Kim Ki-Duk
L’isola: l’urlo di un’umanità silente
di Mattia Plazio
Un uomo, una donna, un'isola, un amo da pesca. Tanto basta a Kim Ki-Duk, talentuoso regista coreano qui al suo quarto lungometraggio, per costruire una storia sofferta, intensa, violentemente disturbante (celebri nella letteratura festivaliera gli episodi di svenimento in sala alla presentazione del film, in occasione della 57º Mostra Internazionale del Cinema di Venezia) nel descrivere senza freni inibitori il fuoco di una passione/ossessione autodistruttiva, un grido alla solitudine per i silenziosi protagonisti del film, due outsiders persi nella difficile ricerca di un'identità perduta (o forse mai posseduta), di un sentimento autentico, capace di dare senso alla propria piccola esistenza e nobilitare una realtà fatta di indifferenza e squallore.
Torna prepotentemente in Seom l'archetipo che forse più di qualsiasi altro ha alimentato la fantasia e acceso gli animi di poeti e artisti di ogni tempo, quello che unisce indissolubilmente Eros e Thanatos, l'Amore e la Morte, il piacere e il dolore assoluti. L'amo da pesca ne è qui il simbolo, suggestivo quanto singolare. L'amo che cattura, uccide, che provoca dolore. L'amo che rappresenta la metà esatta di un cuore spezzato e che, se modellato, si trasforma da strumento di morte in innocuo giocattolo da donare con dolcezza all'amata. L'amo, il "terzo incomodo" ossessivamente presente nelle maglie della narrazione, che diventa strumento attraverso cui Hee-Jin e Hyun-Shik, con un gesto estremo, urlano il loro dolore, la loro rabbia, nei confronti di una realtà che li ha messi alle corde, emarginandoli, l'oggetto per mezzo del quale esprimono il loro atavico - seppur già "inquinato" - desiderio di felicità.
Seom è un inno all'Assoluto che giace nell'amore puro, autentico, quello che tutti sognano, ma che pochi trovano veramente. Un desiderio primitivo, quasi originario, la cui innocenza tuttavia è destinata a trasformarsi sotto l'influenza nefasta della materia di cui è fatto l'essere umano e a essere "corrotta" dall'ingresso prepotente della cruda realtà all'interno di un angolo di mondo solitario e appartato, che soltanto apparentemente (in astratto, come il desiderio puro) si configura come spazio "vergine" ideale per la ricerca di se stessi e di un contatto più immediato con l'ambiente circostante. Non esiste un luogo immacolato sulla terra, sembra volerci dire Kim Ki-Duk, un'isola felice dove poter far tabula rasa di tutto e di tutti. La realtà, violenta, cinica, indifferente (secondo l'immagine che ne ha sempre dato il regista coreano) è lì in agguato, non si può lasciarla fuori dalla porta. Ecco che quel desiderio assume ora le coordinate dell'ossessione, della malattia, e l'amore diventa mero strumento per lenire il dolore fisico e spirituale, mostrando così il suo volto più ambiguo e forse più vero.
Il contrasto fra contenitore e contenuto, fra l'indifferente purezza della Natura e l'innata imperfezione dell'essere Uomo, trova un suo preciso corrispettivo nel conflitto sempre aperto fra la messinscena e la descrizione del paesaggio da una parte e l'azione dei personaggi al suo interno dall'altra, la cui analisi rappresenta una delle chiavi di lettura più significative del film. Lontano da un estetismo di maniera, fine a se stesso, Kim Ki-Duk, alternando lenti e spesso impercettibili movimenti di macchina alla realizzazione di veri e propri quadri pittorici dai colori tenui e delicati, nei quali nulla è lasciato al caso (retaggio del suo passato da pittore), sembra prendere per mano il suo spettatore, guidandolo alla scoperta di un luogo dominato da leggi perfette e immutabili, un mondo "altro", fatto di acque placide, di albe e tramonti mozzafiato, di suoni soavi, di natura incontaminata. Il silenzio (una parte significativa del film è senza dialoghi) avvolge il tutto in un'atmosfera rarefatta, irreale, tanto è distante da ciò che comunemente siamo abituati a pensare quale il nostro mondo. È all'interno di un contesto descritto dal regista come un nuovo eden - spazio ideale per una fuga da se stessi e dalla realtà - che esplode in tutta la sua evidenza la natura bruta dell'essere umano, il cui segno negativo finisce per coinvolgere anche inevitabilmente l'innocenza di un sentimento ancora non corrotto. Microcosmo della società, il sistema di piattaforme galleggianti diventa il luogo d'azione, grottesco e tragico, di squallidi borghesi che defecano nell'acqua, parlano al cellulare, fanno a pezzi i pesci, ospitano prostitute, consumano sesso a pagamento. Un paradiso trasformato ora in un inquietante cimitero sull'acqua - ultima dimora di corpi straziati, pesci sventrati, motorini, magnaccia, puttane -, dove lo stimolo ad agire si inscrive sempre in una dimensione di violenza e sopraffazione, anche per chi, come Hee-Jin e Hyun-Shik, è guidato dalla volontà di dar sfogo ad istinti originariamente naturali.
La ricerca di una nuova autenticità, da coltivare nel rapporto esclusivo con l'amato/a, lascia dunque il posto ad una definitiva, quanto tragica, perdita di se stessi. Il risultato è un'ultima fuga, che nella sequenza finale - la quale si materializza come per magia dal buio dello schermo (il film è già finito?) - prende la forma di un movimento di Hyun-Shik verso un piccolo boschetto sull'acqua, dai confini limitati, che poi, nell'immagine/epilogo, scopriamo essere nientemeno che l'organo femminile di Hee-Jin. Annegamento e sparizione. Lo stesso principio che a quattro anni di distanza determinerà il destino dei protagonisti dell'incantevole Ferro3-La casa vuota. D'altronde, come insegna Kim Ki-Duk, "l'isola di un uomo è una donna, quella della donna un uomo".
L’ISOLA
(Corea, 2000)
Regia
Kim Ki-Duk
Sceneggiatura
Kim Ki-Duk
Montaggio
Kyung Min-Ho
Fotografia
Whang Suh-Shik
Musica
Jeon Sang-Yoon
Durata
85 min