Venezia 1999 - Julien: donkey-boy
di Dante Cruciani
Non è facile tentare di analizzare la concezione di cinema di Harmony Korine, venticinquenne californiano noto per aver sceneggiato il film di Larry Clark Kids e per aver sconvolto con la sola forza virulenta delle sue immagini l'intero festival di Venezia del '97 con Gummo.
Anche il suo ultimo lavoro Julien: donkey-boy ha colpito per il notevole impatto visivo che la sua capacità compositivo-iconografica riesce a mettere in scena. Korine non narra nulla perché non ha mai narrato, semplicemente illustra. Il suo incedere cinematografico rappresenta il momento massimo, l'acme toccato dall'antinarrazione, che nel suo cinema diventa un momento assoluto, trascinante, particolarmente chiuso e claustrofobico. E sempre, decisamente non riconciliato.
Perché Korine annulla la diegesi, la violenta, la rivolge a suo uso e consumo per creare un universo che da narrativo si trasforma in figurativo, in cui la forma s'impossessa del contenuto per restituirlo non durante, ma dopo la visione del film, nel momento della riflessione, con il preciso significato di disturbo, di situazione che si serve di continui corti circuiti per rappresentare un mondo arrotolato dolorosamente su se stesso, senza alcuna via d'uscita se non la disperata reiterazione di atti, parole, opere e omissioni. Perché c'è qualcosa di religioso nel cinema di Korine, un riferimento costante alla Passione, una moderna via crucis che non consente redenzione ma soltanto una discesa inesorabile verso gli inferi di una società che ingloba, annulla e spersonalizza. Sia per gli abitanti di Xenia, Ohio, in Gummo, sia per la tarata famiglia dello schizofrenico Julien, non è prevista nessuna possibilità di aprire un varco sul cerchio vorticoso che si stringe minaccioso su di loro, sempre più opprimente, mentre scoppia improvvisa, gratuita ed inesorabile la violenza in tutte le sue sfaccettature.
E Korine, il cui nome di battesimo mai è stato così antitetico, chiude sempre i suoi svariati ed ambigui personaggi nel baratro di interni fotografati in maniera lugubre, funerea, terribilmente soffocante, condannandoli così ad un esistenza quasi ectoplasmatica, marginale ed inevitabilmente perdente. La sua sintassi, quasi fosse un unione di svariate fotografie messe in serie con criterio anarchico, non obbedisce minimamente ad una sola consuetudine di raccordo, ma privilegia l'impressione catturante, il particolare deformante, l'esibizione ostentata del mostruoso: l'impressionismo visivo su una società ed un mondo che dissocia e perverte diventa quindi colorazione espressionistica, modalità attraverso la quale un intero universo mostra la sua irritante ed insostenibile natura reale.
Frammentazione esasperata, completa destrutturazione dello spazio e del tempo, ridotti a puri contenitori di volti e corpi straniti, montaggio disarmonico, immagini sgranate e i legami assolutamente casuali che le legano tra loro sono l'immagine perfetta di uno spaccato che si anima solo per farsi ritenere insopportabile e difficilmente tollerabile. Un cinema in cui predomina il pulsionale: Korine non solo non evita, ma addirittura ricerca il disordine, l'inquadratura arbitraria e non centrata, quella non a fuoco. È la perfetta immagine di quello che Jean-François Lyotard ha battezzato con il termine di acinéma (L'acinéma, in "Revue d'Esthétique", n°2-4, 1973), una concezione cinematografica che si fa intendere per la sua forza e per la sua energia e solo dopo per il suo significato. Ma questa forza esasperata del cinema di Korine non è assolutamente un'occasione di godimento. L'affabulazione non è più di questo mondo, sostiene apertamente Korine, e l'odio che anima i suoi detrattori più accesi non è altro che l'implicita ammissione di una consunzione profonda, che si fa fatica ad ammettere senza dover amaramente convenire di farne mestamente parte.