniera evidente dando vita a situazioni e rapporti dalla tenerezza inaspettata sia con il figlio Claudio (Federico Esquerro), totalmente dedito alla musica e alla disoccupazione; sia con Adriana (Adriana Aizenberg) la padrona di un chiosco con la quale intraprende una delicata storia d'amore. E' una realtà fatta di piccole cose ma che cerca di fronteggiare il peggio, e che il protagonista deve abbandonare per seguire quel miraggio di un'occupazione fuori città. Un atteggiamento positivo e ironico il suo che gli permette di affrontare con forza, e anche in parte con un po' di rassegnazione, una vita fatta di incertezze e di sorprese non sempre positive.
Una condizione di instabilità riproposta anche nel finale aperto in cui il protagonista, nuovamente in viaggio dopo aver perso il lavoro per il quale aveva abbandonato tutto, si protegge dal freddo in una oscura cabina di un camion, fermato facendo autostop.
Una tesi quindi cruda e spietata quella proposta dal regista in questo film, e supportata sia da un'incredibile recitazione, sia da una fotografia basata su un bianco e nero sgranato che ben si addice alla condizione effimera dei personaggi che si trascinano in quella dimensione così opprimente.