Blake Edwards
Hollywood Party
di Daniele Vecchio
Hollywood Party è un capolavoro. Per tanti motivi, uno dei quali è la forza insuperabile con la quale Edwards dimostra che il grande cinema comico tende ancora, come quello delle origini, a fare a meno dei dialoghi, o quanto meno a considerarli secondari. Questo nel 1968, quando anche Kubrick con 2001: Odissea nello spazio ribadisce l'importanza, la sufficienza delle immagini, e dopo che i mimi beat di Antonioni in Blow-up (1966) proclamavano superflue non solo le parole ma anche le cose, per giungere davvero a porre "l'immaginazione al potere". Un periodo in cui le rivoluzioni si facevano a suon di slogan (come quelli dipinti sul dorso dell'elefante nel film di Edwards), che già sono segno di una forte sintesi eversiva contrapposta alla verbosità falsamente rassicurante dei burocrati, ma in cui effettivamente il segno di rivolta più violento era dato dai corpi e dalla loro silenziosa protesta: i capelli lunghi, la nudità o i vestiti colorati e le acconciature freak.
Oltre che a suon di slogan la rivoluzione del '68 si faceva a suon di musica: è significativo che sia nel film di Kubrick che in quello di Antonioni l'elemento sonoro è sostanziale, così pure, per restare nel genere comico, in Play Time (1967) di Tati. In Hollywood Party è senza dubbio fondamentale il raffinato commento sonoro dell'inseparabile collaboratore di Edwards, Henry Mancini. La musica, infatti, fa da collante tra le parti più discontinue del film, tramite un flusso diegetico di volta in volta diverso a seconda del contesto: dal gruppo di jazz-piano bar che fa quasi da sfondo ininterrotto alla musica tradizionale russa, dall'esibizione vocale degli ospiti all'inno hippy del finale, sul genere dei musical alla Hair (1967).
Il clima mirabilmente rarefatto che sembra dilatare il film, i ripetuti discorsi di cui si mostra solo il labiale, i lunghi piani sequenza, l'uso comico della profondità di campo, il ritmo scombinato eppure perfetto del succedersi delle gag, sono riprova di un modulo espressivo davvero unico, che Edwards è riuscito ad affilare con le armi di un'ironia sottile e feroce. Un'opera che può essere letta a più livelli e si serve di una scrittura fittamente allegorica (merito anche dell'eccezionale script dei Waldman) per intaccare dall'interno (della Casa) il sistema e il mito americano-hollywoodiano.
Il protagonista, infatti, è un inconsapevole rivoluzionario: il suo nome è Hrundi V. Bakshi (Peter Sellers), un attore indiano che, dopo aver fatto esplodere anzitempo il set su cui era stato chiamato per fare una comparsa, è invitato per errore al party del produttore. Una volta dentro, sconvolge puntualmente la calma piatta in cui è immersa la festa data dal nababbo nella sua sontuosa villa telecomandata. Bakshi è l'elemento perturbante, ma non si sforza di rovinare tutto: sono gli oggetti che spesso gli si rivoltano, come prescritto dai princìpi del burlesque; è la casa lussuosa, pulita, controllata e tecnologica che non sfugge al potenziale comico dell'incidente e che sembra trovare in Bakshi un perfetto alleato per ribellarsi ai suoi padroni.
Da principio tutto sembra seguire l'ordine stabilito: il disturbo è procurato da un immigrato con la pelle scura, un poveraccio che vorrebbe fare il salto da Bollywood a Hollywood, la cameriera è ovviamente nera, i russi non possono che intrattenere con balletti suonando folkoristiche balalaika, le donne sono ridotte a oggetto di consumo cinematografico e sessuale. Ma poi la festa prende un'altra piega e comincia a vedere i rapporti rovesciarsi come nel più classico Carnevale. Nel crescendo caotico e alcolico - con il cameriere che continua a scolarsi i drink rifiutati dagli invitati - le parti si invertono e la carica iconoclasta di Bakshi fa da traino a tutta una serie di inaspettate derive: il ballo russo si fa più frenetico e travolgente, i tuffi in piscina sono sempre più numerosi e la situazione sfugge di mano, in una scena si intravede addirittura la serva nera che si lancia in uno spogliarello. L'evento culminante e risolutivo è infine rappresentato dall'entrata trionfale degli hippies, che daranno il via alla baraonda con acqua e schiuma.
Bakshi da parte sua è al centro di una vera e propria tempesta politico-culturale: dopo aver sabotato un film colonialista alla Gunga Din (1939), si ritrova improvvisamente calato nell'ambiente ostile e prepotente della virilità yankee, sballottato tra un attore erotomane che gioca a biliardo (stretto in una blusa western su cui è raffigurato un toro) e un bambino continuamente intento a lanciare freccette. In seguito l'attore gli regalerà un cappello da cowboy, simile a quello indossato dal bambino: all'interno di questa equazione che indica la cultura americana come storicamente e psicologicamente arrogante e infantile, Bakshi si trova a interpretare un ruolo doppiamente subalterno identificandosi con un altro indiano, l'indigeno d'America, tanto che dirà: "Grande capo bianco, lingua biforcuta!" nella scena in cui l'attore e il produttore lo spogliano con la forza per rivestirlo con una tuta, guarda caso, rossa.
Quando poi difende la sua amica dalle ire del marito, al suo "Ma chi ti credi di essere?" risponde: "Noi in India non crediamo di essere, sappiamo di essere". E d'altro canto gli hippies scrivono sul dorso dell'elefante che "Socrate beve la cicuta". In realtà questa felice corrispondenza filosofica fra Bakshi e gli hippies non è palesata e neppure Bakshi, ovviamente, se ne rende conto. Tuttavia c'è fra loro un'affinità di vedute, che ha tempo di configurarsi in altro modo, tramite la stessa figura dell'elefante, a partire da un piccola lite di costume. L'indiano, infatti, ha ancora qualcosa da insegnare ai suoi giovani amici americani: riconosciuto il suo animale nazionale, ma indignatosi nel vederlo ricoperto dagli slogan colorati della controcultura, Bakshi reagisce: "E' un offesa! Cosa direste voi se io dipingessi un paio di baffi neri alla vostra first lady?" Allora si decide di comune accordo di lavare l'elefante. Gesto che rappresenta forse l'atto d'amore e di liberazione più grande: un rispetto e una sensibilità superiori spingono a purificare l'animale dalle stupide dispute ideologiche degli uomini e a restituire al corpo e alla sua assolutezza il luogo privilegiato della rivolta, che, come il vero cinema comico, non ha bisogno di parole. Per quanto riguarda il mondo di Hollywood, invece, è chiaro che non basterà tutta la schiuma da cui si ritrova sommerso a lavare la sua coscienza.
HOLLYWOOD PARTY
(Usa, 1968)
Regia
Blake Edwards
Sceneggiatura
Blake Edwards, Tom Waldman, Frank Waldman
Montaggio
Ralph E. Winters
Fotografia
Lucien Ballard
Musica
Henry Mancini
Durata
99 min