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Non è
facile tentare di analizzare la concezione di cinema di Harmony
Korine, venticinquenne californiano noto per aver sceneggiato il
film di Larry Clark Kids e per aver sconvolto con la sola
forza virulenta delle sue immagini l'intero festival di Venezia
del '97 con Gummo.
Anche
il suo ultimo lavoro Julien: donkey-boy ha colpito per il
notevole impatto visivo che la sua capacità compositivo-iconografica
riesce a mettere in scena. Korine non narra nulla perché non ha
mai narrato, semplicemente illustra. Il suo incedere cinematografico
rappresenta il momento massimo, l'acme toccato dall'antinarrazione,
che nel suo cinema diventa un momento assoluto, trascinante, particolarmente
chiuso e claustrofobico. E sempre, decisamente non riconciliato.
Perché Korine annulla la diegesi, la violenta, la rivolge a suo
uso e consumo per creare un universo che da narrativo si trasforma
in figurativo, in cui la forma s'impossessa del contenuto per restituirlo
non durante, ma dopo la visione del film, nel momento della riflessione,
con il preciso significato di disturbo, di situazione che si serve
di continui corti circuiti per rappresentare un mondo arrotolato
dolorosamente su se stesso, senza alcuna via d'uscita se non la
disperata reiterazione di atti, parole, opere e omissioni. Perché
c'è qualcosa di religioso nel cinema di Korine, un riferimento costante
alla Passione, una moderna via crucis che non consente redenzione
ma soltanto una discesa inesorabile verso gli inferi di una società
che ingloba, annulla e spersonalizza. Sia per gli abitanti di Xenia,
Ohio, in Gummo, sia per la tarata famiglia dello schizofrenico
Julien, non è prevista nessuna possibilità di aprire un varco sul
cerchio vorticoso che si stringe minaccioso su di loro, sempre più
opprimente, mentre scoppia improvvisa, gratuita ed inesorabile la
violenza in tutte le sue sfaccettature.
E
Korine, il cui nome di battesimo mai è stato così antitetico, chiude
sempre i suoi svariati ed ambigui personaggi nel baratro di interni
fotografati in maniera lugubre, funerea, terribilmente soffocante,
condannandoli così ad un esistenza quasi ectoplasmatica, marginale
ed inevitabilmente perdente. La sua sintassi, quasi fosse un unione
di svariate fotografie messe in serie con criterio anarchico, non
obbedisce minimamente ad una sola consuetudine di raccordo, ma privilegia
l'impressione catturante, il particolare deformante, l'esibizione
ostentata del mostruoso: l'impressionismo visivo su una società
ed un mondo che dissocia e perverte diventa quindi colorazione espressionistica,
modalità attraverso la quale un intero universo mostra la sua irritante
ed insostenibile natura reale.
Frammentazione esasperata, completa destrutturazione dello spazio
e del tempo, ridotti a puri contenitori di volti e corpi straniti,
montaggio disarmonico, immagini sgranate e i legami assolutamente
casuali che le legano tra loro sono l'immagine perfetta di uno spaccato
che si anima solo per farsi ritenere insopportabile e difficilmente
tollerabile. Un cinema in cui predomina il pulsionale: Korine non
solo non evita, ma addirittura ricerca il disordine, l'inquadratura
arbitraria e non centrata, quella non a fuoco. È la perfetta immagine
di quello che Jean-François Lyotard ha battezzato con il termine
di acinéma (L'acinéma, in "Revue d'Esthétique", n°2-4, 1973),
una concezione cinematografica che si fa intendere per la sua forza
e per la sua energia e solo dopo per il suo significato. Ma questa
forza esasperata del cinema di Korine non è assolutamente un'occasione
di godimento. L'affabulazione non è più di questo mondo, sostiene
apertamente Korine, e l'odio che anima i suoi detrattori più accesi
non è altro che l'implicita ammissione di una consunzione profonda,
che si fa fatica ad ammettere senza dover amaramente convenire di
farne mestamente parte.
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